Home arrow Viaggi nell'arte arrow Altri approdi - Periodici arrow "Flash Art" arrow Ancora in ricordo di GDD (G. De Dominicis) (n. 220/2000, p. 61)
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Caro Politi,

anch’io ho un ricordo di Gino De Dominicis da rievocare.

Alla fine degli anni Sessanta frequentavo spesso Roma per seguire l’attività di un gruppo di artisti considerati gli out siders della situazione italiana. Incontravo Jannis Kounellis, Eliseo Mattiacci, Luca Patella, Vettor Pisani, Claudio Cintoli, Aldo Mondino, Mario Schifano e i filmakers  indipendenti...

Un giorno contattai De Dominicis. Più giovane degli altri, cominciava allora ad entrare nell’entourage di Fabio Sargentini, anzi aveva da poco tenuto la sua prima personale nella galleria-garage di via Beccaria presentando l’asta dorata, il secchio d’argento, il cerchio invisibile e la poltrona per un viaggio mentale interplanetario. Per farmi conoscere meglio le sue esperienze, certamente tra le più originali del momento, mi diede appuntamento a Piazza del Popolo, da “Rosati”. A differenza di altri che ostentavano le loro capacità ‘manuali’ o la formazione intellettuale, egli ‘progettava’ stando al bar... Sentiva che il suo padre ideologico era Duchamp. Aveva la vocazione del dissacratore e cercava di sfuggire ad ogni classificazione. Già  vestiva di scuro, con l’aria di ironico sovversivo, ma era meno teso e più comunicativo che in seguito, anche se concentrato sui concetti personali, non del tutto afferrabili..., di arte-scienza-natura. Con me fu loquace, disinvolto, forse perché ci univano le comuni radici marchigiane. Fin dal primo impatto mi si rivelò un artista che riconosceva la supremazia del pensiero fino a sconfinare nel paradosso e nell’utopia,  nell’opera come nella vita. Rimanemmo una mezza giornata a parlare esclusivamente dei suoi lavori. Mi raccontava come alcuni di essi erano nati, evidenziando sempre le motivazioni di fondo del suo fare arte. Strada facendo, mi portò nell’hall dell’Hotel Locarno in via dell’Oca dove - come sai - abitava. Mi mostrò delle testimonianze di lavori e mi accennava a nuove ideazioni. Intanto andava tracciando su fogli occasionali dei piccoli disegni. In uno vidi un occhio, in un altro un naso, in un terzo i segni di un’impronta digitale. Gli domandai spiegazioni. Rispose che mi aveva fatto tre ritratti. Tornando nella vicina Piazza del Popolo per sederci nuovamente al Caffè Rosati, gli chiesi se me li lasciava per l’imprecisata somma che avevo in tasca... Rimase a lungo incerto, poi decise di tenerli in ricordo del nostro incontro. Così anch’io rimasi soddisfatto e non insistetti. Mi piacerebbe sapere però dove siano finiti quei particolari... ritratti enigmatici.

Ogni tanto lo rivedevo e i nostri discorsi riprendevano il filo della sua arte. Insistette perché andassi alla mostra a tre organizzata da Sargentini nel dicembre del 1970. Gino presentò “Pericoloso morire”, e si aggirava con aspetto da inquisitore tra i suoi famosi scheletri di un uomo e del suo cane con i pattini, accanto a “Motivo africano” di Kounellis (la donna nuda incinta) e a “Io non amo la natura” di Pisani con la gobba.

Alla Biennale di Venezia del 1995, curata da Jean Clair, riuscii a strappargli una dichiarazione: “Dopo averla vista, confermo il mio rifiuto a partecipare alla Biennale. La valutazione non è riferita solo al padiglione italiano, ma a quelli stranieri, anche se non li ho visti tutti. Non ricordo bene le vere motivazioni..., mi sembra che fosse per la mostra sotto tema e perché, come al solito, espongono cose che non hanno niente a che fare con i linguaggi dell’arte visiva come video, fotografia, moda, scenografia. È la stessa Biennale di sempre. Non l’ho mai condivisa. Qualche volta ho aderito senza che mi piacesse. Se continueranno a farla così, non parteciperò più”.

E sorridendo si allontanò con la ragazza che lo accompagnava.

Alla successiva Biennale del 1997, subito dopo essersi intrattenuto con te, nella sua bella sala lo avvicinai per conoscere i motivi che lo avevano indotto a cambiare atteggiamento, ma eluse la domanda.

Il giorno in cui si seppe della sua improvvisa e misteriosa morte, era il primo dicembre. Mi trovavo a Casenuove di Macerata, nella villa di Monti per un concerto-esposizione. L’estroso Pio, uno dei suoi primi estimatori che tanti anni prima era riuscito a stampare la grande grafica con al centro la testina di un uomo in evoluzione... (ancora sulla mia parete) e aveva contribuito a fargli realizzare alcune opere importanti come, ad esempio, la “Mozzarella in carrozza”, con l’antico ‘mezzo’ che veniva proprio da Macerata. Tra amici lo ricordammo, ognuno a suo modo, per l’unicità del suo vivere l’arte.

Tutti abbiamo rivisto De Dominicis nell’omaggio tributatogli da Szeemann ai Giardini della Biennale. Se quella sala l’avesse allestita lui, con il rigore che gli era abituale, probabilmente sarebbe risultata un po’ più minimale. Ma anche quella è stata una testimonianza di “Immortalità” dell’opera, pure se visivamente e concettualmente diversa dall’altra già espressa nel ‘71 con quattro segni neri incrociati...

Luciano Marucci

 (Lettere al direttore, «flash art», a. XXXIII, n. 220, Milano, febbraio-marzo 2000, p. 61)