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Enrico Castellani. Un ricordo più che personale

di Luciano Marucci

 

La recente scomparsa di Enrico Castellani – che avevo avuto il piacere di frequentare – mi ha doverosamente indotto a rievocare la figura e l’opera del grande artista che, a 87 anni, era ancora in attività.

Vidi per la prima volta i suoi quadri tridimensionali alla Biennale di San Marino del 1963, che segnava una svolta decisiva nell’andare oltre le ambiguità pittoriche del persistente Informale. Ma ad aprirgli la scena internazionale furono le collettive al Guggenheim di New York e alla Biennale di Venezia dell’anno successivo, nonché The Responsive Eye del 1965 al MoMA di New York, anche se la sua oggettualità programmata era più connessa all’essenzialità minimale che alla giocosità optical.

Nel 1967, quando esordii come curatore della VII Biennale di San Benedetto del Tronto con Tendenze d’oggi, presentai pure sue opere. Lo conobbi a Milano, nella galleria di Giorgio Marconi, e gli chiesi subito di poter visitare il suo studio. Mi diede appuntamento per il giorno dopo e mi accolse con insolita gentilezza, ma si rivelò più incline ad ascoltare che a parlare.

Altre sue potenzialità emergevano nella mostra Lo spazio dell’immagine a Palazzo Trinci di Foligno, dove nell’Ambiente bianco inglobava chiaramente la dimensione architettonica che gli era congeniale, avendo egli conseguito una laurea in architettura.

Nel 1969, allorché con Dorfles e Menna curai l’VIII Biennale di San Benedetto intitolata Al di là della pittura, che dava spazio alle nuove esperienze di più discipline creative, tra gli artisti invitati avrei voluto che ci fosse anche Castellani, che però in quel periodo di contestazioni evitava di esporre perché, concentrato sull’impegno civile: aveva assunto la posizione dell’intellettuale responsabile che aspirava a profondi cambiamenti del sistema socio-culturale, proseguendo l’azione controcorrente iniziata nel 1959, con Piero Manzoni, sulle pagine della rivista Azimuth. Da allora non trascurai le sue esposizioni più significative. Nel 1996 trascorsi alcune ore con lui alla Galleria Extra Moenia di Todi, dove si stabilì un confronto diretto fra due operatori visuali particolarmente interessati alla luce, concepita in forme diverse: il Maestro Castellani e il giovane Marco Tirelli. Nella primavera del 2001, quando viveva già appartato a Celleno, nella Tuscia, gli chiesi un’intervista, ma tergiversò: “Ho sempre trovato qualche difficoltà e una certa noia a parlare di me e del mio lavoro; ora con il passare del tempo e l’inevitabile storicizzazione di un periodo lo trovo anche inutile”. Ricordandogli i nostri trascorsi, riuscii a convincerlo ed ebbi modo di rivolgergli soprattutto domande che potevano provocare risposte su certi moventi fondanti della sua opera. Non si sottrasse, anzi si espresse con generosità, senza derogare dall’abituale sobrietà.

Tra le tante sue esposizioni degli ultimi tempi va citata l’esemplare personale (con opere molto differenziate del passato e altre più recenti) del 2016 alla Dominique Levy Gallery di New York – basata sulle possibilità della ‘pittura’ di occupare lo spazio, fondendo forma e concetto – che, nonostante rientrasse nella logica mercantile, ridimensionava la percezione dell’oggetto artistico. Né va dimenticato il suggestivo Spazio Ambiente, totalmente bianco, nell’esatta ricostruzione di quello del 1970, che si imponeva con silenziosa eleganza nel rumoroso gigantismo della sezione Unlimited di Art Basel 2017.

A uno sguardo retrospettivo si può dire che nella seconda metà degli anni Sessanta, con il ‘revisionismo’ dettato dall’Arte Povera e dalla Conceptual Art, Castellani – sebbene vi fosse una sostanziale incompatibilità tra la sua progettualità razionale e l’esasperata soggettività dei poveristi e dei concettuali in ascesa – veniva collocato in area neutrale grazie all’autorevole individualità.

Successivamente, per la serietà della ricerca in progress, riguadagnava la piena attenzione e la stima generale. Gli erano riconosciuti tutti i valori della sua moderna classicità: l’alta qualità dell’opera, ‘compiuta’ e al tempo stesso ‘indefinita’; la fedeltà alla metodologia teorico-pratica; la capacità di visualizzare un processo mentale in costante tensione verso l’assoluto. Il che non è poco!

Il mercato ha contribuito alla rivalutazione delle sue realizzazioni che, specialmente alle aste di Londra e New York, hanno raggiunto quotazioni elevate. Ciò, però, non ha condizionato il suo lavoro, sempre condotto con leggerezza e poesia.

Nel contesto culturale di oggi le opere recenti non hanno lo stesso impatto della fase in cui egli andava definendo le coordinate della sua identità, tuttavia il rigore operativo e l’indiscutibile raffinatezza estetica (tutt’altro che rappresentativa e priva di intenzionalità ideologiche), le idealizzano tra tante esteriorità in circolazione, conferendo loro totale autonomia e perfino valenza etica. Anche da questo punto di vista le tele pittorico-plastiche, dalla “ripetizione differente”, così strutturali e insieme sensibili, risultano sottilmente propositive.

Castellani, dunque, è riuscito a oltrepassare, con naturalezza e consapevolezza, le convenzioni linguistiche delle neoavanguardie, a essere al di sopra della realtà quotidiana privilegiando il senso e l’essenza, la sapienza artigianale e la purezza, i bisogni spirituali ancorché non dichiarati. Dopo tanti anni le calibrate e armoniose tele monocromatiche dalle estroflessioni ritmiche resistono alle mutazioni del gusto, anche perché evidenziano una eccezionale corrispondenza tra gli elementi costitutivi dell’opera e le caratteristiche dell’autore. Alludo, in primis, alla geniale semplicità, alla riservatezza e al candore dell’uomo, del quale sentiamo più forte la mancanza.

dicembre 2017

 

(Testo integrale da cui è stato tratto l’articolo pubblicato su “Flash Art” n. 337, Febbraio/Marzo 2018, p. 28)

 

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