GLOCALCULT [II] PDF Stampa

Ormai siamo ingranaggi di un meccanismo inarrestabile. Globalizzazione è la parola d’ordine per entrare nel Terzo Millennio che è già qui. Resta solo da vedere con quali conseguenze. Solitamente le trasformazioni del sistema che possono sembrare più innaturali scaturiscono dalla dialettica tra realtà antitetiche, tra forze progressiste e conservative, da cui sorgono altre identità. Del resto, anche la nostra condizione bio-antropologica ci rende uguali e diversi. E Consola constatare che i nuovi media tecnologici possono essere usati come moltiplicatori e diffusori delle nostre memorie divenute insufficienti... L’ibridismo stesso, necessario per esprimere la complessità in un pianeta senza più confini, quando non recide totalmente le radici e non reprime le soggettività favorendo lo sviluppo dello stereotipo, è una conquista autentica della modernità intesa come bisogno fisiologico di conoscenze e di relazioni per l’espansione della storia verso il futuro. Ma l’idea che la tribù umana, ancora legata al proprio habitat, si mondializzi, mette in crisi il senso di appartenenza, genera paure e smarrimento. Quindi, è importante che la Cultura con le sue sagge sedimentazioni non segua ciecamente i riti e i dinamismo speculativo dell’economia, dal momento che mercato globale non significa collaborazione generale. Dunque, più dell’evoluzione spontanea dovrebbe preoccupare la velocità impressa da certi processi artificiali di crescita che possono eludere i principi etici fondamentali e portare all’affermazione di disvalori. Ecco allora che agli intellettuali ancora una volta spetta divulgare il pensiero divergente per cercare di tenere sotto controllo il fenomeno eccitato da spinte troppo opportunistiche o, comunque, irrazionali e degenerative.

Da qui il dibattito aperto nel numero precedente di questa rivista con le testimonianze di un antropologo, un critico d’arte militante, un filosofo, un ricercatore sociale, un creativo dell’immagine  e della comunicazione.

Proseguiamo l’investigazione coinvolgendo altre personalità che intervengono sulla problematica, oltre la dimensione puramente estetica, fin nei territori della centralità dell’uomo. 

 

Dario Fo, autore-attore teatrale

Il Nobel di cui è stato insignito ha ridato attualità a due annose questioni: l’impegno sociale e le tecniche di comunicazione del messaggio artistico. Qual è la vera funzione dell’intellettuale nel nostro tempo?

Secondo me, un intellettuale deve essere concreto, partecipare alla vita del proprio tempo e prendersi carico di quello che succede intorno a sé. Fondamentalmente ha il dovere di segnalare ingiustizie, sopraffazioni, indegnità e, soprattutto se il suo mestiere è quello di satirico, di parlare di furbizie e ipocrisie.

 

Il suo linguaggio di guitto post-moderno può riconquistare la fiducia dello spettatore che certi ermetismi hanno reso estraneo?

Non so se sono un post-moderno o uno legato alla grande tradizione della commedia dell’arte e, in particolare, a quella dei giullari. Il teatro cosiddetto d’avanguardia mi interessa relativamente. Mi colpiscono certe scoperte, invenzioni, soluzioni, ma non mi direi dentro uno schema, un gusto, una corrente. Mi sembra importante il discorso di critica sociale, di partecipazione attiva, nella maniera più semplice e convincente, alle cose che succedono. Quindi, devo inventare delle forme di rappresentazione che entrino dentro il cervello della gente, che siano di insegnamento da una parte e sviluppino una grande emotività dall’altra.

 

Come vede l’invasiva globalizzazione in rapporto alla perdita di identità individuale e collettiva e all’affermarsi della comunità virtuale?

C’è la questione delle immagini attraverso la televisione e i giochi di un certo cinema (anche interessante da guardare e da leggere) che sfrutta tutte le tecniche più avanzate; però, a volte, il tormentone, la violenza con cui esse vengono espresse, il puntare sulla velocità e sugli effetti dirompenti del cervello, portano all’imbesuimento; alla perdita di possibilità di respiro nel giudicare. Quelli che giocano sulle vibrazioni più che sulle emozioni ragionate sono persone che io aborro. Vorrei che anche gli effetti più straordinari, quelli della massima virtualità che arriva attraverso i computers e altri mezzi tecnologici, avessero dietro la coscienza; che non ci fosse il bluff, la stimolazione esteriore sottocutanea, per cui la gente non si accorge di quello che sta succedendo nel proprio cervello. La ragione prima di tutto sta nel dare il tempo di avere emozioni sulle quali fare critica; che agiscano in profondità e non in superficie; che non diventino stordimento. Sto parlando della tecnica dello stregone, dell’emozione suscitata con immagini sofisticate e truccate basate sull’effetto. Non mi piace il puro effetto; anch’io lo adopero, ma in modo  pulito...

