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La Biennale come anti-museo PDF Stampa

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A conti fatti possiamo riconoscere che la quarantottesima Biennale Internazionale d’Arte di Venezia è la più vicina alle nostre aspettative. Non a caso ha ricevuto quasi l’unanime approvazione della critica, nonostante le carenze derivanti dai soliti condizionamenti che si ripresentano puntualmente ogni due anni:  budget, tempi, spazi...

Harald Szeemann, da curioso e sensibile esploratore con competenza teorico-pratica conquistata sul campo, ha saputo interpretare i cambiamenti che erano nell’aria cercando di dare una serie di risposte a domande poste specialmente dagli addetti ai lavori in occasione delle più prestigiose esposizioni internazionali. Il suo principale merito è stato quello di aver elaborato e messo in atto un articolato progetto che recepisce ed amplia i segnali positivi, probabilmente percepiti dai curatori delle ultime edizioni, mai concretizzati per eccessiva fedeltà alle loro idee e/o per gli impedimenti esterni. Indubbiamente ha giocato a suo favore l’incarico di Direttore per due manifestazioni consecutive che lo  facilita nel promuovere il processo di svecchiamento di cui era già convinto assertore, appoggiato dall’Istituzione che, dopo tante critiche e proposte, si è finalmente mossa rendendo i tempi maturi per cambiare rotta.

La sua Biennale non è legata a tendenze. Del resto nel contemporaneo non si riscontrano movimenti polarizzanti e si sa che la storia dell’arte viene scritta dalle individualità prima ancora che dai gruppi. Perciò è stato giusto privilegiare l’unicità delle singole poetiche, l’opera e la sua funzione spirituale. La mostra non è neanche vincolata a temi specifici. Ha un’ideologia di fondo, un sottile filo conduttore che riflette la personalità emotiva e razionale del curatore - indipendente nel pensiero e intellettualmente onesto - il quale l’ha concepita come una “passeggiata di sorpresa in sorpresa” in territori poco praticati, organizzata un po’ con la passionalità e l’idealità dell’artista, un po’ con la  metodologia del critico e del regista. Dunque, un’esposizione arbitraria, non conformista né celebrativa o museografica, di un “operatore culturale” - come egli ama definirsi - libero da schematismi e incurante del mercato, aperta ai vari linguaggi, alle esperienze più vitali e inedite, disponibile alle contaminazioni, senza distinzioni tra artisti occidentali e orientali, emergenti e affermati, vivi e morti. Il tutto per offrire un panorama non settario e il più possibile attendibile delle arti visive nel tempo in cui la società vuole universalizzarsi, senza però consentire che il pervasivo fenomeno della globalizzazione annulli le differenziazioni e sradichi le identità. Ecco allora l’accentuazione del carattere internazionale in un percorso leggero, orizzontale da cui è scaturito il titolo un po’ saltellante e concettualmente giocoso “dAPERTutto” (che rimanda ad “Aperto” ideato nel 1980 dallo stesso Szeemann e da Bonito Oliva), “per provocare un confronto con una storia ‘altra’ rispetto a quella europea e nordamericana”; la dichiarata apertura alle minoranze etniche, alle donne e ai giovani non soltanto in senso anagrafico. Ecco ancora l’abbattimento delle frontiere e delle divisioni fra artisti di generazioni diverse che dialogano nella mostra internazionale ai Giardini; la provvidenziale dilatazione degli spazi espositivi fuori dall’abituale sede, la coraggiosa, emblematica abolizione del padiglione Italia nel superamento di un anacronistico privilegio più provinciale che nazionalistico, il quale finiva per ghettizzare i prescelti e creare illogiche contrapposizioni.

In questo contesto è saltata subito agli occhi l’eliminazione della pittura e della scultura tradizionali già decretata dalla David a Documenta X di Kassel, a cui idealmente questa Biennale per più aspetti sembra ricollegarsi. Sono prevalse le nuove tecnologie, la fotografia, l’installazione con interventi processuali e relazionali. Qua e là emergevano esempi di spettacolarità e gigantismo, in verità non espressi con puri formalismi per la conquista di facili consensi, anche se sono da preferire la dimensione più riservata e l’intensità emozionale del “Fachiro” di Cattelan o delle lacerate anatomie umane della Bourgeois.

