Home arrow Viaggi nell'arte arrow Transiti arrow Arnaldo Marcolini / Pino Chimenti (n. 140/2008-’09)
PDF Stampa

ASCOLI PICENO

Al di là della valutazione sulle opere d’arte con parametri linguistici o commerciali del momento, meritano attenzione anche gli operatori visuali che hanno una loro identità e lavorano con passione senza rincorrere le tendenze del momento. Facevo questa riflessione visitando la vasta antologica di Arnaldo Marcolini a Palazzo dei Capitani. Un percorso creativo sviluppato con coerenza e spirito di ricerca, sia nell’affrontare i diversi cicli tematici, sia nella scelta dei mezzi espressivi, a partire dalle giovanili esperienze accademiche fino al recente corpus di opere ispirate alla cultura Maya. Scopo principale: esternare il proprio immaginario fantastico-ideologico; stimolare l’osservatore, attraverso una produzione esteticamente raffinata, a individuare il senso dell’associazione degli elementi costitutivi del quadro, da quelli fisici alle accentuazioni espressionistiche, alle forme aniconiche. Quindi, tentare di sciogliere gli enigmi rappresentati, innanzitutto, da quel simbolico ‘nodo’ che l’artista ripropone ossessivamente in contesti intriganti. Marcolini, in fondo, vuole dipingere e scrivere un diario della mente senza discostarsi eccessivamente dalla realtà esterna. Realizza così opere calibrate e sensibili, facendo un uso moderato del colore, privilegiando le tonalità del bianco ottenute dalla sovrapposizione di pregiati materiali cartacei ed esaltando, con esasperata manualità, le qualità di ogni altra componente. Sulle texture l’incidenza della luce assume un ruolo determinante e la geometria diviene protagonista, segno-immagine di architetture primarie e di presenze metafisiche atemporali. Particolarmente suggestiva la serie di opere dove il supporto cartaceo, accuratamente manipolato, dialettizza in modo sostanziale con gli apporti foto-grafici e altri interventi descrittivi che ricordano la poesia visiva. Inevitabile, allora, il passaggio dal candore delle tavole da parete alle pagine di alcuni libri-opera che offrono un’altra lettura dell’intimo universo dell’autore.La produzione artistica di Pino Chimenti non deriva dalla scelta di modi linguistici attuali, ma da una spontanea vena pittorica che lo ha portato a uno stile personale inconfondibile. È ancora fondata sui valori tradizionali del segno e del colore che gli consentono di dare sfogo a un immaginario prolifico dai riferimenti culturali provenienti più dall’inconscio che da un passato-presente consapevole. I quadri a tempera, esposti al Centro d’Arte l’Idioma, come sempre, sono delle composizioni ben definite che, sia pure vagamente, rimandano al Surrealismo, al Cubismo, all’Astrattismo; al design, all’architettura e alla musica. Ma non mancano allusioni alle icone del contemporaneo. Sono frutto di un’attenta messa in scena di frammenti eterogenei, di un racconto enigmatico senza trama e senza tempo. Eppure l’opera risulta sempre formalmente equilibrata. Un palcoscenico dove, grazie a una sapiente regia, si esibiscono figure eroiche, mitologiche come fantasmi di antiche memorie; uomini robotizzati o metaforiche marionette meccaniche. Con tali elementi la rappresentazione non può che essere caratterizzata dalla finzione e dall’ironia, dall’illogicità e dalla mancanza di significato ultimo decodificabile. Il senso dell’opera va ricercato nella percezione estraniante, nell’allestimento di spettacoli ludici e fiabeschi; di fumettistici giochi di guerra dove trionfano l’estetica,  il mistero e la magia.

Luciano Marucci

[“Juliet” (Trieste), n. 140, dicembre 2008-gennaio 2009, p. 88]