 

Quali differenze ha notato in questi ultimi tempi tra il pubblico dei grandi centri e delle periferie?

È incredibile, ma esistono delle differenze tra le città, indipendentemente dal fatto di essere periferia o centro. Ce ne sono certe che procurano giovani entusiasti, vivaci ed altre con un tipo di pubblico più lento, meno effervescente e reattivo, magari perché il teatro ha una struttura di abbonamenti e di tradizione degli spettacoli come “rito dell’incontro”, del confronto della condizione sociale. Dipende dalle scelte che il teatro fa di alcune compagnie rispetto ad altre. Esse determinano il gusto, l’interesse, la partecipazione.

 

È cambiato il contatto emozionale con la platea?

Assolutamente. È sorprendente vedere come ci sia un rinnovo di pubblico. Quest’anno abbiamo incontrato migliaia di ragazzi con la curiosità di vederci dal vivo per la prima volta, di sentirci in diretta. Magari ci avevano ascoltato nelle cassette-radio, ci avevano visto in quelle televisive o in pezzi riportati dalla televisione.

 

Un pubblico più colto raffredda l’esibizione o la stimola?

Se intendiamo la cultura dei professori, degli studenti delle scuole superiori o delle università di lettere, ecc., è un conto; se parliamo del pubblico in generale, è un altro. Si provano delle strane sensazioni... C’è gente semplice che ha una percezione, un’attenzione, un intuito molto più alti del pubblico medio-borghese. Come le dicevo, il pubblico meno attivo e percettivo è quello degli abbonati. Ciò non significa che non sia gente coltivata, nel senso medievale del termine, ma sono persone stanche, senza slancio. In questo senso non ci sono valori diversi tra centro e periferia. Gli abbonati di Milano sono gli stessi che a Parma, Ascoli Piceno, Piacenza, Guastalla... È una costante. Una specie di timbro d’origine.

 

Nelle aree marginali il teatro può assolvere ancora ad una funzione socio-culturale?

Ha sempre questa possibilità di grosso effetto, ma è da solo ed è zoppo. Occorre che sia legato alla scuola, all’informazione, alla vita sociale.

 

Cos’è che rende più gratificante la vita di un attore?

Constatare che delle cose che temevi fossero troppo sottili, troppo mediate o che avessero allusioni contorte, non dirette, siano scoperte in tempi di velocità maggiore di quanto ti aspettassi. Essere presi in contropiede è il massimo della gioia. E poi c’è l’inventare sul pubblico, quando esso diventa gestore e committente.

 

Per ottenere consenso le istituzioni pubbliche si stanno indirizzando verso iniziative sempre più spettacolari. È un bene culturale o un male politico?

È lo stesso discorso della televisione. La televisione di stato cerca di mettersi in concorrenza diretta con le cosiddette udienze private e allora carica di spettacolarità facile tutto quello che produce. Così ci si lamenta. Recentemente c’è stata una dichiarazione degli utenti e dei giornalisti che lavorano nelle reti televisive nazionali, soprattutto della terza rete, disperati perché la dirigenza ha spinto verso la mediocrità, la banalità, il grosso, il grasso, il commestibile, al punto che ha distrutto se non altro la faccia che avevano queste reti.

 

Il teatro impegnato ha ancora vita difficile?

Non sempre. Se non si trova il corrispettivo nel pubblico è un disastro! Molto dipende dal momento politico in cui si vive, dall’interesse che la gente ha verso i problemi sociali, dal risentimento verso l’ingiustizia, la spocchia del potere. Tutti termini che esistono dalla storia dell’umanità. Ciononostante ha una forza vitale dentro, con radici molto profonde. Riesce a salvarsi anche nelle marette più infami. Si è salvato con la democrazia cristiana, col partito socialista che ad ogni occasione lo usava come zerbino. Penso che il teatro resterà sempre e ovunque. L’importante è che la gente non si adatti al tran tran; che, soprattutto i giovani, non accettino il luogo comune del fare, magari mascherato di estetismo o di arrogante intelligenza.

 

Giancarlo Politi, editore d’arte

Tu mi chiedi un mio punto di vista sul valore e sulla presenza delle province nel contesto artistico e culturale odierno.

Personalmente non credo sia cambiato molto rispetto al passato. La provincia è sempre la provincia, con tutti i suoi lati positivi (tanti: una vita più sana, spesso realizzata, serena e distesa; una cultura più lenta, tradizionalista, più classica e spesso più profonda e certamente meno schizofrenica) e qualcuno meno positivo - ma è proprio vero, poi? - come la informazione sull’attualità culturale molto più rallentata e spesso distorta da una sostanziale latitanza rispetto allo zeitgeist, cioè lo spirito del tempo, che in provincia arriva ancora oggi con discreto ritardo e qualche volta mai. E tutto questo risulta ancor più evidenziato dal fenomeno diventato sempre più rilevante in questi anni, che è lo svilupparsi di quelle forme d’arte internazionalmente conosciute con il nome di ibridismo e che sono il frutto straordinario di migrazioni e stratificazioni di culture diverse e lontane e che in un contesto nuovo assumono sembianze e identità originali.

