L’ARTE DALLO PSICOANALISTA [II] PDF Stampa

Con la puntata precedente abbiamo iniziato una conversazione con il professor Mauro Mancia, nel presupposto che, a cento anni esatti dalla nascita della psicoanalisi, l’arte abbia acquisito un nuovo potenziale esplorativo ed espressivo.

Questa breve indagine vuole in qualche modo divulgare certe conoscenze specialistiche e offrire stimoli alla comprensione di fenomeni legati all’atto creativo, al rapporto autore-opera-fruitore. Ovviamente non per dare risposte definitive, ma strumenti di conoscenza, offrire maggiori consapevolezze e, quindi, condurre oltre il puro visibilismo ancora diffuso. Ciò pur non ignorando il significato che possono avere le aree non illuminate dalla ragione ai fini della libera interpretazione-immaginazione, la valenza alchemica e il pathos.

Contemporaneamente stiamo sperimentando, senza pretese scientifiche, la lettura estetico-psicoanalitica di alcuni artisti, affermati o emergenti, per dare tangibilità all’assunto.

 

Professor Mancia, riprendiamo il nostro discorso.

Perché l’arte ci coinvolge?

Per uno psicanalista questa è una domanda molto interessante. L’arte non può non coinvolgerci dal momento che, identificandoci con l’opera, mettiamo in conflitto, o comunque in una situazione dinamica, quelle che sono le figure più significative della nostra interiorità, le quali di norma tendono ad essere in uno stato di stallo.  Un’opera d’arte arriva a commuoverci se riesce a scuoterci interiormente, altrimenti non ci interessa e la dimentichiamo subito. Ecco perché l’arte ha un grande senso. Facciamo un esempio mettendo a confronto la musica classica con quella contemporanea (Guido Rossi ne ha parlato sul “Corriere” a proposito della pigrizia del mondo d’oggi). Quando alla Scala si rappresenta Ligeti, Messiens o artisti più giovani come Corgni o Einaudi, il 40-50% degli spettatori medi si alza e se ne va. Chiaramente l’individuo preferisce la stabilità ottenuta attraverso l’ascolto della musica classica. Beethoven può commuovere in qualche modo, ma finisce per consolidare la nostra situazione interna. È qualcosa di conosciuto con cui ci si è già confrontati affettivamente; è la sicurezza, la tranquillità... Come pure Mozart, Rossini, Brahms. Appena ci identifichiamo con le note di una musica contemporanea, entriamo in un moto browniano che ci procura angoscia ed ansia. Allora cosa dobbiamo fare? Andare a teatro non per divertirci, ma per lavorare, ristabilendo il nostro equilibrio interno dopo aver elaborato il disturbo -chiamiamolo così - causato dalla musica nuova. Reagire in senso positivo significa storicizzare il proprio inconscio, farlo passare per dei processi, delle esperienze che non sono tutti necessariamente rassicuranti. Alcune possono essere addirittura perturbanti. Mi viene in mente “Il perturbante” di Freud (1919), oppure l’altro suo bellissimo testo “Caducità” del 1915. Passeggiando con un poeta in un prato, l’autore vede l’amico malinconico perché pensa alla morte dei fiori. Freud dice che il punto sta proprio lì. Bisogna trovare la capacità di elaborare il lutto per la perdita.  Se i fiori sono belli al momento, va accettata anche la brevità della loro esistenza, ma il poeta non era in grado di farlo.

 

Quindi, ci può essere partecipazione anche quando l’arte è aggressiva o sgradevole.

Il discorso si rifà a quanto già detto. Un’arte collegata al brutto ha lo stesso valore di quella legata al bello. Mentre l’arte bella e soave consolida la nostra dinamica interna, quella legata all’aggressività e alla sgradevolezza, presuppone rielaborazione e recupero della stabilità. Non si deve rifiutare o negare la sgradevolezza di un’opera d’arte. Il nostro mondo interiore è fatto di tante parti alcune delle quali sono inevitabilmente sgradevoli.

 

L’opera d’arte in definitiva aiuta a scoprire la nostra identità.

Essa è continuamente messa in crisi e in questa misura ci aiuta a definirla.

 

...Può provocare una fuga dalla realtà o una sua presa di coscienza.

Esatto. Ritorna l’esempio della musica contemporanea. Se usciamo dalla sala per non ascoltarla, fuggiamo da una realtà, ma se rimaniamo, prendiamo dentro di noi quelle note, le rielaboriamo e ristabilizziamo il nostro mondo interno.

 

...Aiuta l’autore a trovarsi?

Gli permette di oggettivare, proprio come in un sogno, le parti della sua personalità. Nelle discussioni con i miei amici artisti spesso porto  l’esempio di Francis Bacon che mi sembra molto significativo. Era un personaggio con delle parti della personalità abbastanza disturbate, oserei dire psicotiche, fuori della realtà, vorace, sofferente. Eppure egli era riuscito, con la parte sana della personalità, ad usare quelle malate per rappresentarle. È chiaro che nel momento in cui le elaborava, veniva a tacitarle, bonificarle. L’arte ha avuto per lui una funzione terapeutica. Ecco perché ha vissuto la sua vita nella sofferenza, ma anche nella soddisfazione della creatività. E lì sta la sua grandezza.

