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HAIM STEINBACH PDF Stampa

L’installazione nella Galleria di Franca Mancini di Pesaro segna una tua diversa relazione con il mondo dello spettacolo?

La relazione c’è ma, come sempre nel mio lavoro, riguarda gli oggetti che incontriamo in luoghi differenti: ambienti domestici, gallerie d’arte, musei, teatri, magazzini. In ogni momento noi ci rapportiamo con  essi. Anche adesso che siamo qui, seduti attorno ad un tavolo, le sedie hanno una determinata organizzazione, un certo assetto. Il caso specifico di Pesaro, per me, è un’esperienza di continuità.  Quando qualcuno a cui piace il mio lavoro - diciamo un collezionista - mi chiede di fare un’opera per lui, molto spesso non lo invito nel mio studio a vedere ciò che ho, ma vado a casa sua e gli propongo di utilizzare i suoi stessi oggetti. Nel momento in cui Franca Mancini mi ha chiamato ad innestarmi con la situazione culturale della città dove ogni anno si organizza il Rossini Opera Festival, ho esplorato diverse possibilità. Alla fine ho deciso che avrei ‘spostato’ i personaggi dell’opera “L’Italiana in Algeri” trovando il modo di usare diversamente i costumi teatrali. Ero interessato all’idea di identità del ruolo della protagonista femminile e all’ironico cambiamento di potere in relazione agli anni del colonialismo. Per “Rossini at 4.00 a.m.” mi sono ispirato alla produzione di Dario Fo del 1994.  Con una struttura di tubi Innocenti color argento alta sei metri ho trasformato la Galleria in uno spazio in allestimento per una nuova produzione. I manichini-attori hanno preso posto nel palcoscenico da me ridisegnato e si presentano come oggetti immobili. Dormono su piani di cristallo e sognano lo spettacolo del giorno dopo, ma a ruoli invertiti, in una sovrapposizione di voci e di musica. Anche per questo l’installazione acquista il carattere onirico di trasposizione. Ho sempre notato che all’opera gli spettatori sono passivi: seduti su comode poltrone, guardano ciò che avviene in palcoscenico ed è possibile vederli annoiati o addormentati. Nel mio caso ho voluto attivare i visitatori facendoli camminare in mezzo ai suoi personaggi.

 

Nella vita tutto è teatro...!?

In un certo senso sì; tutto è finzione e, nello stesso tempo, tutto è reale. Ma il problema non è ciò che è reale e ciò che non lo è, piuttosto trovare qual è il nesso; come viaggi mentre stai tra queste cose. Così cominci a recitare tra finzione e non, tra realtà e teatro.

 

Credi che le tue ideazioni espresse con certi mezzi riescano a comunicare efficacemente?

In arte gli oggetti sono statici, a meno che tu non sia un artista di video (ed io non lo sono). Il mio lavoro è legato più alla tradizione dell’arte di rappresentazione. Non sono un attore ma la mia opera è presentazione di oggetti che fanno da personaggi. Nell’arte della rappresentazione ci sono persone che recitano in teatro, nel museo, in galleria. Penso a Vanessa Breecroft in cui le ragazze camminano nello spazio e in qualche modo recitano, non nel senso tradizionale, ma perché si muovono in un determinato luogo, di fronte ad un pubblico. Il mio lavoro è associato a questa idea, sebbene io non proponga esseri umani, ma oggetti. Essi si muovono quando qualcuno li sposta e noi lo facciamo continuamente, ogni giorno.

 

Quindi, sei fuori dai multimedia.

Sì, perché il mio lavoro riguarda cose nel mondo non filtrate da tali mezzi. Gli unici momenti in cui mi accosto ad essi è quando faccio un video per documentare un’installazione, oppure quando seleziono e sistemo idee o immagini per una realizzazione. L’esperienza dell’opera attraverso il video immette in un diverso canale di comunicazione; per certi versi si conduce una nuova operazione.

 

Il video inserito nell’opera realizzata all’ultima Biennale di Venezia che senso aveva?

