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ALDO MONDINO PDF Stampa

Ripartiamo dal nostro primo incontro del ‘69 che è stato per te un anno tormentato, direi di trapasso. Facevi le azioni, ma pensavi già ad altro... L' “Ittiodromo” da Mara Coccia a Roma era stato scioccante, ma pur sempre un' azione pittorica ... con quei pesci, luccicanti e sanguinolenti, che più tardi rivivranno sul quadro o in forme plastiche...

Vero. Pensa che per la mia prima mostra a Roma nel ‘63, Cesare Vivaldi scrisse che i quadri gli ricordavano Klee, lui parlava di poesia, mentre io pensavo di aver fatto qualche cosa di apittorico e mi sentivo offeso dal paragone. Anche i pesci con il loro argento sulle squame e il rosso rubino del sangue vero erano di bell'effetto, per non parlare delle aringhe dorate del quadro “Gravere”. Se mi avessero detto allora che ricordavano la Maestà di Duccio avrei provato una grande delusione. La jeunesse!

 

Ricorderai che in quello stesso anno eri anche indeciso se partecipare alla Biennale di San Benedetto “Al di là della pittura” (da me organizzata con Dorfles e Menna) che segnò il passaggio decisivo dall' arte tecnologica all'Arte Povera. Nel tuo spazio esponesti..., senza molta convinzione, un “Vomito” (maleodorante, provocatorio...), un grande tronco di quercia con sopra un delicato merletto, ma anche quadri di zucchero cromaticamente raffinati e una rudimentale sedia con un fantoccio-autoritratto (ai miei occhi, una specie di indios biondo costruito alla maniera dei tau tau dei Toraya di Sulawesi) che riparlavano precocemente di pittura e di scultura .

Tu sai forse che il centrino sul grande tronco (ricordo che c'era voluto un tir e una gru per portarlo nella sala) era solo un salto di qualche passaggio. Il centrino appoggiato sulla corteccia stava per il centrino sul tavolo che da quel tronco si sarebbe ricavato. Mi piacciono i salti dei passaggi. Io li faccio tutti, anche se non li racconto. Ti interessa passare da S. Quintino a Omero? Semplice: Quintino, Sella, Cavallo, Troia, Assedio, Odissea ed eccoci arrivati. Il famoso gioco del bersaglio. C'era inoltre un grande quadro blu con scritte in zucchero. Un cielo stellato. L'avevo intitolato “Voyage dans les etoiles” ed era l'oroscopo del mio segno zodiacale. Quell'anno ho cominciato la pittura, dapprima per provocare il conformismo avanguardista, poi però ci ho preso gusto e da allora non ho più smesso, concedendomi solo ogni tanto qualche scappatella.

 

Dopo anni di esperienze e di nomadismo, nelle tue opere persiste l'elemento sorpresa?

Deriva dal mio grande piacere, dal divertimento di dipingere e dall'essere sempre io il primo sorpreso. E credo che il mio lavoro continui a meravigliare anche lo spettatore.

 

Cosa chiedi ancora oggi al medium pittorico?

Molto, molto di più di anni fa. Nel tempo ho trovato il materiale di fondo più adatto ad esprimermi con la pittura e non soltanto con oggetti, idee o parole, come mi è successo in precedenza: il linoleum, su cui dipingo con colori ad olio. Mi piace che la parola linoleum contenga due altre parole: lino e olio. Da un gioco di parole è saltato fuori il supporto sul quale scivola bene il pennello e il colore. E posso partire da un fondo scuro, come dipingevano gli antichi e non da uno chiaro. Questo agevola molto lo sviluppo del mio lavoro. Ho trovato un modo per esprimermi pittoricamente che mi è assolutamente congeniale.

 

A parte le virtù del supporto che ti dà la possibilità di cogliere istantaneamente la fuggevolezza dei tuoi viaggi..., pittura per te è anche bisogno di colore e di poesia.

“Colore” e “poesia” sicuramente, ma il mio caso è più complesso. Il disegno, per esempio, è fondamentale. Anche l'ironia è molto importante, come lo sono la ricerca delle mie origini, il viaggio, appunto, per scoprire dei mondi che credevo lontanissimi e invece mi sono vicini, a portata di mano.

 

In sostanza essa ti offre la possibilità di agevolare e rendere più libera la comunicazione delle intenzioni...

Per me è l'unico modo, non solo di comunicare con il prossimo, ma prima di tutto con me stesso. È un mio approccio, direi religioso, con l'arte. Considero il dipingere una forma di preghiera.

 

Com'è nato il tuo esotismo?

