ECCE ROMA [VIII] PDF Stampa

Arianna Di Genova, critica d’arte de’ “Il Manifesto”

Roma e l’arte. O meglio, Roma e l’arte contemporanea. Un rapporto complicato, con improvvise impennate d’odio e altrettanti rapimenti di passione. Gli estremi si toccano. Sono molte le giovani generazioni che si cimentano con installazioni e materiali inediti qui, nella città eterna. Sperimentano in collegamento virtuale col mondo e in perfetta solitudine nei loro ateliers. Nella capitale, non si campa di sola arte. È questo un lavoro che spesso rimane sommerso e esce alla luce solo per chi voglia avventurarsi in percorsi necessariamente fuori circuito. Già, perché Roma accetta la contemporaneità ma non la promuove. La lascia crescere all’interno del suo ventre ma non ne fa un fiore all’occhiello.

Le istituzioni pubbliche? Girano intorno ai giovani, li adulano, ne accarezzano le opere, li chiamano in collettive foltissime e poi abbandonano ognuno al proprio destino. Così gli eventi romani si contano sulla punta delle dita. E le occasioni migliori non provengono dalle burocratiche Quadriennali o dai censimenti artistici. Piuttosto s’insinuano nelle gallerie private, grazie a quei mercanti che amano il rischio e sanno scommettere su qualche talento ancora non quotato tra i collezionisti. A Roma insomma è saltato il gradino intermedio, quello della ‘presentazione al mercato’ degli artisti, l’anello della catena più importante. Di galleristi lungimiranti non ce ne sono granché. La new wave romana procede quindi a zig zag, affidandosi alla fortuna di una stagione o alla programmazione privata.

A Roma - cosa gravissima - non esiste il piccolo collezionismo, né la figura (un po’ romantica, forse) dell’amatore senza il suo clan. Si va esclusivamente per cordate. Chi espone in città (giovane o meno giovane), sa a priori che non potrà guadagnare dal suo lavoro. Lo sa e lo considera scontato. Male, malissimo. Non è questa la strada per un welfare che promuova il contemporaneo. Certo, qualche passo è stato fatto, anche dalle pachidermiche istituzioni pubbliche. Alla Quadriennale, per esempio, sono stati riammessi i premi per i vincitori. E altre manifestazioni si sono concluse con una premiazione in somme di denaro. Molto, moltissimo è ancora però affidato all’improvvisazione dei ‘volontari’: artisti che aprono i loro studi, giovani critici che interagiscono con gli autori e sono i veri ‘compagni di strada’ di una creatività altrimenti lasciata in sordina.

 

Ludovico Pratesi, critico d’arte, direttore di “Artel”

Il confronto tra Roma e un altrove è quasi inesistente. Roma è una città abbastanza chiusa. Non nutre lo stesso interesse per l’arte internazionale di Milano, Torino o Napoli. In linea di massima, più che di immobilismo, parlerei di chiusura culturale. Tra i principali responsabili di questo isolamento ci sono i galleristi, nella maggior parte dei casi poco coraggiosi. Alcune gallerie, soprattutto quelle giovani, fanno un lavoro interessante, aperto, però sono poche. Mi riferisco alla “SALES”, a “Il Ponte Contemporanea”. Le altre attuano programmi più classici, meno innovativi.

A livello pubblico, ci si sta muovendo. Il rapporto tra arte contemporanea e istituzioni si va sviluppando. La giunta di sinistra, recentemente, ha mostrato l’intenzione di voler operare in questo senso, però, è tutto da verificare, visto che non si sa ancora con chiarezza come saranno fatte le cose.

La critica partecipa al dibattito. Alcuni giovani mi sembrano attenti, coinvolti. Certi dell’età di mezzo, come Laura Cherubini, lavorano con impegno. Poi ci sono personaggi come Achille Bonito Oliva che ancora fanno sentire la loro influenza sulla città.

Non mi sembra molto originale la ricerca artistica. Qualche giovanissimo sta dando una sterzata nuova: Matteo Basilé lavora con Internet e le nuove tecnologie, Cristiano Pintaldi fa una pittura in bilico tra tradizione e mondo tecnologico. Gli artisti della generazione precedente non appaiono particolarmente interessanti risentendo di un ambiente un po’ conformista. Quindi, credo di più nelle nuove generazioni e spero siano loro a togliere un po’ di ruggine.