Lì avevo fatto quel tipo di installazione prima di tutto perché era uno spazio specifico che già conoscevo; in secondo luogo perché lavoro da tempo alla progettazione di mensole fabbricate in moduli sulle quali vengono messi degli oggetti. Nei grandi magazzini si ripongono scatole di cibo, contenitori di acqua..., cose che usiamo comunemente. Io cerco di presentare determinati oggetti e di aprire alla loro storia. La struttura di Venezia era nata dallo stesso concetto. Avevo scelto cose che si relazionavano con il tempo e la morale, tra stabilità e non; che si riferivano a mutamenti sociali e culturali. Stiamo vivendo un momento di mutazioni, di anticipazioni; c’è nell’aria il senso di consapevolezza di qualcosa che sta per finire e di qualcos’altro che sta per iniziare. È la fine del secolo, fra poco saremo nel Duemila e penso che tutto ciò abbia un effetto sugli artisti, gli scrittori, la gente in generale. Si riflette su cosa abbiamo fatto, su cosa è successo, dove stiamo andando. Questi pensieri sono anche nella mia mente. Quel mio lavoro era formato di pochi elementi: grandi mattoni (come quelli usati per costruire case), sedie piene di ‘graffiti’ prese in una scuola di Venezia, sabbia di mare, un palloncino tenuto su dall’elio, che era effimero perché si sgonfiava e occorreva sostituirlo. La sabbia, poi, è una sostanza della terra in continuo movimento, perciò va d’accordo con l’entropia, cioè con le cose che svaniscono e riappaiono. Non è come le rocce; può volare con il vento e diventare altro da sé; può modificarsi molto prima e più delle rocce. Infine c’era un monitor - oggetto che abbiamo nelle nostre case - contestualizzato con altri elementi. In esso appariva un lavoro di un altro artista che si avvaleva di una serie di interviste a donne giapponesi di generazioni diverse che parlavano delle loro mete nella vita, del passato, del futuro, del presente, del matrimonio... Tutto ciò investiva la sfera del genere femminile. Il video è qualcosa che si muove nel tempo, invece una sedia sta ferma, a meno che non arrivi il terremoto. Certamente, nel momento in cui hai un televisore nella tua stanza e accanto ha un vaso di fiori, se spegni il televisore e tutto diventa buio, esso si trasforma in un oggetto morto come il vaso, ma quando lo accendi comincia a mettersi in un altro tipo di relazione con il tempo, il movimento, la realtà. Questo è ciò che mi interessa dei media: come noi li guardiamo, come li rapportiamo alla  nostra coscienza, agli oggetti vicino ai quali viviamo. La sedia è una sedia, può essere moderna ma è pur sempre una sedia, così pure l’albero, il vaso..., ma se il televisore sta accanto al vaso o alla sedia, l’accostamento porta a una nuova interazione con il nostro concetto di spazio e di tempo. Nell’associazione del video con i bambini e il tempo, era la chiave di quel mio lavoro...

 

La tua opera vuol essere contemplativa? aspira ad interessare il grande pubblico?

Se sei un artista video, un film-maker o l’uno e l’altro, puoi usare i media. La mia opera è molto più contemplativa, perché non mira semplicemente all’immagine massmediale, piuttosto alla relazione tra differenti immagini in termini di oggetti. Perciò non mi pongo l’obiettivo di fare un tipo di lavoro che abbia un successo bomba tipo “Titanic”. Sarebbe meraviglioso attrarre sempre più persone, ma  mi interessa molto indurre una sorta di riflessione filosofico-contemplativa sulla cultura attraverso gli oggetti. La gente comune può guardarli, ma lo scopo della mia arte è soprattutto far capire perché ne ho messo uno vicino ad un altro.

 

Secondo te, dove sta andando l’arte visuale?

Per me è interessante trovare nelle opere l’idea del futuro che è difficile da visualizzare. Come sarà? Come si muoverà l’artista? Dove andremo tutti? Penso che ci siano alcuni lavori di giovani completamente nuovi che mostrano la direzione che va emergendo dalla storia recente: l’uso della performance, le relazioni con gli oggetti quotidiani, la considerazione estetica delle cose. Ci stiamo muovendo verso le attività lavorative, l’interazione con le persone, l’integrazione tra le comunità, per cui l’arte non è solo nell’oggetto fisso e bello, più o meno interessante e intelligente che si appende al muro, ma comprende qualcosa che abbiamo dentro di noi, qualcosa di cui facciamo tesoro stabilendo rapporti con la gente e comunicando attraverso le cose.

 

È il momento di trovare strumenti alternativi per una comunicazione artistica adeguata alla civiltà telematica?

Certamente. Anzi, io penso che non si debba guardare solo a ciò che accade nell’arte. Non è questione di fare arte comunque e dovunque. Kandinskij diceva che tutto è permesso. L’affermazione è valida oggi, che stiamo facendo arte attraverso Internet, più che ai suoi tempi, quando c’erano solo la pittura e la scultura. Gli artisti cercano modi per situare attività ed esperienze tra gli spettatori che siano in grado di penetrare la nostra coscienza e di diventare criticamente consapevoli di quanto sta accadendo intorno a noi. In conclusione, ciò che l’arte sta facendo, la sua funzione in ogni tempo, è il tentativo di catturare la realtà. Noi viviamo in essa, ma ci passa davanti mentre diventiamo vecchi. L’artista tenta di captarla dal punto in cui ci troviamo, non da dove eravamo vent’anni o centinaia di anni fa. Il senso della comunicazione è così radicalizzato che dobbiamo considerare certi sistemi per trovare il modo di integrarli e di lavorare con loro.

