Home arrow Viaggi nell'arte arrow Transiti arrow Collett. Acc. Francia / Schifano / Paladino-Eno / Hirst / Dynys / Mattii (n. 139/2008)
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ROMA

L’Accademia di Francia ha presentato “La Collection Lambert en Avignon. Voyage à Rome”, a cura di Eric Mézil, con opere di circa quaranta artisti di fama internazionale che in qualche modo hanno avuto un legame con la cultura italiana e con la storia di Roma. I lavori (pitture, sculture, disegni, installazioni e video) sono stati selezionati dalla vasta raccolta del famoso collezionista francese, o sono stati da lui fatti realizzare appositamente per la mostra, come il grande quadro di Kiefer ispirato alla fontana ombrosa, posizionata davanti al Palazzo; i grandi blasoni (in ceramica) della tradizione araldica medioevale, posti da Lavier nelle nicchie simmetriche della facciata, ormai orfane delle statue classiche; le fotografie di Goldin, che dalle scalinate delle Gallerie svelava la sua passione per la cultura mediterranea. Le opere, attraverso un suggestivo percorso, hanno occupato la totalità degli spazi di Villa Medici, compresa la Scala del Grottone, aperta per la prima volta al pubblico. Particolarmente interessanti i disegni su carta di Twombly con riferimenti al sentimento amoroso; i collages di Marden intimamente legati alla storia dell’arte del Quattrocento; i ritratti di Serrano e Barcelò riproducenti, rispettivamente, l’effigie di Dante e di Virgilio; le Tre Grazie o il dramma di Niobe di Paolini; l’evocativo reliquario di Boltanski; “Il pensiero della archeologia” di Clemente; l’intenso lavoro di Kounellis con ferro da stiro e uccello morto; le panche di granito con scritte incise della Holzer. E ancora: opere di Schnabel, Basquiat, Rauschenberg, On Kawara... Nei giardini attiravano l’attenzione le installazioni sonore con le voci di Broodthaers e del suo gatto critico d’arte; di Louise Bourgeois e del collezionista; i nomi degli artisti fischiettati come nomi di uccelli da Louise Lawler. All’entrata dell’Atelier del Bosco si facevano notare l’insieme di opere minimaliste di LeWitt, Weiner e due sculture metalliche di Johnathan Monk; mentre l’interno, dipinto di rosa, era tappezzato di nuove fotografie di Serrano, che immortalavano la compagnia della Comédie Française. La mostra, solida e sapiente, ha rivelato gli interessi di Lambert e la relazione che egli, scopritore di talenti, ha avuto e continua ad avere con la città di Roma e l’Italia (tra l’altro, con l’amico e collaboratore Ugo Ferranti, scomparso quest’anno). A lui va riconosciuto il merito di aver introdotto nella Capitale, come in Francia, l’arte americana (Minimal, Conceptual e Land Art). E negli anni Settanta ha convinto molti artisti a trasferirsi, almeno per il periodo estivo, tra il Lazio e l’Umbria (Sol LeWitt, Buren, Tuttle, Christo e altri). Ha documentato il prestigioso evento, attuato con impegno, un catalogo bilingue (edizione Electa), corredato di immagini in  situ di Claudio Abate e testi di Richard Peduzzi, Eric Mézil, Yvon Lambert, Achille Bonito Oliva e Graziella Lonardi.La Galleria Nazionale d’Arte Moderna, a dieci anni dalla scomparsa di Mario Schifano, in collaborazione con l’Archivio che porta il suo nome, gli ha reso omaggio con un’ampia mostra, curata da Achille Bonito Oliva, che ha scelto settanta dipinti, realizzati nell’arco di quarant’anni: dai monocromi dei primi anni Sessanta ai soggetti pop immediatamente successivi; dalla sperimentazione pittorica e fotografica degli anni Settanta al ritorno al medium tradizionale degli anni Ottanta e Novanta. Inoltre, c’erano una cinquantina di disegni (selezionati tra i tanti prodotti dall’autore), molte fotografie e alcuni film. Un’attesa esposizione di un singolare artista che evidenzia qualità e molteplicità della sua flessibile ricerca, decisamente libera, sviluppata sempre con straordinaria sensibilità pittorica e stabilendo un tempestivo legame con la realtà - esistenziale e mediale - in divenire. Da qui il dinamismo delle sue investigazioni, l’attualità dei cicli tematici e quella linguistica, data anche da nuove modalità operative. In questa occasione mi piace ricordare di aver conosciuto Schifano a Milano nel 1967, presso la Galleria dell’amico Giorgio