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Globalizzazione: parola invadente..., avvincente e insieme inquietante, per le influenze sul processo di trasformazione in atto che mette in discussione il concetto stesso di soggetto e comunità.

Com’è noto, il fenomeno, determinato da una quantità di fattori interagenti, investe tutti gli ambiti sociali a livello planetario ed è incentivato, in particolare, da tecnologia, comunicazione e consumismo. Riusciamo ad intuirne la crescita esponenziale, ma non a comprenderne potenzialità e dinamiche relazionali, indotte o spontanee, né a valutarne le cause e gli effetti pervasivi nel tempo e nello spazio. Neppure i teorici e le intelligenze artificiali hanno trovato finora la chiave di lettura dei suoi meccanismi. Tra i tanti enigmi, però, è possibile accorgersi della progressiva omologazione e cogliere una contraddizione di fondo: la tendenza alla mondializzazione è smentita dal sorgere di microrealtà frammentate che ne contrastano il libero sviluppo.

Lo scenario è ricco di prospettive e di interrogativi. Globale o locale? Quali le soluzioni e le conseguenze del dualismo? Nello scontro tra cultura umanistica e virtuale, non sappiamo in che misura sopravviveranno valori tradizionali, identità autobiografiche e collettive. Inoltre, l’interiore resisterà agli assalti dell’esteriore? E la qualità sarà ancor più violentata dalla quantità?

È difficile prevedere come sarà l’uomo del Terzo Millennio; se converrà seguire i modelli avveniristici e le idee originali degli esperti o dare ascolto alla propria coscienza; se le mutazioni indesiderate saranno irreversibili. In mancanza di risposte certe, è rischioso aspettare che tutto si risolva contando unicamente sulle forze equilibratrici della Natura. Perciò, non resta che cavalcare il ‘progresso’ evitando strade antropologicamente devianti. Arrivare ad un compromesso tra entità di segno contrario sarebbe già un risultato positivo... Intanto, dovremmo incoraggiare la Cultura a formulare proposte indipendenti, capaci di ridurre l’appiattimento totale e di ammortizzare gli impatti negativi sulla realtà.

In un tale contesto di questioni aperte ha ripreso attualità la problematica Centro-Periferia, dove il primo rappresenta la metropoli con i poteri gestionali, il non-luogo, l’anonimato; la seconda le aree emarginate, l’ambiente della socialità e delle differenziazioni umane.

Proprio da queste non casuali polarità più tangibili, riteniamo vada iniziato un confronto per compiere un’analisi e - perché no - un’opera di salutare contaminazione. Infatti, attraverso habitat circoscritti, è possibile dare a ciascuno l’opportunità di partecipare con l’esperienza personale alla ricerca di soluzioni e alla costruzione del futuro prossimo. Con l’ottica settoriale si perde di vista il grande sistema, ma non il suo elemento primario che è l’universo-uomo.

Ecco, allora, che per stimolare il dibattito sulla tematica (avviato nel catalogo della mostra-inchiesta itinerante “Markingegno”, attuata nei mesi scorsi) è utile riportare le testimonianze provenienti dai diversi campi del sapere. Il comparto artistico, a sua volta, con le illuminanti risorse creative e le visioni ideali di cui dispone, non può tacere o rimanere estraneo a certi problemi esistenziali e ‘immaginazioni’ interdisciplinari. Il tutto, appunto, per approfondire i vari aspetti delle due geografie in dialettica e cercare di capire, da più punti di osservazione, dov’è oggi il vero centro, quanto esso sia lontano da noi o se, addirittura, non esista più e vada reinventato.