Assistiamo così alla contaminazione di culture locali o nazionali con le culture dominanti, le quali in tal modo si trasformano, si rinforzano acquistando nuova originalità e curiose connotazioni che mantengono però sempre in parte il loro carattere originario: penso a Tiravanija, Orozco, Kuitca, Serrano, ecc. (ma anche a Jeff Koons che porta con sé a New York la dura e sfrontata cultura di Chicago, oppure a Sandro Chia che coniuga l’invettiva toscana e strapaesana con l’aria di New York, o ad Enzo Cucchi che modella le lavandaie marchigiane di Luigi Bartolini dentro la nuova cultura figurativa europea o nell’avanguardia sovietica del primo Malevic. Per non ignorare Francesco Clemente che stempera certe battute napoletane con la multirazzialità della grande mela e il silenzio indiano.

L’ibridismo, cioè la modificazione di forme originarie attraverso l’apporto di forme acquisite, rappresenta una delle espressioni culturali più tipiche del nostro tempo e caratterizza l’appropriazione di certe forme da parte del potere culturale che tutto fagocita, deglutisce e digerisce e riguarda ogni luogo e territorio ed ogni momento della storia.

Se l’ibridismo porta l’emarginazione o la diversità al centro, la provincia resta un luogo della mente sopraffatto (o distante) dal centro: non a caso è tale perché assume sempre e male la cultura del centro.

Come la storia viene scritta sempre (almeno sino ad ora) dai vincitori, l’arte e la cultura ancora oggi sono l’espressione del centro sopraffattore.

La provincia è la dilatazione dell’assenza, la mancanza di relazioni con il tempo e lo spazio, un salutare luogo per lo spirito ed il corpo, giammai un laboratorio artistico e culturale. La cultura è sempre stata caratterizzata dallo stress, dalla ricerca e oggi più che mai dalla schizofrenia.

Mentre la provincia è l’arcadia, il centro è sempre più inferno dello spirito e del corpo.

 

Emilio Mazzoli, gallerista

Per me l’arte è un fatto esistenziale. Mi piace quella che si rinnova, che stimola anche le mie funzioni vitali e mentali. Solo per questo faccio il gallerista, anche se in Italia è estremamente complicato. Una galleria come la mia, di provincia, che studia ed è attenta alla ricerca dei giovani, economicamente parlando, non riesce a lavorare. Lo Stato non glielo permette. Si può fare sperimentazione, ma, se va male, si devono subire in prima persona tutte le conseguenze. Non si è paritetici con altri paesi del mondo occidentale: Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna. Accanto a poche buone gallerie ce ne sono mille altre che affittano lo spazio anche ai dementi e, di fronte allo Stato, abbiamo le stesse garanzie. Un lavoro di qualità, propositivo, non interessa nessuno: non alla politica, non all’economia.

D’altra parte l’Italia è ormai emarginata. Lo sono pure Roma e Milano. Siamo massacrati dal sistema internazionale, con paesi più all’avanguardia dove c’è un altro rispetto, un’altra considerazione della cultura. Un gallerista, costretto a sopperire alle carenze delle istituzioni pubbliche, fa quello che può e quello che vuole. E deve sperare nell’aiuto del buon Dio, perché qualsiasi funzionario, se vuol metterlo in castagna, lo può fare. È logico che una galleria che produce lavoro, che fattura tutto, che ha un magazzino, debba pagare le tasse sui quadri che non vende? I quadri che rimangono sono quelli brutti. Dovrebbero far pagare le tasse solo sul venduto, come in qualsiasi paese del mondo. Inoltre, ci sono le politiche dei comuni che per muoversi...! Il gallerista non ha più alcun potere. Se l’artista diventa importante, lo domina; se non è importante, lo è l’amico dell’amico, l’assessore alla cultura. Sono questi che hanno rovinato il Paese. Non c’è monumento che sia bello, non una cosa fatta bene. D’altra parte l’artista pensa a difendere se stesso. In Francia, in Germania, in America, tutti quelli che vogliono l’arte vanno a comprarla in galleria. Non si sognerebbero mai di andare dall’artista o da un’altra istituzione. Quindi, da noi le prospettive sono a zero.

A cura di Luciano Marucci

2a puntata, continua

 [«Juliet» (Trieste), n. 88, giugno 1998, pp. 28-29]