 

Perciò l’opera può essere uno strumento di autoconoscenza.

Assolutamente. Quindi, non una fuga dal reale, se per tale intendiamo anche la realtà psichica.

 

Esercita un’azione liberatoria?

Anche conoscitiva, di superamento e, quindi, arricchente rispetto alla propria identità.

 

...Liberatoria anche verso la realtà empirica.

Ma elaborativa verso quella psichica. Parlo da analista e come tale ho il vizio (o il difetto) di essere più concentrato sulla realtà psichica, più interessato a quella metaforica. Dunque, quando parliamo di realtà, non intendiamo solo quella esterna, fisica, ma quella interna fatta di emozioni, sentimenti, affetti.

 

La pratica artistica promuove comportamenti più liberi?

La domanda implica il complesso problema della libertà. Non c’è dubbio che la conoscenza crei libertà. Conoscendo noi stessi, siamo in grado di gestire le parti inconscie che attraverso un’opera d’arte possono essere rappresentate, quindi evitiamo di dipenderne. La conoscenza dell’inconscio aiuta a governare anche le parti più disturbate della personalità.

 

E rispetto al sociale?

Non esiste un sociale in senso astratto: è un contenitore di parti sane e disturbate delle personalità, in cui vengono proiettate le nevrosi di tutti. In tal senso l’opera d’arte dovrebbe avere la funzione di migliorare la società. In teoria, se si potesse rendere ogni individuo consapevole delle proprie parti sofferenti, arroganti, onnipotenti, infantili, certamente si farebbe un grande favore non soltanto ai singoli individui, ma anche alla collettività che di essi è composta.

 

L’artista è uno stimolatore di sensibilità?

Se con la sua opera riesce a mettere in moto il nostro mondo interno, fa aumentare la sensibilità nella realtà psichica. L’opera d’arte ci mette in condizione di migliorare la relazionabilità. Possiamo avere una sensibilità rispetto alle parti del corpo, ma anche rispetto alle emozioni, ai desideri, a quello di cui abbiamo bisogno per vivere in un contesto relazionale.

 

Per il fruitore il piacere dell’arte ha una funzione terapeutica.

Direi epistemologica. Se l’individuo vuole conoscersi (ma nessuno può obbligarlo); se sente determinate emozioni rispetto a un quadro, a un testo letterario e ad un’opera musicale, deve porsi il perché delle proprie reazioni, positive o negative verso quella realtà artistica.

 

Il “piacere” è un momento  che lenisce la depressione? Agisce come equilibratore psichico?

È un mezzo antropologico che può essere terapeutico solo quando diventa conoscitivo. L’opera d’arte, se l’individuo riesce a stabilire con essa una relazione, diventa uno strumento epistemologicamente rilevante. Ovviamente è terapeutica anche rispetto alla depressione che, credo, come status e non come malattia, condiziona la maggior parte degli uomini.

 

Puoi spiegare meglio?

La base mentale creativa è fondamentalmente depressiva perché dominata dalla riflessione. L’opera d’arte serve all’autore per avere una stabilità dinamica, per consolidarsi in una posizione tranquillizzante, accettabile. Io non vedo come un artista possa creare al di fuori di uno status depressivo che condiziona il suo modo di vedere gli oggetti, la realtà.

 

Ne consegue che il prodotto artistico arricchisce la personalità dell’osservatore.

Se l’individuo davanti ad un quadro o ascoltando musica raggiunge un livello tale di consapevolezza e di emozione opportunamente elaborate, non può che arricchire la personalità.

 

Noti nelle tendenze di gruppo o nelle esperienze individuali del contemporaneo la ricerca di consenso con codici voluti?

L’artista ha in sé un forte desiderio di successo collegato alla capacità di creare oggetti con i quali la maggior parte delle persone si identifica. Spesso il consenso è facilitato dai galleristi e dai mass media, ma certamente alla base di un successo c’è la sua capacità di evocare emozioni, di permettere identificazioni.

 

Interrompiamo qui la conversazione per continuare la ‘lettura’ di artisti significativi. Dopo aver ‘analizzato’ Luigi Ontani, viene spontaneo parlare di Francesco Clemente che presenta con lui alcuni caratteri comuni. Entrambi operano con estrema libertà non solo linguistica e hanno un potenziale immaginifico fortemente legato alla sensualità e alla spiritualità dell’Oriente. La posizione di Clemente, però, è più contemplativa, meno eccentrica e provocatoria. Con la sua natura mediterranea entra in simbiosi con la cultura indiana. Sperimenta e vive altre esperienze, lontane dalle contaminazioni del contesto contemporaneo, dove erotismo e misticismo magico si fondono e si tramutano in icone archetipe senza storia e geografia. Produce opere-autoritratto con frammentarie immagini simboliche, fluide-mutevoli-vulnerabili, che hanno per sfondo il vuoto. Essendo concentrato sulle proprie ossessioni esistenziali, lo sviluppo del suo lavoro è abbastanza intuibile, sebbene egli vada alla continua ricerca dell’identità fuori dell’Io. In sostanza è un visionario introverso che per non cadere nel romanticismo introduce riflessione e ironia. La recente mostra alla Casina delle Rose di Bologna conferma l’unicità della sua poetica. Anche se nell’uso del mezzo pittorico e nelle forme a volte può essere accostato a certi modelli, è un artista che ha qualità distintive.