Marconi. Era appena arrivato dall’aeroporto e indossava comuni scarpe da tennis rotte che lasciavano intravvedere le dita dei piedi (allora era ancora una stranezza). L’anno dopo lo invitai alla “Settimana del Cinema Indipendente” (d’artista e sperimentale) che stavo organizzando a San Benedetto del Tronto. Così andai a trovarlo nella luminosa abitazione romana per definire la sua partecipazione. Per la rassegna (prima del genere in Italia) voleva proiettare il suo film Satellite su uno schermo di sei metri, posto a distanza dalla spiaggia, sorretto da una struttura metallica installata dentro l’acqua del mare. E avrebbe presentato un nuovo film utilizzando immagini televisive, per cui mi si fece dare trenta mila lire per procurarsi la pellicola. Ma, all’ultimo momento, con un pretesto, le autorità di polizia vietarono la manifestazione (si era nell’anno più caldo della contestazione giovanile e temevano scandali dai film d’essai non sottoposti al vaglio della censura). Mario, poi, mi chiese se conoscevo qualcuno che potesse acquistargli delle opere. Capii che era affamato di soldi per finanziare le sue avventure... Allora mi sentii spinto a comprare dal gallerista milanese che lo rappresentava (a prezzo ridotto) tre grandi opere su carta: Machine (della serie Futurismo rivisitato), una palma con cielo stellato per me e un ‘paesaggio italiano’ per un amico. Schifano in quel periodo era uno dei pochi che impersonava, autenticamente, il mito di genio e sregolatezza di antica memoria. Il complesso museale dell’Ara Pacis progettato da Richard Meier, così geometrico e candido, esternamente, ai più tradizionalisti può apparire stridente con l’ambiente storico, ma è innegabile che la struttura interna - leggera e neutrale - riesce a esaltare la bellezza del monumento augusteo ed è funzionale ad accogliere studiate esposizioni d’arte, capaci di vivificare la sede e onorare la città. Penso all’operazione interdisciplinare (ideata da Valentina Bonomo e curata da Achille Bonito Oliva, James Putman e Federica Pirani), realizzata dall’artista Mimmo Paladino e dal compositore inglese Brian Eno con opere particolarmente significative e ben relazionate allo spazio architettonico. Sull’intero piano inferiore della struttura il primo ha allestito una composita installazione: in una grande parete tante forme di legno (invecchiato) per scarpe, abbinate a piccoli uccelli di bronzo; nello spazio agibile un metaforico “Treno” (in metallo) con assemblati elementi scultorei in ceramica come reperti archeologici; rivolti verso un’altra parete, enigmatici corpi umani carbonizzati (in alluminio trattato); nella stanza dell’area centrale forme geometriche (rosse e bianche) dipinte direttamente sull’intonaco. Eno interagiva con apparecchiature audio che diffondevano sua musica, animando i silenziosi frammenti dell’opera di Paladino carica di mistero. Dunque, una interrelazione tra componenti di due generi differenti, che non annullava le individualità degli autori. Il tutto coinvolgeva l’osservatore-ascoltatore in un’atmosfera intensamente evocativa. La sapiente integrazione musicale di Eno è nata da un’idea ‘generativa’ e da una concezione compositiva non convenzionale sfruttando tecnologie avanzate che offrono altre sonorità senza far distinguere le parti strumentali. Paladino, per questa opera plurima ripartiva da “I dormienti” del 1999 che sviluppava attraverso una profonda investigazione antropologica e autobiografica, aggregando l’espressione grafica, pittorica e plastica. Faceva così emergere il proprio immaginario associato all’arcaico e a memorie culturali, a forme ispirate dalla storia dell’arte e dal mito, rivissuti con sensibilità contemporanea. Anche in tale lavoro, caratterizzato da circolarità e ambiguità percettiva, ha armonizzato lirismo, suggestioni materiche e cromatiche, geometria e informale, figurazione e astrazione, manualità e pensiero. Ma forse, meglio che altrove, ha dato prova del suo talento, confermando di essere uno dei maggiori protagonisti dello scenario internazionale. Dopo la maestosa mostra di apertura riservata a Cy Twombly, la Gagosian Gallery va svolgendo il suo prestigioso programma ed ha proposto un altro nome di primo piano, sempre con opere di indubbia qualità: Damien Hirst, che l’estate