L’editoria d’arte non gode buona salute. Il settore non è adeguato alle necessità. Essa è diffusa soprattutto al Nord. Ci sono riviste che escono poco, mentre “Artel” è veloce, anche se povera e senza immagini. È il primo quindicinale d’arte mai esistito in Italia, nato per cercare di colmare i vuoti di questa città e di questo Paese. Sulle altre riviste le recensioni avvengono in ritardo, generalmente a mostra chiusa. “Artel” riesce ad agire con relativa tempestività. Non è facile tirare avanti, ma ci provo, dati anche i costi contenuti.

A Roma fondamentalmente manca il coraggio di andare oltre, di guardare al nuovo, di uscire fuori dalle mura. Al contrario, bisogna che il mondo dell’arte esca dal suo piccolo recinto, altrimenti ci crepa. Da qui la mia speranza che qualcosa succeda e che nei prossimi anni si verifichi un cambiamento.

 

Roberto Memmo, Presidente Fondazione Memmo

A Palazzo  Ruspoli non c’è mai aria di crisi. Qualunque mostra richiama un gran numero di visitatori. Ci siamo imposti programmi di rilievo, con pezzi presi per lo più all’estero, per dare la possibilità a chi non può recarsi in altri paesi di godere di certi tesori dell’arte. Abbiamo scelto di andare sul sicuro lavorando sulla storia. E nel programmare facciamo riferimento ad un comitato scientifico costituito da qualificati studiosi. Il Palazzo è diviso in tre settori che possono proporre parallelamente tre mostre diverse: una al primo piano, una al mezzanino e un’altra nelle scuderie, di solito riservata alla modernità.

I nostri programmi attuali sono impegnativi: innanzitutto abbiamo la mostra, “Fayum, misteriosi volti dall’Egitto”, che per miracolo è arrivata in Italia. L’abbiamo organizzata in collaborazione col British Museum. In contemporanea allestiremo un’esposizione di Hart, grande scultore americano che ha regalato una croce di cristallo al Papa. Infine, ci saranno “Le battaglie”, in collegamento col Ministero della Pubblica Istruzione e quello della Difesa. Abbiamo riunito i dipinti sulle 14 battaglie che sconvolsero la storia  a partire da Troia fino a Stalingrado, passando per Lepanto e così via. A supporto delle immagini ci saranno alcuni importanti oggetti. Il nostro collegamento con il British è fondamentale; lavoriamo anche con il Getty e in Italia con tutte le Soprintendenze con le quali abbiamo stipulato convenzioni. Di volta in volta ne stabiliamo altre con enti diversi.

Oltre le mostre, organizziamo convegni, incontri culturali. Per “Nefertari” se ne sono tenuti circa dieci con esponenti di primo piano nel mondo. Intratteniamo ottimi rapporti con il Ministero, e gli enti pubblici. Rappresentando il privato, siamo completamente autonomi, ma nella presentazione delle mostre, oltre alla Fondazione, di solito, interviene qualche Soprintendenza.

Il problema di far quadrare i conti per la nostra Fondazione non esiste. Essa possiede un patrimonio che spende per fare cultura, anche se non guadagniamo perché ogni anno reinvestiamo tutto ciò di cui disponiamo. .

La gente partecipa in maniera eccezionale. Con “Nefertari”, organizzata proprio per rispondere a un bisogno di conoscenza, abbiamo superato il milione di presenze. Penso che non si potesse volere di più. Roma partecipa con entusiasmo, come Torino, città dove spostiamo alcune nostre esposizioni. Possediamo anche uno spazio a Lecce, mentre il Sindaco Cacciari ci sta aprendo Venezia in cui porteremo Nefertari. Per la verità avevamo iniziato nella città lagunare con Canova. Ora copriamo quasi completamente il territorio nazionale. Torino e Venezia per il Nord, Roma per il Centro e Lecce per il Sud. Qualche mostra è itinerante, per il resto, i programmi sono separati.

Il pubblico che ci segue è vario. Certamente predominano gli amanti della cultura, ma vengono anche molti studenti che trovano nella Fondazione il luogo privilegiato per la presentazione di certi beni artistici.

