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ROMA

Quando quindici anni fa incontravo Bruno Ceccobelli nel suo laboratorio situato nell’ex pastificio Cerere di via degli Ausoni, ebbi occasione di frequentare pure Marco Tirelli, Nunzio, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Piero Pizzi Cannella per una serie di interviste pubblicate anche in questa rivista. Poi Ceccobelli decise di stabilirsi a Todi e Tirelli scelse lo splendido isolamento su una collina nei pressi di Spoleto, pur mantenendo entrambi lo studio di Roma. Così quei sei artisti dalle speciali doti creative, sebbene non avessero un indirizzo unitario ma solo una sorta di atelier collettivo ove confrontarsi, si videro un po’ meno. Tutti, comunque, fin dalla fine degli anni Settanta, avevano avuto la stessa consapevolezza e sensibilità di praticare la pittura al fine di compiere un’indagine profonda per andare oltre il citazionismo impersonale e il puro concettualismo di allora. Oggi possiamo dire che quel raggruppamento spontaneo dal “progetto dolce”, può essere considerato il più importante dopo la Transavanguardia, e non soltanto dell’area romana. Essersi sottratti ad una classificazione ha giovato sicuramente alla loro autonomia, ma la mancata legittimazione di “gruppo” non ha favorito il rapido e più ampio riconoscimento che avrebbero meritato. Perciò era giusto che si facesse una pubblicazione per scriverne la storia e ricongiungerli, sia pure virtualmente. Il libro La Nuova Scuola Romana, curato da Roberto Gramiccia per gli Editori Riuniti (prefazione di Lóránd Hegyi, biografie e interviste di Valentina Gramiccia, documentazione fotografica inedita di Stefano Fontebasso De Martino), è stato presentato al MACRO. Dopo aver descritto il clima artistico entro cui si svilupparono le ricerche dei nostri, partendo dai decenni precedenti e valutando la situazione internazionale, rivisita i percorsi personali e analizza puntualmente i momenti più significativi del loro sodalizio. Tra l’altro, fa il punto su una realtà artistica tuttora vitale, anche perché quei protagonisti (ora cinquantenni) sono giunti alla piena maturità forse anche grazie alla “scuola” di cui nessuno voleva sentirsi né discepolo né maestro, anche se idealmente erano l’uno e l’altro.

Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 128, giugno 2006, p. 93]