ECCE ROMA [IV] PDF Stampa

La situazione artistica della capitale, oltre che dalle testimonianze più o meno concrete, elusive o poetiche, dei diversi personaggi che collaborano alla nostra inchiesta, traspare anche da determinate assenze. I caratteri della romanità, infatti, emergono sia dall’entusiasmo di quanti, vivendo intensamente le problematiche della città, sentono la necessità di aggregarsi e di intervenire in prima linea, sia dalla lentezza dei pigri e dalla passività dei burocrati delle istituzioni pubbliche che, trincerandosi nella retroguardia, promuovono l’incultura e frenano i processi innovativi. A tempo debito non mancheremo di ringraziare questi ultimi per il loro eloquente non-contributo al dibattito.

Alle due categorie sopracitate se ne aggiunge una terza, quella dei rassegnati, i quali, avendo coscienza dell’inespugnabilità di certi presidi, aspettano il peggio.

Tutto ciò, allora, prova che in certi centri di potere non c’è ancora sufficiente volontà (e forse neanche capacità) di seguire le trasformazioni imposte dai tempi.

In questo contesto molti operatori, per sopravvivere, sono costretti a trovare individualmente una via d’uscita. Ciò vale pure per noi che non ci accontentiamo di registrare l’esistente.

 

Gabriele Perretta, critico d’arte

Nel settore delle arti visive, come in qualsiasi altro organismo culturale contemporaneo, non trovo per niente interessante, né corrispondente a realtà, l’individuazione di una identità romana. Roma, Parigi, Berlino si stanno trasformando in luoghi di transito e offrono tante occasioni quante ne rifuggono e ne ripudiano. Più che di città e di proprie identità, bisognerebbe parlare di quartieri, di differenze molteplici tra essi, di occasioni. Ci sono delle zone che vivono il rapporto con la cultura e le istituzioni del territorio in maniera squilibrata ed altre invece che non lo vivono proprio, ma non c’è un posto dove si viva effettivamente un rapporto tra luoghi, produzioni e segni. Roma, Ginevra, Los Angeles: le accomuna quel cielo arancione inquinato dalle piogge acide, squarciato da file automobilistiche che alimentano i gas di scarico e che fanno a gara fra le quantità di corporations che accolgono per produrre danaro e considerare sempre più superfluo il senso dell’arte. Questi centri sono uniti da qualcosa che è lontano, distante dalle gallerie pubbliche e private. È come se l’immagine fosse altrove e in quell’altrove costellasse l’ “ovunque”. Ci sono tante di quelle immagini sui grattacieli, sui palazzi, nell’aria, dietro le vetrine battute dalla pioggia che quella folla spesso rumorosa ed ibrida preferisce continuare il suo viatico metropolitano evitando le noiose gallerie che espongono le ultime tracce e gli ultimi rampolli di un sistema in continua estensione. Fuori, tra le vie sporche, nei sottopassaggi, tra le immondizie, tra gli sbuffi di vapore e le pozzanghere c’è una quantità enorme di immagini multicolori e non sono le stesse che si vedono nel sistema dell’arte. Questo in una grande città come Roma, come in tante altre grandi città, viene automaticamente emarginato, sparisce, scompare, è terribilmente depotenziato dalla sua stessa vacillante forma organizzativa. Tutto ciò si aggiunge al fatto che a Roma, già da molti anni, esso non c’è più e non ha più ragione di esistere. Non riesce ad essere neanche la falsa  replica di qualche altra cosa perché è davvero inesistente e per quei pochi operatori che tentano ancora di tenerlo in vita appare come una specie  di “cul de sac”.

Penso che fra avanzamento della ricerca artistica e critica dovrebbe esserci una relazione, fatta di scambi culturali, di riflessioni e di proposte, ma il sistema dell’arte non permette più tutto ciò, dicendo che non c’è tempo per farlo e non è neanche necessario. Per quanto mi riguarda ho più volte detto e ribadito attraverso l’organizzazione e la cura delle mie attività, che la critica dovrebbe avere un ruolo forte, fortissimo, sempre più forte, e mi riferisco alle sue capacità e possibilità di interpretazione. Ma tutto ciò da chi è accolto e chi lo prende in considerazione? La verità è che non frega niente a nessuno e questo incide sul soggetto, anche il soggetto dell’opera è perso. Qui siamo persi. Addio anche al costruzionismo.

Sono convinto che il contesto culturale della capitale omologhi soltanto il cattivo gusto. Ma questo non è uno svantaggio, è uno dei suoi fiori all’occhiello. E in ogni caso, dov’è il bel gusto? Il capitalismo contemporaneo è capace di produrre bellezza, sublimità? La fantasmagoria della merce non è mica il Lacoonte di Lessing!