 

Nel tuo progressivo itinerario artistico che posto occupano certe installazioni in luoghi e culture diverse, tra storia e attualità?

È una domanda importante. Nel caso di Pesaro, di cui ho già parlato, il punto era come rapportarsi con un’opera di Rossini. Se fosse stata messa sul palcoscenico avrebbe visto in azione attori-cantanti. Io l’ho letta in maniera nuova. Nell’installazione sulla moda che feci due anni fa a Milano ho interagito con le attrici-modelle che, indossando degli abiti, stavano comunque recitando. La differenza  sta nel fatto che le modelle erano vestite con le collezioni moderne, mentre al teatro si adoperano costumi che narrano storie di un’epoca passata. La sfilata di moda racconta la storia del nostro tempo; un tempo in movimento, in continuo cambiamento, anche se gli stilisti spesso disegnano modelli ispirati, per esempio, all’epoca barocca. Con la situazione che ho ideato mi sono presentato con qualcosa che già esiste. Ho cambiato la disposizione delle cose rispetto a come è fatta di solito una sfilata. Ho riorganizzato i personaggi, così la questione della storia è veramente relativa rispetto alla rappresentazione degli oggetti. L’anno scorso anche al MMK Ludwig 20th Century di Vienna ho realizzato una struttura (the trial) con un’impalcatura (che è come una struttura a mensola) la quale dà l’idea di una mostra “in costruzione”. Entrando nel museo era la prima cosa che si vedeva. Vicino c’era un mucchio di ghiaia, del tipo usato per i binari. Così temporalità e contingenza sono divenuti aspetti del lavoro. Certamente io non ignoro la storia, perché tradizionalmente un’opera è fatta in un certo modo, ma il mio lavoro si relaziona di più con il presente dove si possono avere tempi o aspetti diversi della storia uno vicino all’altro. Il mio interesse è nella continuità del presente e nel come il passato sta in esso.

 

Intendi sviluppare il lavoro in questa direzione?

Certamente. Voglio ricordare che quando intorno agli anni Settanta ho iniziato a lavorare con gli oggetti, ho fatto delle installazioni. Ora continuo su quella via, ma dipende dall’opportunità che mi si dà, dallo spazio adatto. È solo un problema di disponibilità.

 

Ti dedichi meno alle strutture a “mensola”?

No, perché la relazione tra gli oggetti - come ripeto - mi interessa sempre. È il mio “modus operandi”. La mensola è una costruzione industriale che serve a riporre oggetti necessari. Io la uso per raccontare la mia storia in cui c’è un’altra storia.

 

Gli oggetti cambiano in relazione al consumismo...

Non li vedo come una produzione del consumismo, piuttosto come testimonianza dell’attualità nella quale abbiamo le vetrine dei negozi che ci indicano cosa comprare. Acquistiamo oggetti e li portiamo a casa divenendo consumatori attivi. È qualcosa di inevitabile. Negli ultimi dieci anni la gente di solito guarda la mia opera e vuole parlarne, forse per il fatto che prima raramente si vedeva un lavoro artistico nel quale oggetti nuovi della quotidianità (ma ho usato anche un gran numero di oggetti vecchi) non erano mai stati presentati alla mia maniera. Io penso che sia stata la mancanza di dialogo su questo a farli vedere come oggetti di consumo.

 

In che senso tendi a rendere l’opera più “abitabile”?

Il punto è questo: il modo con cui interagiamo con gli oggetti coinvolge diversi livelli e uno riguarda il rituale. Penso alla maggior parte delle azioni quotidiane: alzarsi la mattina, spazzolarsi i denti, vestirsi, sedersi a tavola, mangiare... Ma anche andare ogni due anni alla Biennale di Venezia... Sono abitudini della nostra vita, ecco perché mi sembra importante l’idea delle attività reiterate e la scelta di certi oggetti. Essi sono al centro della mia opera perché sono collegati alla vita, al quotidiano, all’organizzazione di un luogo. Quando realizzo un’opera sistemandoli in galleria, in un museo o nelle case, penso che sia un “vivere con gli oggetti”. Per questo la mia idea di arte non è quella del guardare un oggetto, ma di far nascere una reazione dalla relazione tra gli oggetti che abbiamo di fronte e che non possiamo trovare in un altro posto.