 

Bernardo Bernardi, antropologo

Lo straordinario sviluppo delle comunicazioni ha per effetto di rendere il mondo un villaggio globale, secondo l’espressione oggi in voga. Sappiamo degli eventi che accadono dall’altra parte del globo e li possiamo anche vedere in diretta. Possiamo essere di casa a Londra o a New York o in qualsiasi altro luogo dove ci spingono non soltanto le curiosità turistiche e gli svaghi mondani, ma esigenze di professione, necessità di cure che riteniamo di trovare solo in centri lontani. L’emigrare in cerca di fortuna, non ha più il peso della lontananza che aveva al tempo, non poi così lontano, quando l’Italia proletaria cercava fortuna nel Nuovo Mondo. Oggi l’Italia è essa stessa meta di emigranti spinti dalla povertà o in fuga dalle persecuzioni politiche. In realtà, siamo tutti vicini e tutti migranti. Nella storia dei popoli l’andare per terre e il migrare per mari ha favorito gli incroci etnici e la fusione delle culture in un rapporto costante di centri e periferie: una distinzione, centro e periferia, che sta assumendo un senso sol più virtuale. Le metropoli che costellano i continenti sono centri dove la fusione delle culture genera nuovi gruppi etnici e mette in piena evidenza l’omologazione culturale che ormai investe l’intero pianeta. Ai suoi vantaggi si assommano le perdite, soprattutto l’appiattimento delle peculiarità individuali, storiche e culturali. Le memorie del passato si affievoliscono e si perdono i valori delle tradizioni. Ma non è una perdita ineluttabile. Si tenta sempre di colmarla recuperando il passato e annullando le distanze: passato e presente, centro e periferia, non sono dissociabili. Il pendolarismo di fine settimana è un segno dei tempi che vede l’andata e il ritorno della gente dalle città ai paesi di campagna. L’abitudine non ci fa avvertire che è una ricerca delle tradizioni passate per un ritorno di freschezza. Si evade dai ritmi vertiginosi della città, dalle scadenze d’orario e di lavoro, per ritrovare nella tranquillità dell’ordine dei paesi la serenità della mente e il vigore della forza fisica. Città e campagna si rivelano così, quali sono, topos dell’animo, non diversamente dal sogno dell’americano medio - prototipo dell’uomo migrante - che si regala almeno un viaggio al paese dei padri e ritorna rafforzato nella propria identità.

 

Achille Bonito Oliva, critico d’arte

Non esiste, come un tempo, la gerarchia centro e periferia. Con la crisi dei modelli ideologici e politici non ci sono più le capitali della destra e della sinistra, del mercato. Né Parigi, né New York. Con la crisi economica tutto questo si è rimescolato. C’è una mobilità che favorisce operazioni che partono da lontano e non da vicino. Centro e periferia sono diventati luoghi di transito e per l’arte e per la critica.   

Ogni qualvolta si stabilisce un movimento egemone, ad esso corrisponde un contesto che si propone come centro di distribuzione. Prova esemplare nel dopoguerra è la Pop Art che rappresenta simbolicamente l’affermazione della nuova frontiera kennediana, attraversata da umori progressisti e rappresentata iconograficamente da una tendenza che afferma il protagonismo e l’originalità di un’arte tipicamente americana, capace di conquistare l’Europa, il collezionismo, i musei e la mentalità della gente comune. Questo naturalmente è il frutto della dialettica della storia che non va interpretata in maniera negativa, ma è certamente la conseguenza di una superiorità militare, economica e produttiva degli Stati Uniti. Sicuramente l’arte europea, operando in questa strategia di guerra fredda tra l’impero del bene e quello del male - come diceva Reagan - ovvero gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, fino alla fine degli anni Ottanta aveva conservato il ruolo del deposito della memoria futura. Un deposito di grande nobiltà storica con i suoi modelli linguistici, ma con meno potere di penetrazione, data la forza egemonica dei modelli culturali anglosassoni. Bisogna dire che, approfittando della crisi economica ed ideologica, alla fine degli anni Settanta c’è un ribaltamento di questo rapporto strutturale e, paradossalmente, per una volta la sovrastruttura prevale sulla struttura. Con la Transavanguardia s’impone un modello culturale che parte dall’Italia e affonda le sue radici nella storia della cultura europea. Trova la penetrazione negli Stati Uniti diventando un movimento egemone che ha prodotto anche in America un proselitismo. Ecco allora che il rapporto centro-periferia non è più schematico. Con la caduta del Muro di Berlino e con lo scoppio della pace fredda dopo la guerra fredda, ci troviamo in una fase in cui centro e periferia non sono più termini da usare, in cui l’artista trova il centro nella sua opera, nel territorio dove abita, nel suo nomadismo, anche utilizzando, come sistema di diffusione dell’informazione, la telematica Internet. Il rapporto centro periferia si trova in un intreccio, in una sana confusione, è uno sfumato che dà mobilità ai due termini e permette di utilizzare del centro la qualità, come luogo di confronto, di gestione culturale, di ricchezza di proposte, e della periferia l’isolamento, la solitudine, la concentrazione, come luogo dove l’artista appartato può produrre.

