THE TRIBAL BODY ART |
È fin troppo risaputo che il mondo si va artificializzando e omologando sotto la spinta di nuove tecnologie e globalizzazione. Le dinamiche della quotidianità, che reprimono la soggettività, determinano profonde insoddisfazioni, facendo crescere il bisogno di combattere la linearità di pensiero e di rifugiarsi nell’immaginario. Così sono legittimate le tendenze artistiche contestative che danno più attenzione all’essere che all’apparire, come è accaduto, in particolare, con Espressionismo, Dadaismo, Arte Povera, Body Art e Graffitismo. Per non parlare di singoli autori che in una certa misura si riconducono ad esse. A chi, invece, non ha modo di dare sfogo ad azioni liberatorie con la produzione creativa o altro, non resta che evadere in altri mondi nel tentativo di riappropriarsi di se stessi, magari per poco, nonostante i pericoli e la rinuncia alle comodità… Migrare… in posti dove, grazie… alla ricchezza della povertà, si ritrovano modelli di vita fondati su valori più umani. Ma è possibile passare, sia pure temporaneamente, dal villaggio globale a quello tribale? …Dai confortevoli grattacieli alle nude capanne? Sì, anche se diventano sempre più rare le etnie che, favorite dall’isolamento, sono rimaste allo stato naturale e ancora meno quelle che rifiutano di occidentalizzarsi, piegandosi al colonialismo e agli addomesticamenti religiosi o culturali; che resistono alle lusinghe del consumismo, aiutati… dall’incorruttibile scudo della miseria. Tra le riserve integrali della specie umana c’è l’isola più a oriente dell’arcipelago indonesiano, divisa tra Irian Jaya e Papua Niugini. Là vivono le più antiche tribù della terra in un territorio dimenticato dal progresso e dai media. Un itinerario interessante può toccare la Valle del Baliem e le vertiginose montagne dei Dani, il fiume Sepik, con le palafitte lungo le rive e le houses tambarans (case degli spiriti) nelle radure, che custodiscono manufatti artistici da cerimonia: pregevoli sculture lignee, impressionanti maschere e rudimentali armi. Essendo il viaggio piuttosto disagiato e rischioso, il turismo non è ancora invadente. Il percorso si sviluppa tra sperduti villaggi in zone malariche, in cui la gente, rimasta all’età della pietra, ha l’orgoglio della propria identità. Le difficoltà ambientali, che rendono problematici spostamenti e incontri, hanno prodotto tribù molto differenziate. Fino ai primi anni Sessanta tali popolazioni praticavano addirittura il cannibalismo (per disprezzo dei rivali o il trasferimento dei poteri da un defunto dello stesso clan). In questi luoghi il sapere non è inteso come acquisizione dell’uomo, ma quale dono di esseri soprannaturali; si spera nelle provvidenze divine e si stabiliscono legami con le potenze spirituali mediante pratiche magiche. Uno dei momenti più entusiasmanti è il sing-sing (canta-canta / festival-sfida) di Mount Hagen, che si celebra annualmente in agosto: raduno interetnico in cui una cinquantina di tribù delle highlands si incontrano per stemperare gli odi e le ostilità che caratterizzano i loro rapporti. Ogni gruppo ha la possibilità di mostrare al meglio bellezza e fierezza, abilità e resistenza nelle danze. È la sagra dell’esibizione della propria cultura, con l’esaltazione dei colori su volto e corpo, associati a disegni e ornamenti. Una forma d’arte raffinata che testimonia, senza finzione, il nostro passato. Da non perdere, all’alba, l’arrivo delle tribù che si accampano sull’altopiano. In parte indossano già i costumi della cerimonia e nel sacco-bagaglio custodiscono pigmenti e rare piume, tra cui quelle dell’uccello del paradiso, grosse conchiglie (un tempo usate come denaro), strane collane (pure con mascelle di pipistrello), ‘cravatte’ di cipree o di pelo, ossa ricurve di animali per le narici bucate. Con l’ausilio di un pezzo di specchio e di parenti o compagni, inizia, come in un rituale, il completamento della vestizione e del trucco. Al termine le ‘figure’ risultano fantastiche. Le piume riprendono forma e vita negli enormi e superbi copricapi; i volti, con gli accostamenti cromatici di insolito gusto e gli incisivi segni, acquistano un’espressività nuova: enigmatica e inquietante. I corpi, cosparsi di grasso, brillano al sole mostrando eleganza di portamento. Intanto i mudmen, provenienti da Goroka, nella valle dell’Asaro, hanno raggiunto un torrente, per ricoprirsi di fango e modellare con esso spettrali maschere a casco. Correndo, appaiono e scompaiono fra gli arbusti come folletti usciti da una fiaba. Quando tutti sono pronti, nell’’arena’ cominciano le fantasmagoriche ‘sfilate’ e le danze frenetiche al suono di tamburi e di altri speciali