 

Dalle analisi socio-antropologiche e culturali si direbbe che sei anche un razionale e un realista che cerca di mantenere uno stretto legame con la vita.

In un certo senso è così. C’è qualcosa di strategico nella maniera in cui la nostra vita è organizzata, dalla nascita alla morte; nel modo in cui la casa è costruita o una sedia è messa vicina ad un tavolo. Vorrei dire che il realismo nella mia opera - se di realismo si può parlare - tenta di individuare attentamente e catturare le situazioni che cerco di rivivere fermando le cose e mettendole vicino ad altre per riconsiderare la loro disposizione. La vita passa davanti ai nostri occhi prima che noi abbiamo l’opportunità di mettere le mani su di essa. Io voglio entrare in stretto contatto con la vita, cominciando a conoscere le cose che facciamo per noi stessi e come interagiamo con esse. La mia arte cerca di “afferrare la vita”, di prenderla per mano per comprenderla. Si sa che con gli aerei, i film, i nuovi media, Internet, tutto si muove velocemente, ma gli oggetti sono sempre con noi come punti fermi della nostra quotidianità. Il mio è un modo un po’ proustiano di riflettere sulle cose.

 

Non ti interessa il ready-made, ma gli oggetti che interpretano i comportamenti collettivi.

Voglio chiarire un concetto importante. Il ready-made è un oggetto d’arte. Io non lavoro solo con gli oggetti d’arte, ma con quelli di uso quotidiano. Quando diciamo ready-made, diciamo Duchamp, qualcosa di specifico. I miei oggetti - come tu dici - traducono certi comportamenti. È un punto fondamentale e non credo che questo sia il caso di Duchamp.

 

Vuoi mantenere una distanza da loro o ti senti personalmente coinvolto?

Entriamo in un’area molto problematica e potremmo parlare delle ore. Nel mondo dell’arte si pensa che il coinvolgimento personale debba implicare la manipolazione; in realtà io sono sempre coinvolto nel momento in cui faccio le mie scelte che altre persone non farebbero. Forse delle mie opere qualcuno potrebbe dire: “sembrano scaffali con oggetti nel supermercato”. D’altra parte è vero che la mia opera mantiene una qualche distanza da me, perché io sono interessato a realtà culturali (anche connesse tra loro), a realtà collettive  (a come pensiamo, a come socializziamo). Inoltre, poiché sono inserito in un certo tipo di discorso o di pensiero antropologico, la nozione di coinvolgimento personale nell’ideologia dell’arte tradizionale si confà ad un altro luogo. Quindi, si può avere una falsa impressione di relazione personale. Io penso che la complessità dell’assunto e dell’opera vadano oltre l’essere o il non essere ‘personale’.

 

L’acuta indagine sul reale che precede l’atto artistico aperto all’esterno risente ancora degli influssi pop, minimal e conceptual?

Tra le più interessanti correnti degli ultimi trenta anni c’è stata la Minimal-Art che implicava una diversa strutturazione dello spazio e in questo senso portava anche a una serie di considerazioni sociali sul come guardare l’arte, cambiando tutte le valutazioni su ciò che è culturale o non lo è. Penso che quel modello strutturale abbia avuto un’influenza enorme sull’arte di oggi all’interno del pensiero teoretico e concettuale. Per quanto riguarda la Pop-Art è stata importante per riconoscere che le immagini che passano davanti a noi alla fine del XX secolo sono differenti da quelle che tradizionalmente noi pensiamo assimilabili all’arte. In questo senso tale movimento è incredibilmente presente oggi in opere di molti giovani operatori. L’idea delle icone del nostro tempo e del riconoscersi in esse è diventata possibile proprio grazie alla Pop-Art. Entrambi sono movimenti che mi hanno influenzato molto, senza dimenticare l’Arte Concettuale.

 

Ho constatato che riesci ad entrare bene anche nelle culture dei differenti luoghi in cui realizzi le installazioni.

Spesso, realizzo le opere sul posto, tento di portarvi la mia esperienza e, nello stesso tempo, di aprire me stesso.

 

La committenza può favorire la ricerca artistica e il legame con la realtà?

Senz’altro. Del resto gli artisti del Rinascimento non dipendevano dai papi che commissionavano i lavori? Se c’è l’opportunità, si ha anche lo stimolo creativo. Molte idee non si potrebbero concretizzare se non ci fosse la committenza. L’attività artistica dovrebbe essere supportata dallo Stato e dall’industria, ovviamente salvaguardando l’integrità dell’autore.

 

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 90, dicembre 1998-gennaio 1999, pp. 42-43; traduzione dall’inglese di Paola Orsini]

 

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