L’ARTE DALLO PSICOANALISTA [III] PDF Stampa

1899: anno di inizio di una profonda esplorazione della mente umana con la conseguente presa di coscienza di fenomeni prima ignorati o non focalizzati. La cultura del Novecento viene influenzata da quegli studi scientifici e con essa l’elaborazione dell’opera d’arte e la sua lettura critica. Ecco, dunque, aprirsi affascinanti sentieri per un viaggio nella complessità... Sebbene in questi ultimi decenni le ricerche abbiano portato a nuove scoperte, certe intuizioni freudiane sono risultate fondamentali per lo sviluppo delle discipline psicologiche e di quelle correlate. Anzi, si è fatto più forte il bisogno di penetrare nella sostanza della produzione artistica per neutralizzare il diffondersi di un consumo piuttosto sbadato e formale. Continuiamo, dunque, le sedute psicoanalitiche dell’arte visuale con  l’intervento specialistico del professor Mauro Mancia, Direttore dell’Istituto di Fisiologia Umana II dell’Università degli Studi di Milano. Anche questa terza puntata è stata integrata con la lettura ‘incrociata’ delle opere di due significativi artisti contemporanei. 

 

Professor Mancia, nell’arte prevalgono le pulsioni fantastiche?

Nell’arte di oggi, come in quella di tutti i tempi, la razionalità non entra che in misura molto limitata. Checché ne dicano i critici, un quadro, un libro, un brano musicale sono invariabilmente la radiografia del mondo interiore di chi le ha prodotte. 

 

Però ci sono degli operatori decisamente razionali. Ad esempio, quelli dell’area costruttivista, programmata, minimale, concettuale...

È un aspetto più superficiale del problema. Solo apparentemente nei razionalisti la ragione filtra l’inconscio e le dinamiche interne. È un po’ come l’ascensore nel sogno... 

 

Allora tutto è riconducibile all’immaginario....

E al desiderio, alle proprie conflittualità, ai traumi... 

 

L’arte, perciò, dà risposte psicologiche.

Direi che è più una necessità di significazione come linguaggio. Quando il bambino all’età di due anni fa un disegnino, invariabilmente esprime un aspetto relazionale con il proprio mondo: il padre, la madre, da soli o insieme, altri bambini nel ventre della madre, lui escluso oppure inserito.  

 

I malati mentali possono essere creativi?

Bisogna sfatare questa idea comune. La condizione maniacale è un po’ come un fuoco fatuo: può avere momenti artisticamente rilevanti che durano poco.  

 

Con l’opera si tende più all’affermazione dell’Io o alla dialettica con l’esterno?

Credo che siano vere entrambe le cose. L’artista ha un occhio rivolto verso il proprio sé e la possibilità di soddisfare le sue esigenze di significazione e un occhio puntato all’esterno a cui queste significazioni sono indirizzate. È a metà strada tra il sé e l’oggetto.  

 

La citazione intesa come atto predatorio da quale motivazione inconscia può sorgere?

È un problema di voracità. In ciascun uomo ci sono parti predatorie della personalità che devono essere gestite bene. Predare dal passato in una certa misura per poterlo contestualizzare e attualizzare al presente non è poi così grave. 

 

Semmai essa è indotta dal “pensiero debole”.

Citare un autore del passato è anche un modo di storicizzare, tener conto di un argomento o di un fatto. Molte volte citare è un obbligo, altre diventa predazione. Nella scienza questo avviene sempre ed è giusto che anche in campo artistico ci sia la possibilità di recuperare il passato e di poterlo rielaborare nel presente. Allo Sferisterio di Macerata ho assistito ad una rappresentazione dell’Otello di Verdi. Poteva essere interessante il tentativo del regista di attualizzare il contesto. Non più il palazzo dove avvenivano le tragedie, ma un grande spazio minimalista, nel quale giganteggiava un quadro nero con fili bianchi, che poteva essere stato fatto da Gianni Colombo. Sulla destra, delle strisce che potevano essere di Hartung. È stato un modo per poter inquadrare nel nostro tempo un’opera mitologica dell’Ottocento che ci riguarda per la gelosia insita in tutti gli uomini.  