In pratica, a Roma di grosse gallerie private ce ne sono poche: la Doria, la Colonna e la nostra. Non ne vedo altre. È vero, vi operano alcune gallerie d’arte contemporanea, ma non seguo troppo la loro attività.

La Fondazione attualmente è un fenomeno a parte. Ha spinto anche altri a fare, con l’obiettivo di migliorare. Noi volevamo portare Roma al centro dell’attenzione e mi pare di esserci riusciti. Oggi è diventata una delle capitali dell’arte. La Fondazione, il Comune e il Ministero competente hanno preso iniziative che superano di gran lunga quelle di Parigi e Londra. Ovviamente, guardiamo a ciò che si fa all’estero; in questo momento, all’Impressionismo e all’Espressionismo.

 

Federica Di Castro, storica dell’arte

Il Comune di Roma mi sembra si stia attivando molto bene in una situazione se non del tutto realizzata, in fieri, perciò positiva. La Galleria d’Arte Moderna sta facendo un grosso lavoro, anche se non c’è una sezione d’arte contemporanea con il relativo spazio espositivo. Sono molto negativa, invece, rispetto ad altre istituzioni.

Secondo me, manca una scuola universitaria che formi dei critici in grado di promuovere e di realizzare certe iniziative. Metterei in discussione soprattutto la situazione della critica, di quella giovane che non è formata adeguatamente anche per mancanza di volontà da parte dell’Istituto di Storia dell’Arte. E di questo accuso molto apertamente Calvesi.

La “Calcografia” è un piccolo luogo dove ci si occupa di un settore specifico come l’incisione, il disegno, la fotografia. Un po’ l’antico, un po’ il contemporaneo. Da quando non c’è più la Farnesina, ha uno spazio ridotto e non può essere presa ad esempio come luogo che essenzialmente espone l’arte contemporanea. Siamo riusciti a condurre un’attività abbastanza libera per avere limitato le pressioni ministeriali ed universitarie sulla scelta di artisti da proporre. Inoltre, occupandoci di materiali cartacei, abbiamo avuto l’occasione di promuovere delle innovazioni importanti. La collezione del contemporaneo, quindi, va acquistando un certo rilievo.

Chiaramente, siamo in rapporto con altre strutture e lavoriamo anche all’estero. A Roma, mentre la Galleria d’Arte Moderna terrà la mostra per gli ottant’anni di Vedova, noi proporremo le sue incisioni. Ad Israele abbiamo preparato una grande esposizione di capolavori della nostra collezione di cui una parte riguarda il Novecento.

Molti giudicano il settore dell’incisione in crisi. Per me vanno bene tutte le tecniche. L’importante è il risultato. Non faccio una questione di artigianato che dovrebbe sovravvanzare rispetto ad altre tecniche più fotomeccaniche e computerizzate. Oggi le possibilità sono infinite. La pratica artigianale va benissimo se governata dalla testa. Non direi che le nuove tecniche abbiano fatto perdere credibilità al prodotto classico, anzi, alcuni incisori si accaniscono proprio per questo sulla manualità. Vedova è uno dei casi. Un artista che io amo molto è Maurizio Pellegrin che lavora artigianalmente su grandi formati pur essendo un concettuale puro. Recentemente a Lublijana ha vinto uno dei premi più importanti.

Tra i nostri programmi è in via di definizione una mostra omaggio alla Stamperia Bulla, un vecchio laboratorio romano che dall’Ottocento si è occupato di litografia e, successivamente, di altre cose.

Per rendere più incisiva la funzione dell’Istituto Nazionale per la Grafica, stiamo riattivando la stamperia, che è già stata ristrutturata, permettendo l’accesso agli artisti contemporanei e promuovendo contatti. Ciò è stato ribadito in un convegno didattico in cui erano riuniti giovani storici dell’arte e studenti: occorre creare un rapporto diretto con gli artisti e poter dialogare con loro nel momento in cui lavorano. Questo tipo di attività fu iniziato con Luca Patella, ma poi si interruppe. L’importante è ricominciare.

Vorrei che certe tecniche riacquistassero il peso che hanno avuto in passati periodi storici, che sia dato loro un impulso maggiore e siano poste in relazione alla ricerca artistica contemporanea, perché spesso si tende a ricacciare l’incisione dietro nel tempo e a non confrontarla con il pensiero e con l’arte contemporanea.