Roma, pur nutrendo un grande interesse da parte di cenacoli e centri di attività artistica d’oltralpe, o in particolar modo newyorkesi, non ha alcun rapporto di confronto con nessun altra condizione metropolitana, simile a se stessa o differente da se stessa. Vivere a Roma per un artista contemporaneo è come rifugiarsi a Martinica alla fine dell’Ottocento e l’ambiente torbido, spesso familistico e settario, che si viene a creare e si rinnova periodicamente nella città, grazie ad una mancanza effettiva anche dello scambio di merci artistiche, giunge a fare da padrona, da strumento di pulizia etnica, così come nelle guerre fratricide.

È da molto tempo che c’è e non si persegue più un’originalità creativa fine a se stessa, esistono nuove presenze ma se sono intelligenti stanno pensando di produrre nuove forme di attenzione, allontanandosi dalle regole del vecchio sistema e spingendo altre realtà creative. Tra le forme più interessanti di arte recente a Roma e altrove non è importante né l’elogio né la frattura con la cultura della città, ma semmai altre condizioni dello sguardo dove è considerato il rapporto con la metropoli.

La collaborazione pubblico-privato non è né necessaria né rischiosa, è soltanto inevitabile per la fase attuale del capitale europeo. Roma è una piccola periferia di un impero che è altrove, dove al mercato non importa né della salvaguardia di una possibile identità artistica, né della sua rottura. Anzi, a Roma non essendoci mercato per quanto riguarda le cose artistiche, il capitale insieme alle istituzioni si occupa di tutt’altro e lascia alle false élite le briciole di cui ha bisogno. All’arte resta dunque il compito di sfondare nel reale più reale, più di qualsiasi reale.

 

Alfredo Pirri, artista 

Cosa poter dire di Roma? Io non vi sono nato, è la mia città d’adozione. Come succede in tutte le adozioni, qualche scoria  rimane ad inceppare un rapporto veramente familiare. Le domande non riguardano la mia persona ma la città. Questa città, però, nega ogni risposta; forse anche quest’affermazione è una fuga per non dire nulla di concreto, oggettivo nel senso di oggetto esistente, controllabile dalla vista. Le mie risposte non hanno nomi, luoghi e prospettive, ma sono solo poetiche, cioè ispirate da affetto, o patetiche, cioè finalizzate a muovere affetto. Ma affetto verso che? Verso quello che è stato, quello che è, quello che sarà? Cos’è vero? Che quello che è stato non è, che quello che è non sarà? Oppure quello che è stato è l’essere che sarà? Roma offre risposte poetiche e patetiche ed anche le mie parole lo sono. ROMA è la città della pietà; della pietà che si fa pietra. Come tutti sanno, questo sentimento ha salvato le sue pietre dalle bombe di tutti i nemici e quindi noi oggi siamo costretti a conservarne la memoria. Ci è stata negata la possibilità che offre la pagina bianca, materia che terrorizza ma pure ispira. L’astrattezza del bianco, in questa città, non raggiunge mai vertici di sogno. Nel tentativo che esso fa di svincolarsi dalla carne, si macchia irrimediabilmente delle tinte della decadenza che vede in anticipo. Ecco, questo intravedere prematuramente la caduta, questo convivere con essa, questo percepire il tempo futuro come fine e non matrice, rende il pensiero astratto immanente; qualcosa che rimanendo in sé vive il proprio decadere giorno per giorno. Stare ed andare si equivalgono, perché l’andare scoperchia costantemente un nuovo stare; e questo si mostra in tutta la sua precarietà religiosa: uno stare traballante. Ogni romano ha la percezione di stare su qualcosa che vibra, non fisicamente, come nel resto del sud per via dei terremoti, ma spiritualmente per via di quel tremore mistico che sta alla base di ogni solido impero politico.

Sono poi arrivati come rabdomanti in cerca di questo tremore sotterraneo i cantori di periferia delle periferie e sono durati fin’oggi, fino a quando cioè le periferie sono state invase dal centro che non c’è, da quello commerciale. Le mille piazze-punti vendita che hanno a lungo assediato la città, hanno sconsacrato le chiese, gli obelischi, i caffè riducendoli a “monumenti di carattere storico artistico”, dove storico sta per perduto e artistico per illuminato. Ecco quindi brillare la luce su quello che è perduto. I cantori sono rimasti senza oggetto da cantare, prede da mostrare, miraggi da pregare. Nelle strade si muovono ancora balbettando le loro poesie che a volte sono degli inni lamentosi, che non trovano un altare a cui consacrarsi, un partito a cui votarsi.