 

La metafora e il simbolo espressi nell’opera ovviamente agevolano lo psicoanalista ad entrare nel profondo.

Il sogno si esprime attraverso la condensazione, lo spostamento, la drammatizzazione. Il lavoro dell’analista per certi aspetti è analogo a quello dell’artista che prende gli elementi della realtà, gli oggetti di essa e li trasforma in metafora. Perfino gli iperrealisti colgono la realtà metaforica. 

 

Il simbolo, quindi, può anche non essere ‘dichiarato’.

L’arte surreale è tutta e soltanto simbolica. Le si contrappone per antonomasia l’Iperrealismo, ma è anch’esso simbolico. Hopper, nonostante il suo esasperato realismo, dà una visione molto chiara dello squallore e della solitudine della vita americana. 

 

L’empatia favorisce l’interpretazione o è deviante?

È importante in qualsiasi relazione, ma non sufficiente all’interpretazione. L’artista - e ti ripeto lo psicoanalista (vedo tra i due analogie interessanti) - non deve soltanto porsi nei confronti della realtà esterna con la disponibilità ad accogliere e ad elaborare; deve poter capire, altrimenti non può dare una sua interpretazione. L’empatia è una base sulla quale si può costruire, ma la base di per sé non è la costruzione. 

 

Quanto è importante per uno psicoanalista frequentare le arti visive o la musica?

Proprio perché per lui l’udito è assolutamente prioritario, mi sembra utile seguire le arti, in particolare la musica. Diciamo un po’ paradossalmente che io ho imparato a fare lo psicanalista andando alla Scala, entrando nella dimensione delle note dalle quali è possibile astrarre dei contenuti specifici che sono quelli in cui ci si può identificare. È lo stesso lavoro che si fa in analisi. L’arte visiva affina la personalità nella misura in cui le permette di conoscere. È chiaro che migliora la qualità della vista. 

 

Come sei arrivato all’arte?

Addirittura prima di fare lo psicoanalista. Fin da ragazzo ho nutrito per essa una grande passione che mi è servita nella mia professione.  

 

Ti ha facilitato nell’introspezione?

Mi ha permesso di conoscermi, di relazionarmi con me stesso, di godere dei momenti di felicità. Osservo indistintamente quadri antichi e moderni. Sono curioso e interessato all’arte contemporanea, ma sono stato sempre molto aperto anche a quella antica. Debbo confessare che l’arte attuale mi stimola, mi intriga perché mi dà una percezione chiara del mondo emozionale ed affettivo in cui vivo, che è rappresentato dagli artisti di oggi. Come analista ho avuto dei vantaggi enormi da questa mia sensibilità che è andata sviluppandosi e arricchendosi. 

 

Non è solo un allenamento al saper vedere.

Aiuta a capire e ad interpretare. Nel sogno ci sono delle icone, delle immaginazioni che devi leggere un po’ come un quadro, come un “teatro privato” (io lo chiamo così) all’interno del quale si muovono degli oggetti in cui devi riconoscere la dimensione intrapsichica e quella intersoggettiva. L’analista, come il pubblico, è lo spettatore di questo teatro. Anche le arti visive permettono di dare delle interpretazioni, ma in analisi sono essenziali la parola, il modo come viene pronunciata, le cose che vengono dette e soprattutto le modalità formali della comunicazione.  

 

Essendo l’artista un a-normale, l’esercizio all’interpretazione dell’arte visiva e alla penetrazione del pensiero artistico può essere funzionale alla comprensione del soggetto da analizzare?

Mi sembra che la capacità di cogliere il senso e il significato di determinati elementi del quadro o di certe composizioni non possano che essere utili ai fini della propria sensibilità nei confronti di quello che avviene nelle relazioni con il paziente. Però ribadisco la priorità dell’udito e, quindi, della musica. L’aspetto visivo è importante soprattutto nell’ambito dei sogni che spesso si presentano come dei quadri, degli avvenimenti teatrali, dove è necessario essere spettatori molto raffinati per poter cogliere il senso di quanto avviene sul palcoscenico dove generalmente parti del sé del paziente, scisse e proiettate, vengono a suggerire qualche cosa che il paziente stesso non è in grado di dire con la parola: i conflitti, le difficoltà relazionali, quelle intrapsichiche. E lo si vede come in un quadro dove due individui sono in conflitto tra di loro. In questo senso la lettura dell’opera è un allenamento straordinario per il lavoro con il malato.  