Qual è secondo te il senso delle sue esasperazioni? Come interpreti la sua instabilità?

Ontani mostra la sua sessualità e ne dà rappresentazioni senza scissioni. In realtà nelle opere egli rappresenta il suo mondo interno. I desideri, le fantasie i fantasmi erotici vengono quasi ossessivamente trasferiti in ogni forma espressiva. Parallelamente, la sua vita è rigorosamente aderente alla valenza poetica delle sue realizzazioni. Clemente, invece, è dominato da una scissione intrapsichica che lo porta verso un percorso di vita diverso da ciò che rappresentano i suoi lavori. Questo artista si presenta in una forma simpaticamente borghese con conseguenti, intuibili scelte affettive e forse sessuali; mentre la sua opera rivela nell’ironia del distacco un mondo deliziosamente perverso dove un metaforico filo unisce due peni in erezione su cui danza una frivola ballerina funambula. Certo, in lui il distacco, quale base essenziale per il vivificante processo dell’ironia, diventa centrale a tutte le opere. La leggerezza che sostiene ogni pennellata permette di tollerare e di riflettere sulle varie perversioni che rappresenta. Direi che da ciò scaturisce anche un processo lirico che ci fa sorridere, e ad un tempo di godere, di un erotismo che nella realtà non siamo in grado di agire. In questo senso Clemente appare vitale e sincero.

 

Così riesce a creare un’atmosfera di intimità che coinvolge, che porta chi guarda dentro il suo inquietante e silenzioso mondo.

Un altro artista che vive una condizione nomadica, ma in maniera meno prevedibile nel passaggio da un ciclo di opere all’altro, è Aldo Mondino. Tra i primi ad interagire in profondità con culture esotiche, riscoprire, con religiosa dedizione, valori rimasti nascosti, realismo e spiritualità dei luoghi delle sue origini che lo portano anche a ricongiungersi alla sua identità. Si muove seguendo l’ ‘istinto’ per rispettare i suoi amori, per il piacere dell’originalità e, soprattutto, per essere se stesso con determinazione.

Con Aldo siamo vecchi amici, perciò è un discorso a parte. Per me è un artista straordinariamente creativo. Nel momento stesso in cui lavora, parla e forse sogna. Ha la capacità di alleggerire qualsiasi dramma, di trasformarlo in qualcosa di accettabile. Oltre alle grandi doti disegnative e pittoriche, riesce a spaziare con disinvoltura in altri linguaggi. Anche lui ha le sue ossessioni. Per esempio, la religiosità. I quadri che riguardano gli ebrei e gli arabi riconducono alle componenti che per mezzo degli avi costituiscono la sua personalità. Ama il Nordafrica, il Marocco, l’esoticità, l’eccezionalità; non accetta mezze misure. Le sue macchine sportive e le collezioni di autografi rientrano in un certo tipo di kitsch raffinato - se mi si concede l’espressione - che è parte del suo charme. Tutta la sua vita è coerente. Vive da artista molto snob, ma per fortuna immerso nell’idea di filtrare la realtà attraverso l’ironia. Così la tragedia del conflitto tra israeliani e islamici viene da lui rappresentata in maniera poetica, tollerabile, che spinge a pensarla diversa rispetto alla realtà. All’ultima Quadriennale di Roma il suo Dino Jarres era l’opera più bella dell’intera esposizione. In essa c’è dietro tutto un pensiero archeologico, antropologico, fantastico.

 

Mondino tende costantemente a tenersi fuori da ogni convenzione con scatti di individualità, ma anche con poetica leggerezza e sottile ironia. È cosciente di essere un po’ megalomane e un po’ spericolato, ma non fa nulla per moderarsi. Anzi, per non annoiarsi e non deprimersi, ha bisogno di vivere sempre eccitato e un po’ sopra le righe. La sua opera non può che riflettere le sue emozioni, le sue smisurate passioni artistiche, culturali, erotiche. In ciò probabilmente sta anche il segreto della vitalità e della freschezza della sua produzione con cui ha saputo riattualizzare la ‘pittura’ dal lato visivo e concettuale.

Stare con lui significa essere continuamente sotto un bombardamento di stimoli che farebbero divertire perfino un sacrestano...

A cura di Luciano Marucci

2a puntata, continua

 [«Juliet» (Trieste), n. 95, novembre 1999-gennaio 2000, pp. 30-31]

 

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