 

[...] Globalizzazione è un termine che sviluppa la paura della alienazione, della perdita di sé in un universo omologato in cui prevale il valore della merce e del mercato. La mobilità permette all’artista di uscirne dopo la realizzazione del suo processo creativo e può andare soddisfatto e gratificato a passeggio per il mondo.

 

Massimo Cacciari, filosofo, sindaco di Venezia

La periferia è il luogo in cui si concentra una grande quantità di contraddizioni.

Da una parte, infatti, è come se una corrente fortissima spingesse ai margini persone ed esperienze indebolite e travolte dall’evoluzione sociale ed economica della città, avviandole quasi allo sbando, alla mercè del disagio e obbligandole ad una anarchica sopravvivenza, senza alcun senso di appartenenza. Ma d’altra parte, nella periferia permane lo spirito della vecchia identità di paese o di rione e quindi restano forti tracce dei legami di vicinato e delle relazioni familiari, mentre il dialogo e lo scambio - in rapporto con l’altro - sono esperienza quotidiana di vita, e su questo si fonda il senso di una comune appartenenza. E proprio perché la periferia è terra di contraddizioni e di contrasti, accade che in essa, dal conflitto e dal disagio, nasca il nuovo: sia perché provoca e fortifica la volontà di reazione di singoli e di gruppi più consapevoli e vitali, sia perché ‘impone’ la realtà multietnica e multiculturale e la avvia, pur nel travaglio, alla convivenza e alla collaborazione. Non è un caso, allora, se nella periferia si sviluppano le ricerche artistiche più innovative, specialmente quelle nei linguaggi più in sintonia con l’oggi - prima tra tutte la musica - come se in esse si esprimesse, con il disagio del quotidiano, tutta l’ansia e la volontà di riscatto.

La periferia pone gravi problemi di degrado urbano e di scarsa qualità della vita. Ma se le istituzioni trovano il coraggio e le risorse, è proprio nella periferia che si sviluppa l’esperienza di nuovi servizi, e con essi di nuove forme di partecipazione e di intervento sociale (dai consultori ai centri sociali, dai gruppi di anziani autogestiti ai centri accoglienza per immigrati), sconosciute al ‘centro’ benestante ed egoista. Perché è ai ‘bordi’ della città, in un contesto spontaneo, in un clima ‘in-urbano’, che il comune bisogno produce ancora capacità di com-passione e di solidarietà.

 

Oliviero Toscani, creativo dell’immagine e della comunicazione

Cosa è il centro? Dov’è? Ormai non c’è più. Chi abita in una città che non sia la grande metropoli è, comunque, in periferia. Se non sei a New York, a Parigi, a Londra, sei in periferia. Milano è periferia. L’Italia stessa è la periferia della cultura.

Non credo ci sia stato avvicinamento tra le due aree, anzi, c’è sempre più distanza, anche se ci sono delle cose tornate in periferia, per esempio, la musica rap. È meglio essere in periferia nei posti centrali che essere in centro nei posti di periferia. Non serve più a niente essere in centro a Milano o a Perugia. È, comunque, periferia. Non so se questo è negativo, ma è una realtà. Ormai è chiaro che gli Stati Uniti sono al centro che non è più in Europa.

La globalizzazione è monocultura. Secondo me, è negativa. È un virus che produce appiattimento; che fa perdere i linguaggi.

La paura è la filosofia di parte dell’esistenza. Si ha persino paura di essere felici. La paura è metabolismo normale...

Non c’è più un mondo naturale. Ormai il mondo reale è quello dell’immagine. La televisione è la realtà... Lo sono i giornali e le immagini che ci circondano. Se non c’è una telecamera, una fotocamera, non esiste più la realtà vera... Cade una stella; se nessuno l’ha vista e l’ha documentata, la stella non è caduta.