 

Per una più attendibile percezione dell’opera è utile passare attraverso la conoscenza dell’autore?

Non lo ritendo indispensabile. A me interessa quello che un’opera d’arte può rappresentare, l’aspetto simbolico e metaforico attraverso il quale l’autore mi si presenta. D’altra parte è capitato che la mia passione per l’arte mi abbia fatto conoscere molti artisti che sono poi i miei migliori amici. Ho notato che spesso esiste una scissione tra l’artista nella sua realtà materiale e psichica. 

 

L’opera, dunque, ha una sua intelligenza.

Ha una sua personalità, un carattere, una dimensione conoscitiva che non prescinde dall’autore, che permette la sua conoscenza vera e profonda, la quale non sempre coincide con quella più superficiale espressa nel sociale. 

 

Le competenze psicoanalitiche possono contribuire a far capire le intenzioni dell’autore, il messaggio artistico e la funzione dell’arte?

Contribuiscono alla conoscenza della realtà psichica. Io devo dire, a favore di Saint Beuve e contro Proust, che non c’è artista che nella sua opera non sia autobiografico. Non è possibile che egli rappresenti qualcosa che non sia parte integrante della sua personalità. Naturalmente questi elementi interni possono essere così trasformati, così distorti da apparire lontani. Ogni artista può avere un lavoro di retorica interna per cui le cose che rappresenta o che descrive in una narrazione gli possono apparire  estranee. Di fatto sono un modo di rappresentare un contenuto latente sempre legato alla sua personalità. Camus e la sua esperienza di letterato, Camus e l’indifferenza rispetto alla morte della madre, rispetto al padre; la sua solitudine interna rappresentata da un padre assente e da una madre di cui si vergognava. Dunque, una situazione che non può che essere rappresentata ne’ “Lo straniero”. Nello stesso Proust - non voglio e non posso qui entrare nel labirinto proustiano perché troppe persone ne hanno scritto senza che nessuno abbia avuto il coraggio di dire perché egli a volte nella sua lunga scrittura sia così profondamente noioso - la parte più narcisistica della personalità emerge prepotentemente nelle descrizioni meticolose della sua vita. L’identificazione continua con la madre, l’incapacità di distaccarsi da lei, che è poi alla base della sua omosessualità, crea in lui una personalità che compare continuamente tra le righe della sua opera. Tutto ciò non può sfuggire allo psicanalista che è sempre curioso del modo con cui certe parti sono espresse.  

 

Qual è il limite?

Lo psicoanalista è capace di dire se l’arte è in grado o meno di destabilizzare il mondo interno dell’osservatore. Il gioco è tutto lì. La sfida è di esporsi ad un’opera d’arte, di lavorare in continua oscillazione tra destabilizzazione e stabilizzazione. In questa oscillazione c’è la conoscenza di sé e in qualche modo il dominio, il controllo sul proprio mondo. D’altra parte questo accade anche nella relazione tra gli uomini e le donne. Abbiamo momenti di stabilità e altri di instabilità, perché nella vita con una persona c’è un continuo scambio di identificazioni. L’opera d’arte provoca lo stesso effetto. L’oggetto ci mette in una crisi che dobbiamo accettare per ristabilizzare il nostro mondo.  