Eppure ci rimane qualcosa da cantare oltre il lamento! Qualcosa che ci accorre incontro con la pietà di sempre: tenerezza verso l’arte, misericordia per gli artisti, compassione per il corpo, comprensione per la forma. ROMA è oggi oggetto di attacchi razziali perché qui sopravvive un genere che non è in rovina, né perché è polvere (non si è restituito alla polvere), né perché è digitale (non si è affidato al numero). ROMA è (forse) l’unico luogo dove l’arte non viene sottoposta all’umorismo interattivo, gli artisti non sono visti come creatori di universi possibili, il corpo non viene rappresentato a pezzi, la forma non è sfaccettata.

In una parola, tutto questo è conservazione? Forse sì, d’altronde non conosco poesia che non sia mossa dall’obbligo di conservare. Il resto è gioco del linguaggio che non è possibile fare solo su una pagina bianca.

Come si vede la mia poesia patetica lascia le cose come stanno, non perché stiano bene al loro posto, ma molto più realisticamente perché questo è il loro essere. Come direbbe un amico filosofo: bisogna lasciare le cose alle cose, solo così l’arte interviene sul mondo.

 

Thorsten Kirchhoff, artista

A dire la verità sono un paio d’anni che manco da Roma, ad eccezione di qualche puntata ogni tanto. È proprio da questa frequenza saltuaria che forse ho potuto meglio percepire i cambiamenti o meno di questa città che ho invece vissuto assiduamente dal 1984. C’erano, magari agli sgoccioli, l’Estate Romana di Nicolini, le grandi mostre, l’ambiente internazionale; insomma, un’atmosfera diffusa di cultura e creatività. Che i tempi cambino è naturale, Roma però si è semplicemente spenta man mano, senza ulteriori sviluppi in un senso o nell’altro. È apparentemente tornata ad essere se stessa: autarchica, torpida, colpevolmente distratta. A Roma i confini del mondo sono il grande raccordo anulare. Nessuno si fa domande, nessuno chiede niente a nessuno. Forse è la posizione geografica, forse il bel clima, ma mi pare che gli addetti all’arte generalmente si spostino poco. Penso che sia soprattutto per mancanza di curiosità. Del resto l’incomming  si può dire inesistente. La Quadriennale avrebbe potuto essere una grandissima occasione di richiamo. Purtroppo temo sia stata solo l’ennesima conferma per chi già nutriva pregiudizi verso la situazione romana. Il guaio è che Roma, al contrario del nord, non ha un sistema in grado di promuovere e distribuire l’arte. Idee, concetti, modi artistici rimangono fini a se stessi. Tranne poche eccezioni. Tutto sommato mi sembra che il confronto tra il mondo artistico romano e un altrove  sia scarsamente presente e che questo rimanga il problema fondamentale.

 

Mariolina Bassetti, responsabile della Christie’s - settore arte moderna e contemporanea Italia

Parlando delle arti in generale, la nostra sala romana è sempre piena con una partecipazione brillante. Mi riferisco in particolare alle ultime aste in cui abbiamo riscontrato una risposta positiva del pubblico. Anche la percentuale di venduto è in rapporto a questa situazione e si sono registrati prezzi più alti rispetto alla stima riportata in catalogo. Di solito si arriva all’asta con molte offerte scritte e telefoniche. Rispetto agli anni della crisi, intorno al 1992, stiamo registrando un incremento notevole. Il pubblico ricomincia a partecipare anche alle aste di arte contemporanea. Il figurativo si vende meglio dell’astratto, come sempre nei momenti di maggiore incertezza, preferibilmente i nomi più consolidati, quelli storici. Si è verificato, per esempio, che un Morandi sia stato aggiudicato ad un prezzo triplicato rispetto a quello di base. Questi sono riscontri positivi. Anche i bei Guttuso trovano acquirenti a Roma e a Milano. In genere l’astrazione con i nomi di secondo piano è il settore più castigato, però gli artisti importanti sono sempre richiesti. Un Afro ha raggiunto il doppio della stima, Vedova i 115 milioni.  Le nuove generazioni risentono un po’ di più della crisi, per cui in questo momento non consiglierei a un giovane artista di mettere in asta le sue opere. Per giovani intendo la generazione dei quarantenni, perché per i pezzi degli anni Sessanta di Kounellis, Paolini e Pistoletto non mancano offerte. La partecipazione è grossa, nonostante non ci sia ancora un pubblico interessato alle ricerche più attuali. I vecchi collezionisti continuano ad essere presenti; inoltre, ce ne sono altri tra i trenta e i quarant’anni, che cominciano, magari dalla piccole opere, per lo più di autori storici. C’è voglia di interessarsi all’arte e questo è un dato incoraggiante. Per una più decisa ripresa bisognerebbe organizzare manifestazioni artistiche di rilievo. Purtroppo a Roma abbiamo povertà di esposizioni sia nei musei, sia negli altri spazi. La Galleria d’Arte Moderna non ha la possibilità di avere una consistente mostra permanente e di organizzare quelle di richiamo, per cui la sua azione non risulta incisiva. Auspicherei delle manifestazioni di carattere formativo, ma qualsiasi tipo di esposizione porta ad un risveglio dell’interesse. Il problema del pubblico romano sta nel fatto che non è stimolato, non ha occasioni che lo spingano a saperne di più, a voler avere sulle proprie pareti delle opere. L’arte contemporanea a Roma è carente, anche perché le gallerie private stanno attraversando un momento di particolare empasse. Dopo Tangentopoli Roma ha risentito più di altre città  della crisi politica. La gente si è fermata nel comprare. Noi, coprendo un territorio nazionale ed internazionale, ne abbiamo patito meno. D’altra parte le iniziative sbagliate non toccano ormai i nostri clienti.