Nell’insieme le scelte sono risultate coerenti, apparentemente non radicali, ma innovative rispetto al passato. Ragionevoli e non arroganti, sono state partecipate dai più con la speranza che dalla continuità si possa giungere a soluzioni stabili fra un biennio.

Ovviamente in una rassegna così ampia e con tante questioni sul tavolo non potevano mancare compromessi e lati negativi: l’involontaria inosservanza della filosofia di Szeemann da parte di alcuni padiglioni (peraltro difficili da governare) che al varo del progetto avevano già operato le selezioni (alcune buone, altre meno, come ogni volta); l’accettazione di opere ‘usate’ (sempre a causa del fattore tempo);  il catalogo che non motiva sufficientemente un’operazione così composita, sebbene in più occasioni il curatore avesse fatto conoscere le sue intenzioni. Tra l’altro all’inaugurazione è venuto meno il supporto di un dibattito pubblico allargato per non interferire con la concomitante apertura ufficiale del vicino padiglione America. E poi l’indegno omaggio a Mario Schifano (occasione persa per dimostrare agli stranieri che possiamo vantare un altro buon creativo) e quello poco minimale (come egli non avrebbe voluto) a Gino De Dominicis. L’assegnazione dei premi ha generato qualche iniziale perplessità, ma essi in fondo fanno parte della cronaca, anche quando meritano di entrare nella storia...

Al di là di questi appunti, la Biennale ‘99 è consistente, offre delle piacevoli curiosità e rappresenta una seria transizione a quella del 2001, quando potranno essere introdotte altre sensibili mutazioni. Si sospetta che, in ossequio allo spirito della globalità, potrebbero essere soppressi i padiglioni delle diverse nazioni. Viene dato per certo, invece, il recupero di altri importanti luoghi per permettere all’esposizione di estendersi ulteriormente, evitando l’eccessiva dispersione e avendo riguardo per la visibilità delle opere in relazione agli spazi e al tempo di fruizione, senza trascurare l’ammodernamento dei Giardini che mantengono il loro fascino.

Con ogni probabilità, essendo Szeemann un patito dell’arte totale, cercherà di far interagire la Biennale Arte con quelle del cinema, della musica, del teatro e dell’architettura. Non gli sarà facile, perché affrontare la complessità implica non pochi problemi, però è indispensabile che ricerchi la collaborazione degli altri Direttori, ben sapendo che per questa via Venezia raggiungerebbe inequivocabilmente il primato assoluto di centro mondiale della cultura artistica. Per muoversi più agilmente, in primis dovrà sollecitare l’aggiornamento della legislazione sulla “Società di cultura”. Altre mete da conseguire: la sburocratizzazione della struttura per essere costantemente presente sulla scena culturale e nella gestione delle attività; il coinvolgimento dei privati che stenta a decollare.

La Biennale, dunque, resta un cantiere aperto per migliorie grandi e piccole, tutte ugualmente necessarie, non ultima la realizzazione di elementari guardaroba o lockers (già apprezzati a Kassel) la cui assenza nei giorni della vernice costringe a portarsi dietro cataloghi sempre più pesanti, rendendo scomodi e maledetti gli spostamenti per seguire i tanti (forse troppi per essere visitati tutti) eventi a latere.

Szeemann guarda già responsabilmente al futuro ed ha qualità e volontà per raggiungere i diversi obiettivi. Auguriamoci che la macchina della progressione non si arresti, magari per ragioni politiche, e conseguentemente economiche, proprio all’entrata del nuovo Millennio.

L’Italia deve dare all’Europa e al resto del mondo grosse prove culturali perché in questo ambito più che altrove può imporre la propria identità e credibilità.

Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 94, ottobre-novembre 1999, pp. 30-32 + servizio fotografico]