È una risposta complicata. All'inizio la motivazione era concettuale, perché ad una grande maniera di orientalismo della fine dell'Ottocento, corrispondeva il desiderio di Oriente della fine del nostro secolo. Quindi, ci sono punti di contatto molto simili tra i due momenti: la fine dell'Ottocento era un periodo di crisi, di passaggio dalla società di tipo agricolo a quella industriale; la fine del Novecento, da quella industriale ad una che non sappiamo ancora se post-industriale, telematica... Vedremo... Certo è che l'epoca industriale sta finendo e, nel passaggio tra due civiltà, l'uomo cerca sempre di rifugiarsi nell'esotico, in qualcosa di lontano. Oggi tanta gente cerca l'Oriente. Basti pensare a quanti ci vanno in vacanza. Tutto questo è certamente un segnale di crisi con il quale bisogna fare i conti.

 

La prima maturazione è avvenuta all'interno dell'atelier.

Allora - come dicevo - c'era solo la motivazione concettuale, poi si è verificato quello che accadde a Delacroix. Anche lui aveva iniziato nel suo studio lavorando su delle immagini che gli avevano portato. Mischiava le piramidi con Margellina, metteva le donne siciliane, non so dove, in Grecia. Col suo primo viaggio in Marocco, è diventato un pittore realista, come del resto sono io.

 

Si può pensare che il processo di attualizzazione dell'orientalismo, iniziato nel 1984, sia sorto per curiosità etnografica, per sfruttare il fascino delle iconografie arabe, per ricevere informazioni emozionali, oppure per solidarietà umana verso un mondo povero materialmente, ma ricco di storia e di dolcezza. Si può anche supporre che il tuo non sia un semplice innamoramento per fini edonistici, ma partecipazione spirituale o che tu assuma un metaforico atteggiamento ideologico antirazziale per ridare dignità a certe comunità. Al di là delle ragioni che derivano dalle tue origini, quale è il vero movente di questa scelta tematica?

Pensa a quante cose sono cambiate dall' ‘84 nel mondo, a parte le mostre di Celant. Nella tua domanda c'è già la risposta. Aggiungo l'imprevisto, l'ironia, il piacere di dipingere, un po' di colore, l'affetto e la simpatia per l'ebraismo, il piacere di giocare con le parole (kabala), con gli oggetti (l'obbiettivo) e ultimamente con gli animali. Falce e Martello sono i miei cani pastori de la Brie , ho poi un pollaio dove si mescolano al di là di ogni pregiudizio, galline e tacchini, papere, oche e anatre. Tutti mi stanno dando grandi lezioni di civiltà.

 

Oggi si può affermare che, sia pure dal versante artistico, sei stato un precursore del nuovo orientalismo , dell'incontro-confronto culturale tra Oriente e Occidente. Nell'attuale produzione quale delle due culture fai prevalere?

Non sono un “precursore”, sono un occidentale, nato a Torino, quindi piemontese ed assimilato. Diaspora continua.

 

Ho notato che fai coesistere gli estremi opposti come, ad esempio, la contemporaneità e l'arcaicità per essere qui e altrove nello stesso tempo... Guardi alla tradizione sempre con spirito antiaccademico, un po' neodadaista...?

“Neodadaista” non direi. Non escludo di divertarlo in vecchiaia. Sono possibilista, vorrei diventare astratto e romanziere. Non amo per ora giocare a scacchi, purtroppo.

 

In questo momento cosa ti attrae di più?

Petra. Petra è la mia compagna. La amo molto, è bellissima, un po' texana, un po' tedesca, un po' elbana, un po' spagnola, molto tenera e severa allo stesso tempo. Viaggio meno di una volta e sono più felice.

 

Ma c'è anche la serie di opere recenti sulla tauromachia...

Mi sento spagnolo. Spagnolo che ama i tori e le corride, però. Ho mai dipinto quadri sul tema, tranne essermi travestito da torero casereccio per una mostra da Sperone. Domani parto per Madrid, ho in mente un lavoro. Vedremo. Un matador deve essere spagnolo e forse anche il pittore di corride dovrebbe esserlo. La mia sarà una sfida, un po' come scendere nell'arena. Provarci. Orson Welles ci ha provato a scendere nell'arena con risultati disastrosi, mentre con la celluloide se l'è cavata benissimo. Hemingway da parte sua ha preferito essere ferito in guerra e scriverne però bene. Pensa se farò un quadro astratto più qualche sedia barocca, un po' neodadaista, che ridere, ma che bella sorpresa!

 

Entriamo nell'opera. Gli oggetti assunti come ready made del vissuto per costruire il quadro sono completamente sottomessi alla pittura o vogliono affermare una loro autonomia?

Se ti riferisci agli oggetti che ogni tanto appendo ai quadri, sono solo un po' di avanguardia residua, per simpatia. Normalmente i quadri di quegli oggetti vorrebbero farne a meno. Io dipingo la testa di un saggio e gli appiccico due ciabatte vecchie. Mi piace l'espressione di lui. Per fortuna non parla! In Jugoslavia piangerebbe.

 

Ricicli pure il tuo vestiario per proiettarti oggettualmente nella seconda dimensione...

