Home arrow Viaggi nell'arte arrow Incontri arrow Mark Kostabi (1999)
MARK KOSTABI PDF Stampa

Da quali esigenze pratiche o presupposti teorici è nato il “Kostabi World”?

Io sono nato nel 1960 in California e mi sono trasferito a New York nel 1982. Ho cominciato ad esporre l’anno dopo, partecipando a molte collettive. Successivamente ho tenuto un gran numero di personali, forse più di tutti gli altri artisti. Ho avuto presto successo perché sono piuttosto prolifico. Generalmente, quando un artista ottiene consenso (uomo o donna che sia), assume degli assistenti per preparare telai, fondi e altro. È naturale che essi divengano collaboratori anche nel dipingere. È una prassi normale, anche storicamente parlando. Si pensi a Raffaello, a Michelangelo. La differenza sta nel fatto che io ne parlo apertamente, mentre altri cercano di tenerlo nascosto. I miei genitori mi hanno insegnato ad essere corretto. Le chiavi del mio successo sono onestà e sicurezza.

 

L’esperienza warholiana della Factory quanto è stata importante per il tuo progetto?

Mi piaceva Andy Warhol. L’ho incontrato 10-12 volte. Era un uomo immediato, intelligente ma semplice; simpatico, libero, furbo. Fin da quando ero studente alla California State University di Fullerton, pensavo che sarebbe stato bello avere un grande studio come il suo. Istintivamente mi sono ispirato alla sua filosofia. Egli ha aperto molte porte a tanti artisti e anch’io ho ricevuto degli stimoli, ma tra la sua Factory e il mio “Kostabi World” ci sono profonde differenze. Negli anni ‘60 intorno a Warhol ruotavano strani personaggi spesso dediti alla droga. Da me, invece, c’è un’organizzazione di business con gente professionalmente e moralmente ineccepibile. Warhol ha fatto quadri con serigrafie su carta e su tela; io mi sento più vicino alle botteghe degli artisti del Rinascimento. Ogni quadro è dipinto ad olio su tela e la sua esecuzione richiede tempo.

 

Attualmente come è organizzato il “tuo mondo”?

Ci sono dieci persone che dipingono, una segretaria, un ragioniere, uno che prepara i telai, una fotografa giapponese che tiene anche in ordine l’archivio, un poeta che pensa ai titoli, mio fratello che mi aiuta come manager. Quasi sempre disegno io, ma tutti i collaboratori contribuiscono con le idee. Inoltre, bandisco concorsi settimanali. Do una copia di un mio progetto a tutti i collaboratori; essi attuano la stessa idea, ma possono apportare qualche modifica. In questo senso ricevo contributi creativi. Il pubblico, fatto di persone che per diversi motivi vengono nel mio studio, giudica. I premi sono tre. I vincitori ricevono una somma e i quadri prescelti vengono realizzati in versione grande.

 

In questi ultimi tempi come si è evoluto il tuo sistema collettivo?

Anni fa facevo tutti i disegni personalmente ed avevo istruito i miei assistenti a dipingere senza cambiare nulla. Adesso ciascuno può intervenire dandomi suggerimenti. Prima impiegavo persone con problemi (ex detenuti, falsari...), ora utilizzo solo operatori seri di cui mi posso fidare. La mia è un’opera a più mani, ma resto io l’artista. Pur credendo in un sistema collettivo democratico, se c’è qualcosa che non mi piace (per esempio, un quadro che promuove il fumo, l’alcool o la droga), metto subito il mio veto. Tengo a precisare che non bevo, non fumo, non mi drogo e sono vegetariano.

 

In ciò si può vedere una tua posizione ideologica..

Certamente.

 

La tua organizzazione è un’utopia che si va sempre più concretizzando?

In piccola parte lo è, ma non nel senso degli hippies degli anni Sessanta. Il mio studio d’arte è molto razionale anche se provocatorio. In questo periodo il mio lavoro è ancor più apprezzato e ricevo richieste non solo dagli Stati Uniti, ma anche dal Giappone e dall’Italia.

 

La crisi di mercato non limita i tuoi piani?

Tre o quattro anni fa ho avuto problemi, ma adesso gli affari vanno meglio che mai, anche in Giappone, malgrado la crisi economica. I miei prezzi non sono mai stati molto alti; non erano gonfiati, perciò, quando è arrivata la recessione, non ho dovuto abbassarli come sono stati costretti a fare tutti gli altri negli anni Ottanta. Forse anche per questo il mio mercato è andato crescendo gradualmente.

 

Sei interessato all’arte applicata e alla committenza pubblica?

Senza dubbio. In tal senso la penso come Ugo Nespolo ed anche per questo siamo amici. Però prediligo fare quadri qualitativamente interessanti. In genere ogni anno dipingo due grandi opere da destinare a luoghi pubblici di metri 40-60 x 80-100. L’ultimo,  tutta da me, si trova nel Palazzo dei Priori ad Arezzo. In Italia lavoro sempre da solo e compongo musica per pianoforte.

 

Tendi ad una figurazione più oggettiva?

Il mio lavoro è flessibile. Mi interessano allo stesso modo l’oggettività e la soggettività. Sono fortunato ad avere la possibilità di esprimermi in entrambi i sensi.

 

Annullare l’individualità può essere positivo?