 

Renato Novelli, ricercatore sociale

La rappresentazione del concetto di periferia ha assunto un arco molto ampio di significati, tanto da far apparire limitato quello primitivo riferito ai quartieri nuovi e lontani delle città in espansione. Nella letteratura specializzata si parla di economia periferica, di cultura periferica, di mondi periferici. Il sostantivo è stato trasformato in un aggettivo che sta ad indicare la lontananza di soggetti vari dai modelli di conoscenza e di comportamento più diffusi, provenienti dai centri di elaborazione delle idee e delle mode.

Da qualche tempo, con discrezione, si è affermata l’opinione che dalle aree periferiche della vita sociale, arrivino le elaborazioni più significative di punti di vista radicali. I più audaci ricordano che i grandi profeti provenivano dai deserti e che, sia Gesù che Maometto piombarono con il loro carisma innovativo da culture assolutamente marginali nelle società del loro tempo. Altri, più modestamente, fanno osservare che un numero rilevante delle grandi scoperte che hanno segnato la storia recente dell’umanità sono venute da luoghi discosti e non ufficiali di elaborazione. Le economie periferiche funzionano in modo estremamente efficiente. Dal Veneto fino alle piccole isole Riau del Mar Cinese, gli economisti tessono gli elogi dei sistemi flessibili sorti in aree a lungo ritenute refrattarie allo sviluppo industriale nei settori tecnologicamente avanzati. Così si rivalutano le esperienze espressive nate lontane dai grandi centri culturali, sull’onda di una ricerca molto affannosa di autori fattisi da sé e cresciuti nell’indifferenza.

Su un piano diverso, le microstorie di piccoli ambienti, ci restituiscono significati importanti del passato.

Insomma, la periferia figurata attraversa un periodo fortunato nelle rappresentazioni del nostro immaginario culturale.

Per essere radicali, bisogna ricordare ai sostenitori delle dimensioni periferiche che la forma più affascinante ed inquietante di cultura periferica, rimane la serendipità, cioè la scoperta apparentemente casuale di qualcosa che non si stava cercando direttamente, ma che viene individuata perché gli errori e le assunzioni dei ricercatori portano in quella determinata direzione euristica, grazie anche al contributo robusto della intuizione. Un piccolo esempio: nei laboratori delle grandi aziende si cerca, senza successo, una chiusura più efficiente della lampo; anni dopo anni, selezione dopo selezione di metodi e materiali. Un giorno, durante una passeggiata in campagna, un ricercatore osserva, per caso, le piccole spighe selvatiche che i ragazzi si lanciano reciprocamente. Rimangono attaccate con un sistema di piccoli, numerosissimi ganci. Nasce così la chiusura adesiva che troviamo in molte giacche a vento, articoli sportivi, borse, ecc.

Nel caso della serendipità, la dimensione periferica è radicale ed abita le regioni della vita individuale. A volte, abbandonare la tensione verso un obiettivo, può avere un effetto creativo. Se la conoscenza umana si prendesse meno sul serio e si aprisse a continue pause o meglio ad una continua autoreversibilità delle proprie attività, ci sarebbe nel mondo un tasso di maggiore serenità ed un uguale o forse maggiore tasso di scoperte.

Ma non dappertutto e non sempre la parola periferia può essere usata in modo figurato. Ci sono situazioni dove essa torna al significato di ambiente urbano particolare.

Nelle bidonvilles delle città africane o nelle baraccopoli dei grandi centri asiatici, la periferia urbana è una realtà sociale complessa che spesso riproduce i rapporti e l’organizzazione dei villaggi abbandonati dalla popolazione: la stessa gerarchia, gli stessi valori che regolavano la vita nella foresta, sovraintendono ai sistemi relazionali sociali. Da quelle parti, in un ambiente degradato e impoverito, non c’è alcuna possibilità di autocompiacimento. Per gli abitanti poveri dei ghetti marginali delle città dei paesi poveri, periferia vuol dire, ancora e semplicemente, esclusione dai livelli minimi di qualità della vita. Pensiamoci!

A cura di Luciano Marucci

1a puntata, continua

 [«Juliet» (Trieste), n. 87, aprile-maggio 1998, pp. 44-45]

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