dell’anno scorso a Venezia aveva fatto conoscere ai più il suo percorso creativo, piuttosto originale e diversificato. Qui l’artista inglese ha esposto una sequenza di nove lavori di grandi dimensioni, i quali, nel vasto spazio ovale che li accoglieva, generavano un clima da cattedrale laica, seppure velata di ironia per il reiterato uso di abbondanti lepidotteri ordinati in base alle delicate cromie delle ampie ali. Infatti, nelle cornici-teche, a forma di finestra gotica, le diverse farfalle immobilizzate rimandavano alle sacre vetrate policrome. Un atto sacrificale che però le sottraeva al precario, naturale destino, almeno nell’osservatore in grado di percepire la valenza lirico-mistica che trascendeva dal dato reale.Due esposizioni in contemporanea hanno riproposto il lavoro di Chiara Dynys al Museo Bilotti (presso la palazzina storica dell’Aranciera nel parco di Villa Borghese) e nella Galleria De Crescenzo & Viesti. Nella prima sede l’artista ha realizzato il progetto “In alto”, basato sull’energia della luce, con quattro installazioni: ‘aureole’ su alcuni alberi; un bersaglio luminoso sul profilo centrale della costruzione; tre frecce sul balcone; quattro ‘diamanti’ di fronte all’ingresso. L’evento, promosso dal Comune di Roma, era curato da Maurizio Calvesi e Italo Tomassoni, su ideazione e coordinamento di Gianluca Marziani. Gli interventi erano concepiti come “punti cardinali di un percorso tra terra e trascendenza”. L’insieme acquistava una valenza scenografica e creava uno spaesamento in più sensi. Le perle luminose che formavano l’aureola sulle piante secolari elevavano la Natura verso dimensioni verticali. Il bersaglio (costituito da un magnete ottico) rifletteva la geografia dell’ambiente richiamando storia e presente religioso-laico della città. Le frecce, che dialogavano con il bersaglio, indicavano le diverse direzioni dell’interiore che si innalza verso il cielo. Infine i diamanti, con la loro preziosa, cristallina luminosità, riportavano l’attenzione sullo spazio terreno. La seconda mostra, “Passages”, in sincronia con la precedente, presentava dieci light box con lenticolari ovali aperti su particolari luoghi e azioni di vita reale. La Dynys è un’operatrice visuale tra le più interessanti. Conduce una ricerca tendente a coniugare, con atteggiamento analitico, l’immaginario stimolato dalla realtà con aspetti tecnico-linguistici inediti, per finalità poetiche e alchemiche che vanno ben oltre la tradizionale pratica pittorica. E sperimenta costantemente nuovi materiali, sempre in funzione dei contenuti, sicché la sua produzione risulta originale e intrigante.Carla Mattii, per la prima personale romana dal titolo“Rumore Bianco”, alla 1/9 Unosunove arte contemporanea ha realizzato due installazioni emblematiche della sua ricerca - divenuta ancor più penetrante - sul rapporto realtà-finzione, naturale-artificiale, concretizzandola attraverso manipolazioni con sofisticati mezzi tecnologici capaci di evidenziare pure aspetti nascosti (elaborazioni digitali, scanner tridimensionale, processi di prototipazione rapida), ma anche con interventi manuali dai tempi lunghi. Lo scopo era quello di conoscere e ricreare una Natura, oggi ibridata da processi scientifici, per finalità estetiche. Per l’occasione la Galleria assumeva quasi la funzione di laboratorio per il collaudo di un’azione sperimentale simbolica. Il primo lavoro, “Waiting for the rain”, si ispirava a un antico strumento musicale del Sudamerica (il “palo de lluvia” o “rainstick”), usato per riti propiziatori. Costruito in plastica trasparente (alto tre metri), riproduceva artificialmente il rumore della pioggia con un automatismo legato alla necessità idrica delle piante vere (ivi presenti), rilevata da un igrometro; mentre nell’ambiente si propagava il tipico odore della terra bagnata (generato sinteticamente). In un’altra stanza era situata l’installazione bianca “Type theory”, formata da 30 piante irreali (in resina), ottenute dalla scansione delle parti di 20 specie floreali scoprendo anche la geometrica struttura interna. Così la natura reinventata veniva strumentalizzata... con nuovi procedimenti, per fruire virtual-mente altre bellezze.

Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 139, giugno 2008, pp. 92-93]