Non butto mai via niente. Non si sa mai. Riempio camere di cianfrusaglie, poi arriva il giorno che lascio tutto e parto senza valigia.

 

A cosa può essere dovuta la crescita di interesse per la tua opera registrata specialmente in questi ultimi tempi?

Con la Transavanguardia le gallerie hanno ricominciato ad esporre quadri, senza vergognarsi. Anche i cani perduti senza etichetta hanno trovato un loro spazio.

 

Come pittore, dunque, hai vinto la scommessa...

Forse. Perché amo dipingere. Riuscire pure a campare facendo ciò che mi piace, mi pare sempre una bella fortuna.

 

Dai soggetti di alcune opere e dal tuo impegno si vede che ti stai misurando, non soltanto idealmente, con i grandi artisti della Storia.

Forse è per questo che continuo a divertirmi. Basta fare un giretto al Prado per tornare subito con i piedi per terra. Andare al Museo per darsi una regolata.

 

Ti dedichi volentieri pure alla scultura...

È la cosa che mi diverte maggiormente, più che dipingere e ti spiego perché. La pittura è il mio mestiere, è una vera esigenza, un vizio; è un pochino come respirare. Se resto un giorno o due senza dipingere perché sono in giro, non sto bene e, quando torno in studio, sono felice. Dipingere è il gioco più bello che io conosca. La scultura, invece, non è un vizio: la faccio quando mi viene in mente, anche una sola volta all'anno, quando cioè ne sento la necessità perché ho un'idea da formalizzare. Senza fare scultura posso vivere ugualmente, per questo ci sono cento quadri e una scultura: più o meno il rapporto è questo. Se non faccio scultura perché non mi vengono idee, non mi sento in crisi.

 

Dai vari cicli di opere emerge che cambi sempre strada, a volte anche con brusche ed inaspettate sterzate, senza tuttavia uscire dalla continuità e dalla circolarità. Ogni mostra nasce da un'idea diversa? cerchi di presentare sempre l'inedito?

Nelle gallerie private, quasi sempre. In un'esposizione come la Biennale di Venezia (dove ci sono ventimila cose da vedere in un giorno e i visitatori non hanno il tempo di guardare i quadri con calma uno per uno) occorre invece partecipare in modo diverso. Io sono stato invitato a tre Biennali. Una volta con un quadro che nessuno ha mai visto perché era appeso tra tanti altri quadri; una seconda con una saletta alla Giudecca di cui pochissimi si sono accorti perché il mio lavoro era completamente fuori moda. Sono le belle lezioni che tu ti prendi per capire che non è certo quello il luogo in cui puoi esporre un prodotto nuovo: devi portare una cosa più matura, anche nel rispetto del tuo lavoro. Ecco allora che per l'edizione del ‘93 nella mia sala ho presentato qualcosa che rimanesse nella memoria della gente, per cui ho privilegiato alcuni materiali, certi colori come il verde (che era quello di una moschea), il grande lampadario e solo tre quadri, per dare di me un'immagine generale. E per animare il tutto ho fatto venire i Dervisci con la loro preghiera-performance.

 

Anche all'interno dell'opera le immagini transitano rapidamente. E l'instabilità di matrice poverista di certe materie dolci indicano tras-formazione...

Mi piacerebbe fosse così.

 

Questo in fondo conferma il tuo interesse per l'effimero espresso dall'immagine dipinta e dalle azioni performantiche che integrano il quadro...

Sì.

 

La tua pittura è sempre imparentata con la musica e lo spettacolo?

Non sempre.

 

Comunque, con la componente spettacolare vuoi anche “aprire” l'opera dipinta per creare uno spaesamento e, al tempo stesso, un maggiore coinvolgimento dello spettatore.

Mi piacerebbe riuscirci come i Dervisci. Essi girano ed entrano in trance, tu li segui con lo sguardo e a forza di vedere trottole, la testa gira anche a te... e sei fatto.

 

Pure gli stimoli sensoriali-evocativi dei dolci e dei profumi, nonché le incursioni nei contesti vitali ricostruiti in certe mostre acquistano una forte valenza comunicativa...

Tutto ha una valenza comunicativa. Spostare lo zucchero dalla drogheria alla galleria, dalla tazzina alla parete, è come spostare una tela e i colori dal negozio al museo.

 

Ti consideri un pittore con tendenze anarchiche ?

A questo punto dell'intervista non sono io a doverlo dire.

 

...trasgressivo e competitivo?

In certe corride, invece di tre toreri contro sei tori, ci sono solo due toreri contro sei tori. Si chiama “mano a mano” e la competizione è anche tra i due toreri. Celebre il mano a mano tra Ordonez e Dominguin. Pensa scendere in competizione con El Greco, che batosta!

 

...Individualista?

In coppia con Petra, detta anche Petronilla.

Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 73, giugno 1995, pp. 34-35]