È impossibile eliminarla completamente. Ho provato, ma ogni volta emerge la mia identità. Del resto tutti lavorano insieme con altri. Nessuna persona, compreso l’artista, agisce senza collaboratori. Per fare un esempio banale, anche nella vita di tutti i giorni, quando ci alziamo, chiediamo consiglio alla moglie sul come vestirci o, quando andiamo a tagliarci i capelli, collaboriamo con il barbiere.

 

I singoli operatori non si sentono soffocati dal tuo stile?

Buona domanda! Forse qualche volta può essere così, ma essi lavorano anche fuori del “Kostabi World” e possono inventare ciò che vogliono. La mia non è una prigione, bensì un normale luogo di lavoro.

 

Personalmente svolgi anche un’attività teorica?

Sì, ma senza troppe complicazioni. Rientra in questo il mio scrivere sull’arte. Ho cominciato a farlo su una rivista americana intitolata “Shout Magazine” ed ho intenzione di pubblicare articoli su artisti italiani. Ho iniziato, appunto, da Giulio Turcato a cui dovrebbe essere dedicata una grande retrospettiva al Moma di New York. È un peccato che in America nessuno conosca Turcato, considerato il migliore astrattista italiano. Parimenti in Italia nessuno sa chi sia Ivan Albright, americano figurativo di grande valore, anch’egli scomparso. I galleristi in Italia viaggiano poco, per cui in Giappone, ad esempio, quasi mai sono proposti gli italiani. Io sto lavorando per cambiare questo sistema. Così cerco galleristi per i miei amici.

 

In che misura utilizzi Internet per diffondere il messaggio e l’opera?

Non ne faccio un uso diretto. Tante altre persone, invece, impiegano i miei quadri su Internet. Tra l’altro, in questo periodo sono troppo occupato a disegnare e comporre musica. Non avrei tempo di collegarmi.

 

So che in America tieni il programma televisivo settimanale “Inside Kostabi”. Com’è strutturato?

Rispondo al telefono. Qualche volta metto in onda le mie telefonate di affari come “evesdropping”; intervisto persone, suono il pianoforte, disegno, colloquio con i miei assistenti via telefono, vendo quadri discutendo e contrattando. Questo interessa molto alla gente. Faccio anche programmi in cui do consigli per viaggiare e sono disponibile a trattare  altri argomenti che mi vengono proposti.

 

A cosa è dovuta la tua frequentazione dell’Italia?

Negli anni Novanta ci sono venuto per le mostre e mi sono innamorato di questo Paese. I miei amici di Milano mi hanno consigliato di vivere a Roma che è una città più internazionale, in questo periodo particolarmente interessante per la ricorrenza del Giubileo. Ho seguito il consiglio e sono molto felice della scelta. Vivo un mese qui e uno in America. Mi piace la qualità della vita italiana, più sensibile, tranquilla. Mi piace la gente.

 

Roma si vede già nei tuoi quadri...?

Comincio a trarne dei soggetti. A Roma mi sento particolarmente ispirato dai capolavori dei grandi artisti e dalle architetture di varie epoche storiche.

 

Per la prima volta a San Benedetto del Tronto ti sei cimentato in una scultura installata in un luogo pubblico. È frutto di una progettazione plurima?

Ho fatto da solo il disegno, però ho scelto il soggetto tra tanti altri con l’aiuto di Nespolo. Poi la fonderia di Walter Vaghi a Milano l’ha realizzata. È un’opera dal significato ideologico, vuole trasmettere un messaggio. Si intitola “Guardare attraverso non è come guardare dentro”. L’uomo apre la finestra del suo cuore per dare ospitalità e pace.

 

C’è un rapporto tra le tue composizioni musicali e visuali?

Sì, in tanti sensi. Intanto disegno ascoltando musica e i miei collaboratori lavorano mentre un’orchestra fa le prove nel “Kostabi World”. Sono idealmente vicino a Kandinskij e Mondrian, entrambi artisti che hanno avuto un significativo rapporto con la musica. Nell’arte visiva e nella musica trovo lo stesso ritmo.

 

Quali caratteristiche ha la musica che componi?

È classica e contemporanea; riflette la mia poetica al pari dei miei disegni. Sono ispirato da Strawinskij, Ravel, Satie e dalle canzoni folcloristiche dell’Europa dell’Est. È una musica strumentale per piano, melodica. Seguo le armonie del mio animo, della natura. Collaboro in Estonia con Lepo Sumera (un grande autore che fa le orchestrazioni per  pezzi di pianoforte). Lavoro anche con Kristjan Jarvi (direttore d’orchestra americano). In un concerto all’aperto, per l’inaugurazione della mia scultura, a San Benedetto ho eseguito nove pezzi che fanno parte del mio primo disco. Parafrasando Sinatra, si intitola “I did it steinway”. È uscito a New York da poco e la casa distributrice lo sta diffondendo in tutto il mondo. Fino ad ora ho tenuto cinque concerti: in Giappone, due da Pio Monti a Macerata, a Brescia in un Festival di Music-art (una contaminazione con Giovanardi e la band rock italiana Timoria) e - come ti ho detto - a San Benedetto del Tronto.

 

A cura di Luciano Marucci

 [«Juliet» (Trieste), n. 91, febbraio-marzo 1999, pp. 30-31]

VERSIONE PDF (933 KB)