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Anteprima con Isgrò alla XLV Biennale  

 

*Luciano Marucci: Isgrò, un giudizio a caldo sulla Biennale.

Emilio Isgrò: Sono convinto che, come in tutte le Biennali, ci siano presenze vitali e altre meno. Non si può pretendere che tutti facciano la Cappella Sistina. L’importante è che gli artisti abbiano una misura di sincerità. Nella foresta anche il fiore più piccolo ha la sua ragione di esistere, non solo i grandi alberi. Però, conoscendo il curatore della mostra, credo che nelle sue intenzioni critiche ci sia un pochino il tentativo di rimettere in moto le ruote che sono completamente affossate ed infangate e non può farlo uno solo, ma tutti insieme. Oggi l’arte è una delle poche luci che abbiamo (lo dico senza timore di fare retorica). La politica e l’economia si sono inceppate, perché non c’è stata una reale inventiva. Gli artisti contano nella società (lo si vede nei momenti di crisi), nel senso che, se era utopistica una società di tutti angeli, è altrettanto utopistica una di uomini tutti mascalzoni, mediocri, desiderosi di denaro. L’uomo vuole la compagnia, soffre, ama e non vede come valore il solo denaro. Francamente, non lo dico ad occhi bendati, ma come artista che vive in occidente. 

 

A quale riflessione è correlata l’opera che ha presentato?

Dopo essere stato invitato, ho pensato a cosa io potevo fare in questo momento alla Biennale. Tutto sommato, l’istinto mi suggeriva di agire al meglio con le possibilità che oggi debbono essere usate da tutti noi per cercare di uscire da una crisi di cultura che è soprattutto crisi dell’invenzione artistica. Tra le immagini dell’installazione e l’elemento spettacolare c’è un legame che va ricercato nel clima che ho voluto creare. La preghiera è uno dei grandi temi di tutte le opere ottocentesche. La sezione di cui faccio parte si chiama “Opera italiana” ed io spero di onorarla proprio con una preghiera che ho inserito come elemento spettacolare, non di tipo performativo come si faceva negli anni Settanta, ma che agisce come uno dei livelli possibili da adoperare nello spazio.  

 

Ho notato che, dopo anni di ermetismo concettuale, ha introdotto un’immagine più riconoscibile e perfino la componente spettacolare...

Io sono considerato un artista abbastanza irrequieto, quindi, desideroso di non sedermi... Negli ultimi lavori ho cercato di sviluppare le premesse che già erano nella mia attività precedente. Credo che la nostra società oggi abbia bisogno di un minimo di innovazione. Se essa non appare nell’arte e nella cultura, non apparirà neppure nella società civile. 

 

Crede più di ieri nella necessità di far convivere nelle arti visive linguaggi diversi?

Nei prossimi anni bisognerà andare in questa direzione. Io non credo in una multimedialità di tipo tecnologico, non perché non sia possibile o utile, ma perché essa diventa come un dio che accende la luce e non riesce più a spegnerla. Diventa, cioè, un gioco sterile. Io ho fiducia in una integrazione disciplinare basata sullo spessore storico e psichico di ciascuno di noi. Naturalmente non si può chiedere a ogni artista di agire in questo modo, ma se uno è portato a farlo, deve essere incoraggiato. Non amo certe operazioni dove strafare è più la misura di un’insicurezza che il segno di una sicurezza reale. 

 

Questo orientamento può contribuire ad avvicinare maggiormente il pubblico all’arte e a ridare ad essa una funzione ideale?

Azione sociale di un artista significa capacità di rapportarsi con gli altri. Penso che nella società il compito di un artista non sia quello di sognare il denaro, ma la gloria intesa come spessore umano; la grandezza come senso morale...  

 

L’ideologia che ha sempre nutrito l’opera, negli ultimi lavori si è un po’ addolcita...?

Io non sono mai stato un ideologista puro. Il mio sperimentalismo degli anni Sessanta e Settanta tendeva a trovare le cose, non a cercarle solamente. La mia ricerca del nuovo è stata sempre di tipo biologico, perché io sono fatto così. Col tempo non mi sono addolcito, ma ho stabilito un rapporto più pieno con un pubblico che mi ha seguito e che mi segue facendomi sentire responsabilizzato. Certi lavori miei o di altri artisti, prima considerati ostici, con il tempo sono penetrati e sono apparsi diversi. Ho cominciato a fare l’artista a venti anni. Cosa vuole che sapessi dell’amore o della sofferenza a quell’età! Quando si scopre che gli altri hanno più o meno gli stessi problemi tuoi, quale artista può fare il divo e dire “non mi rimbocco le maniche”!? Io non sono un politico e, quindi, su questo terreno potrei fare ben poco, ma nel campo dell’arte cerco di mettercela tutta per essere sincero e autentico.  

 

Da queste considerazioni si intuisce che tende a valorizzare gli aspetti umani e poetici...

Lei lo dice, gli altri lo dicono... Spero che sia vero. Certamente oggi il mio rapporto con gli altri è meno problematico, pur non avendo fatto niente per modificare il mio modo di essere. 

 

(Intervista del 1993 in occasione della vernice della Biennale d’Arte di Venezia. Solo il testo contrassegnato dall’asterisco è stato pubblicato nella recensione dell’esposizione, “Juliet” n. 64, ottobre-novembre 1993, pp. 34-37)