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PESARO

Nonostante le innumerevoli mostre attuate, Jannis Kounellis non smette di stupire, anche se talvolta nelle sue opere sono riconoscibili componenti che appartengono al suo vocabolario. In verità per lui sono occasioni che stimolano il proprio immaginario e gli danno modo di rendere pubbliche le motivazioni del fare. Lo ha dimostrato pure alla personale presso il Centro Arti Visive Pescheria, curata da Ludovico Pratesi, realizzando due installazioni in un atto unico, strettamente relazionate agli spazi dalla diversa connotazione. Con l’aiuto di operai specializzati ha trasformato il luogo espositivo in un cantiere della creatività. Nel grande Loggiato dell’ex Pescheria ha sospeso otto altalene in equilibrio in-stabile (legate a corde fissate alle capriate), con sopra sacchi pieni di carbone che gravavano su altrettanti ‘corpi’ misteriosi (de-formati da parti metalliche recuperate in un’azienda pesarese), distesi sul pavimento e ammantati da teli bianchi, simili a cadaveri. Il tutto inondato da luce reale (proveniente dalla vetrata del colonnato) e artificiale (diffusa dall’alto) che, divenendo elemento costitutivo delle forme simboliche, de-polarizzava l’armoniosa visione d’assieme, mantenendone la pesantezza, e introduceva una sensuosa valenza cromatica. Nell’adiacente Chiesa sconsacrata del Suffragio l’artista ha costruito un’installazione di più forte impatto percettivo, associata all’altra: un doppio binario circolare, senza via d’uscita…, con cinque carrelli carichi di abiti neri, non più vissuti, in diretta dialettica con l’insolita struttura architettonica dodecagonale. A completamento, durante l’inaugurazione e il giorno successivo, il convoglio veniva trainato da un vigoroso cavallo, condotto da un vetturino vestito di nero. L’operazione performativa, che evocava una sorta di liturgia funebre dell’ineluttabile destino umano, era emotivamente molto coinvolgente, anche perché il persistente rumore delle rotaie e degli zoccoli dell’animale conferiva solennità all’immagine plastica in movimento e accentuava la drammaturgica teatralità dello spazio fisico e mentale. Nei tre mesi di apertura dell’esposizione, di quella memorabile azione, dove palcoscenico e platea si fondono, verrà proiettato un filmato in loop. Avendo avuto il privilegio di frequentare Kounellis fin dal 1968, posso dire che la sua forte identità, oltre che dall’origine greca e dalle suggestioni estetiche ed etiche della classicità, derivi dalla sua radicale idea di arte non celebrativa, mai disgiunta dalla profonda coscienza delle problematiche esistenziali del presente. E riesce a visualizzare le idealità attraverso l’uso di materiali poveri, di procedimenti antiaccademici e perfino con l’esaltazione di valori pittorici che gli permettono di aumentare il potere comunicativo e poetico dell’opera, anche se questo in una produzione ottenuta con mezzi eterogenei, può sembrare paradossale. Jannis, nel corso dell’ampia intervista che sarà pubblicata prossimamente, ha tenuto a ricordare che appartiene a una “certa generazione”: creo volesse alludere, in particolare, a quel ristretto gruppo di creativi e intellettuali che negli anni ’60-’70 non subivano la tradizione retorica, rivendicavano, pure provocatoriamente, una maggiore libertà espressiva e tendevano ad ampliare il concetto di arte connessa alla vita, quindi, alle dinamiche della realtà in divenire.

Luciano Marucci

 

[«Juliet» (Trieste), n. 179, ottobre 2016, pp. 102-103]