Home arrow Viaggi nell'arte arrow Transiti arrow L’Attico / MAXXI Roma (n. 177/2016)
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ROMA

Da qualche tempo si assiste alla riscoperta e all’esibizione di opere e documenti d’archivio su attività creative e relazioni interpersonali che evidenziano aspetti culturalmente rilevanti legati all’attualità. L’Attico, che da quasi cinquant’anni attua eventi propositivi, è certamente depositaria di testimonianze uniche, spesso ignorate anche dai critici di professione, specie delle giovani generazioni. Ce lo prova il direttore Fabio Sargentini nel testo introduttivo all’elegante catalogo che accompagna l’ultima mostra Arte da non ardere, titolo che ha un doppio significato: tematico delle opere realizzate in legno e simbolico dell’arte che deve essere preservata. L’esposizione si apre con un manufatto d’uso comune, proveniente dall’etnia Dogon del Mali, e comprende lavori di Nunzio, Pizzi Cannella, Nagasawa, Balkenhol e Puxeddu. Tutti pezzi di cui, appunto, viene raccontata la storia, legata allo stretto rapporto del gallerista con gli artisti. Esemplare quella che svela l’origine delle sculture combuste di Nunzio, il quale nel 1986 a Parigi, consigliato da Fabio, visitò il Musée de l’Homme, rimanendo suggestionato dalle nere sculture arcaiche. Da lì prese avvio la sua nuova produzione, subentrata all’uso del gesso, estesa poi al piombo. Non a caso è stata riproposta Meteora, appartenente al periodo di transizione. Anche la nascita del Trittico di Pizzi Cannella del 1991, con le “vesti” - reali e metafisiche - dipinte per la prima volta su tavola, prende forma da una strana circostanza che viene narrata dettagliatamente. Altrettanto interessanti le rievocazioni sulle opere degli altri tre autori. Insomma, leggendo queste memorie inedite, si apprendono informazioni miste a riflessioni, che aiutano a capire la genesi di singolari esperienze artistiche, in aggiunta a quelle determinanti che Sargentini, tra gli anni ‘60-‘70, ha vissuto da regista e protagonista della scena artistica in senso multidisciplinare, caratterizzata da profondi cambiamenti linguistici e concettuali.

 

Al MAXXI Jimmie Durham. Sound and Silliness accomuna quattro lavori dichiaratamente allusivi: due audio e due video, proposti dai curatori Hou Hanru (direttore della Fondazione) e Giulia Ferracci, con l’intento di creare un’armonia con lo spazio architettonico del Museo e di coinvolgere gli spettatori. L’opera del 2013, firmata pure da Maria Thereza Alves, include la registrazione del canto dei rondoni a Porta Capuana di Napoli. Dei due video, quello del 2007 registra una performance in cui l’artista americano (attivo tra Berlino e Napoli) si esibisce come protagonista di cinema muto con gesti che vogliono promuovere la pace in tutti i continenti; l’altro  del 2005 riproduce, al rallentatore, l’effetto  della caduta di una grande pietra (assunta come oggetto distruttivo) in un contenitore pieno di colore. L’opera centrale dell’evento, incentrata sul rumore di vetri infranti, ricorda il principio di de Lavoisier: “Tutto si trasforma e nulla si distrugge”. In sostanza Durham con queste realizzazioni vuole dire che il conflitto tecnologia/natura può essere alleggerito anche con mezzi semplici. E indirettamente dimostra di volersi spogliare della sua individualità, e perfino del proprio stile, per evitare la ripetitività. Egli, senza volerlo, può essere considerato caposcuola di una pratica artistica affermatasi di recente (vedi, ad esempio, Danh Vo all’ultima Biennale d’Arte di Venezia), basata sulla combinazione di materiali eterogenei, libera da limiti linguistici, concettuali e spazio-temporali. In questo modo dà sfogo a versatilità e prolificità attraversando, con disinvoltura e ironia, storia dell’arte, ready-made e irriverenza duchampiane, fino a irrompere nella realtà del presente. Ciò, ovviamente, genera negli osservatori un continuo spaesamento. Inoltre l’opera con tali presupposti diviene veicolo di una comunicazione plurima. L’esposizione romana ha ribadito i suoi in-costanti interessi poetici, estetici ed etici; la sua persistente sfida agli schematismi e addirittura alle possibilità inventive di se stesso, già esplicitata alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia nell’estate 2015 e, ancor più, nella vasta retrospettiva dell’ottobre scorso alla Serpentine Gallery di Londra.

Luciano Marucci

 

[«Juliet» (Trieste), n. 177, aprile-maggio 2016, pp. 103-104]