 

Riprendiamo la lettura delle opere con due giovani artisti che si sono  già imposti a livello internazionale: Maurizio Cattelan e Vanessa Beecroft. Il primo con  lavori che, superando i codici tradizionali riescono ad essere ogni volta spiazzanti, attinge ai riti del quotidiano e li trasforma in azioni significative. Gioca con le metafore e crea relazioni profonde tra impulso soggettivo e realtà esterna. Spesso “usa” elementi decontestualizzati dal contemporaneo; procede in modo imprevedibile, discontinuo, però finisce per far intuire il senso del non-senso. Fa della “trovata” un momento di verità; capovolge i ruoli, estremizza e tende ad universalizzare il gesto artistico, decisamente antiromantico, e a demitizzare tutto, perfino la figura dell’artista e se stesso. Specula sulle contraddizioni sociali e sugli aspetti tragicomici. Quindi, assume un atteggiamento più critico che dissacratorio, rispetto a una realtà transitoria ma ben connotata. Così facendo costringe a guardare, a riflettere. e, nello stesso tempo, svela una sua ideologia. A te Cattelan cosa dice?

È un personaggio indubbiamente interessante. Fa parte della cerchia degli artisti nuovi che non si vogliono adeguare all’organizzazione sociale, culturale e ideologica. Con la caduta del comunismo, l’utopia, senza la quale in verità non si può vivere, sembra in una situazione fallimentare. Di fronte a questo stato di cose gli artisti si ribellano e propongono una personale rivoluzione di idee, di emozioni, di pensiero. Credo che Cattelan rientri nell’operazione di denuncia individuale di una società in crisi, il suo è l’urlo disperato ma fiero di chi ancora crede nelle possibilità innovatrici dell’individuo. Le provocazioni naturalmente contrastano con il consumismo, il mercato, il capitalismo. E la produzione, chiaramente, mira a scioccare e a teatralizzare a fini comunicativi. Con l’humour e il paradosso Cattelan si mostra irriverente, ma non elude il reale. I suoi interventi, effimeri e iperrealistici, sembrano uscire dall’ambito artistico, ma senza intenzioni dadaistiche. A conti fatti è un autore umile, insicuro, che alla fine riesce ad essere incisivo, a focalizzare le sue intenzioni in senso costruttivo. 

 

Non si affida alle nuove tecnologie pure per non frapporre diaframmi virtuali che addolcirebbero l’impatto con la realtà più cruda. In sostanza la sua opera è antiaccademica e va oltre il manierismo delle neoavanguardie.Vanessa Beecroft, invece, si esprime attraverso altre persone in performances le quali sono presentate come ‘oggetti’ di comportamenti collettivi e, pertanto, privi di una loro identità. La sua è una sorta di regia teatrale in cui usa come copione il rituale quotidiano promosso dai media. I coinvolgenti lavori si propongono con autorevolezza estetica, ma vanno assumendo una posizione sempre più apertamente critica che deriva dalla presa di coscienza di una problematica strutturale della società. L’artista usa materiale umano come testimonianza emblematica di denuncia di una condizione esistenziale quasi genetica. Per lei il video è il luogo ideale delle esibizioni rielaborate, dove il corpo torna ad essere immagine elettronica, documento di eventi, senza però subire i condizionamenti del mezzo tecnico. Le figure inespressive, eppure fortemente simboliche, si muovono come ‘automi’ incapaci di seguire un filo conduttore essendo governate da una volontà impropria. La loro bellezza è esteriore, stereotipata, come quella degli oggetti da vetrina confezionati dalla cultura di massa...

È un tipo di ‘teatro’ che denuncia la crisi dell’identità, ma anche della dimensione sessuale, nel senso che i personaggi della Beecroft, inquadrati, gestiti come oggetti, non sembrano avere né sessualità, né volontà, né emotività. Rispondono ad un comando che viene dall’alto, senza avere più una loro autonomia. Sono spesso raggruppati a dimostrare che non c’è accettazione dell’identità separata. 

 

In fondo, i personaggi sono “travestiti del costume sociale”. Ultimamente il discorso della B. si è spostato più decisamente sul versante americano dove certi fenomeni sono più evidenti con la rappresentazione dell’omologazione anche attraverso l’uniforme dei soldati-manichino in addestramento.

La parola “travestiti” richiama proprio la crisi dell’identità sessuale. In realtà sono aspetti del sociale che tutti noi viviamo e che l’artista coglie in maniera precisa. 

A cura di Luciano Marucci

3a puntata, continua

 

 [«Juliet» (Trieste), n. 96, febbraio-marzo 2000, pp. 30-31]

 

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