 

Matteo Basilé, artista

La situazione a me sembra migliorata. Roma è pur sempre la Capitale e, come tale, accoglie tutte le situazioni emergenti internazionali. Il carattere indolente e distratto di questa città può trarre in inganno. Negli ultimi tempi alcune gallerie coraggiose hanno cercato di scuotere questo periodo di crisi con iniziative interessanti, a cominciare dalla Giulia che ha aperto la scorsa stagione con una fantastica mostra di Keith Haring inediti e ha continuato con l’apertura, al suo interno, della Sala Quadrata, uno spazio dove vengono presentati giovani artisti da altrettanto giovani critici; il tutto coordinato da Emma Politi. Non meno interessante è la riapertura in una nuova sede della Galleria Arco di Rab, dove, a fianco di Dea Bedin, Alessia Gallo lavora sulle nuove generazioni ed ha inaugurato con una personale di Urs Lûthi. Anche la Galleria di Emanuela Oddi Baglioni continua a presentare dei giovani come Andrea Salvino. Infine, Il Ponte, sempre con uno sguardo internazionale nella scelta degli artisti che vanno da David Beirn a Herwin Holaf, a Cristiano Pintaldi.

Un altro fenomeno strano per Roma è la nascita di luoghi alternativi dove l’arte si sta muovendo. Parlo di un locale in cui bevi una birra, ascolti della musica e soprattutto vedi (si spera) una bella mostra. Chi ha dato il via a questo tipo di Coffee Gallery è stato Pino Molica con l’ “Explorer”. Recente l’apertura di “Altri lavori in corso” di Marco Rossi Lecce che, in uno splendido spazio al Pantheon, ha creato un altro Coffe Gallery, raffinato e poco diversificato; forse per questo, in sintonia con i tempi. Credo che il vero problema di tale attività sia la comunicazione. Roma non sa quel che fa Milano e così Firenze con Napoli. Siamo, paradossalmente, in un’Italia dei Comuni, tutti arroccati nelle proprie fortificazioni, con pochissimi messaggeri che danno informazioni. Questa anomalia sta per crollare grazie ad una rete telematica straordinaria che stiamo mettendo in numerose gallerie e spazi italiani. Avremo mostre e incontri in diretta in più luoghi di città italiane e non. Mi sembra che stiamo proprio sul crinale, su un benefico Blade Runner che taglierà il vecchio e faticosissimo modo di organizzarci e di stare insieme. Questa rivoluzione porterà, anzi sta già portando, una sostanziale modifica nel linguaggio critico che deve abbandonare un lessico criptico per iniziati e deve farsi capire da chi è in rete. I linguaggi cominciano a fondersi e le cosiddette “contaminazioni” sono obbligatorie per essere suadenti sullo schermo video. Il teatro, la musica, il filmato, la voce, tutto è contemporaneamente in moto per comunicare. Questo significa uno spostamento di pensiero della critica  che è ormai inutile chiamare così. Il testo è parte della creazione e non si affianca ad essa; il testo si fa voce dell’immagine e lavora con essa, non per essa.

A cura di Luciano Marucci

4a puntata, continua

 [«Juliet» (Trieste), n. 82, aprile-maggio 1997, pp. 40-41]