A Roma alcune gallerie private funzionano meglio, altre meno.

La critica non mi sembra partecipare attivamente al dibattito culturale. D’altra parte è diventato silenzioso anche nel contesto nazionale.

Spesso si lascia sedurre dal potere chi non ha energie che vanno al di là di questo discorso o chi non ha gli strumenti che gli permettono di esprimersi diversamente.

Roma ha parecchi artisti interessanti, delle vecchie generazioni e delle nuove. Il dato più notevole è che tra questi ultimi operano molte donne, però c’è un po’ di disorientamento. Frequento giovani artisti, visito i loro studi. Ogni tanto mi capita di vedere mostre di rilievo, ma - ripeto - manca il collante della critica militante che non esiste, tranne qualche caso isolato.

 

L’inchiesta sulle arti visive a Roma si conclude qui. Ha visto coinvolti personaggi di diverse generazioni e orientamenti. Molti hanno partecipato con entusiasmo; alcuni  rappresentanti di organismi pubblici, dopo aver temporeggiato, si sono tirati indietro. Senso di colpa? Inefficienza? Incompetenza? Pigrizia? Anche la latitanza è eloquente.

A conti fatti, gli interventi privilegiati sono risultati i più incisivi alla crescita culturale della città.

Chiaramente, otto puntate non sono state sufficienti per focalizzare in pieno i vari aspetti di una situazione complessa, ma hanno fatto emergere un quadro abbastanza realistico di problematiche vive, individuando i mali che caratterizzano l’attuale momento e raccogliendo i suggerimenti per possibili risanamenti. In ogni caso, ci sembra raggiunto lo scopo di portare allo scoperto ideologie e intenzioni di chi ancora non aveva trovato modo di esternarsi.

A Roma, ma purtroppo anche in altre città, manca una seria politica di incentivazione e di ridefinizione dei ruoli; non si assumono iniziative che creino momenti di confronto dialettico e di riflessione. In altre parole, non esiste un  progetto complessivo indispensabile per coordinare le  componenti del sistema e avviare i cambiamenti strutturali. Ciò, in fondo, dimostra che l’arte viene considerata un bene superfluo, se non addirittura una via scomoda. Eppure una capitale che ha un antico prestigio internazionale e che ha dato un significativo apporto allo sviluppo dell’arte moderna e contemporanea, non merita di essere abbandonata a se stessa.

In un contesto non governato, frammentato e in difficoltà, è ovvio che ognuno scarichi le responsabilità sull’altro e che anche le proposte geniali restino nell’aria. Il più delle volte ci si limita ad esercitare il mestiere, a resistere più che ad essere concorrenziali, senza cercare di relazionarsi con l’esterno. Così molte gallerie private non rischiano più di tanto, le istituzioni museali si muovono al rallentatore, la commistione pubblico-privato non decolla e, quindi, l’attività espositiva risulta stanca. Allo stesso modo la critica asseconda più che promuove, la ricerca risulta poco dinamica, il collezionismo, di cui si sono perse le tracce, non è invogliato a ricomparire. C’è chi elogia la memoria storica vedendo l’identità romana come difesa del passato; chi ritiene che essa ostacoli il processo di modernizzazione. Altri accusano l’assenza di un sistematico confronto tra Roma e un altrove e confidano nel potere delle nuove tecnologie di comunicazione.

Fra i chiamati in causa domina la voglia di reagire al diffuso decadimento e allo stato di crisi congiunturale che sembra non finire mai. L’energia per andare avanti con spirito combattivo c’è e lo provano alcune nuove gallerie che incoraggiano artisti e critici giovani, i quali sono tra i più determinati. Ma l’azione positiva dei singoli non basta per modificare radicalmente le cose. Allora, ancora una volta, in attesa di tempi migliori, si deve contare sull’istinto di sopravvivenza dell’arte, su quegli impulsi creativi che possono essere frenati, ma mai repressi

Ci auguriamo che il dibattito abbia contribuito a risvegliare le coscienze.

Un doveroso ringraziamento a quanti hanno sostanziato il servizio con le loro testimonianze.

A cura di Luciano Marucci

8a puntata, fine

 [«Juliet» (Trieste), n. 86, febbraio-marzo 1998, pp. 40-41]