strumenti in una coinvolgente orgia visiva e sonora. Uomini e donne impersonano gli spiriti dei loro antenati. L’antagonismo che li divideva, si tramuta in una gara di creatività, vanità e spettacolarità. Inimmaginabile la varietà dei soggetti; grande la suggestione. In nessun’altra parte del pianeta ci si può imbattere in un’assemblea tribale tanto numerosa e autentica; in un osservatorio di antiche culture che l’uomo moderno, sempre più proiettato verso il futuro, rischia di perdere per sempre. Ai nostri occhi queste comunità appaiono come testimonianze da museo vivente di una civiltà lontana nel tempo e nello spazio, ma viene da domandarsi se debbano rimanere veramente assenti dalla storia contemporanea. È triste constatare che l’identità di queste persone, portatrici di un patrimonio dell’umanità sconosciuto ai più, non reggerà a lungo; che, tra breve, di quella ‘festa’ resteranno solo alcune istantanee, residui di abiti e copricapi nei musei etnografici. Perciò, godiamo del raduno finché c’è tempo! Coloro che provengono da altre geografie e hanno soltanto interessi turistici, ammirano stupiti la coreografia dei gruppi, la primordialità quasi animalesca dei gesti, l’ostentazione del coraggio, ma difficilmente riescono a penetrare nello spirito che anima l’evento. Ne apprezzano la singolarità, ma non vanno oltre la curiosità antropologica, come se quella umanità non appartenesse al suo genere; mentre mitologie, aspetti sacrali e ancestrali rappresentati con il corpo, consentono di scoprire riti di passaggio, unicità e universalità; di vedere com’eravamo e dove stiamo andando. Chi, invece, malgrado la lontananza non è riuscito a dimenticare le manifestazioni artistiche, è indotto a stabilire raffronti tra queste performances ante litteram e la Body Art che, dopo le esperienze degli anni Settanta, è tornata a nuova vita. Si scoprono così analogie e differenze tra le azioni ‘antiche’ e moderne, dovute soprattutto alle diverse motivazioni e condizioni socio-culturali e ambientali. Appare evidente l’elevato grado di artisticità dei tribalmen, che però non aspirano al nobile rango di creativi e agiscono spontaneamente all’interno del gruppo, per necessità esistenziali e remote credenze, nell’illusione di vincere avversità naturali o metafisiche. La simulazione non è puro mascheramento: serve a potenziare le energie e ad enfatizzare l’espressività per esplorare altre dimensioni. I riti non sono ‘folcloristici’: vengono nutriti di complesse simbologie e allegorie, superstizioni e animismo, magia e mistero. Questi ‘comportamenti transitori’ facilitano il cambiamento dei ruoli, possono essere paragonati alla fugacità dell’esistenza e acquistano una seducente valenza etno-estetica. Non a caso, l’antropologo Levi-Strauss ha annotato che “le pitture corporali operano una specie di innesto dell’arte sul corpo umano” e che le pitture del viso “conferiscono all’individuo la dignità di essere umano; esprimono il passaggio dalla natura alla cultura, dall’animale ‘stupido’ all’uomo civilizzato”. Indubbiamente, i ‘primitivi’ e gli ‘evoluti’ si ricollegano a forme teatrali: danza, gestualità, suono. I primi, diversamente dagli altri, non hanno motivo di ribellarsi all’’educazione’ ricevuta, tanto meno al funzionalismo sociale… La diversità sostanziale, dunque, risiede nell’intenzionalità. Gli artisti - com’è noto – pur manifestando spesso matrici arcaiche, tendono all’individualizzazione e, attraverso il privato espresso con il linguaggio del corpo, cercano di stabilire una dialettica critica con l’esterno, fino a dissociarsi dal contemporaneo. Assumono atteggiamenti egocentrici contro le convenzioni per rimodellare il ‘corpo sociale’; si sforzano di riformulare situazioni archetipiche con modi originali, anarchici, estremi e perfino autoaggressivi. Anche se va diffondendosi l’uso di sofisticate tecnologie capaci di documentare, replicare e commercializzare le operazioni effimere come oggetti feticistici, con le performances, in prevalenza mentali e mondane, rinnegano i media tradizionali, onde eliminare ogni diaframma che toglie sincerità e immediatezza all’atto creativo. Il pensiero va al moderno sciamano Joseph Beuys, alla ‘vitalità’ del gruppo Fluxus e del Living Theatre, agli happenings neo-tribali di Hermann Nitsch, ai rituali terapeutici di Allan Kaprow, alle ‘operazioni’, più o meno simboliche, di tanti altri e…, inevitabilmente, alle ‘offerte’ sacrificali dei kamikaze che, per la tragicità del gesto, rimandano agli antichi riti superando ogni immaginazione… Luciano Marucci [«Juliet» (Trieste), n. 116, febbraio-marzo 2004, pp. 36-37]
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