Opera Mundi |
D’accordo, occuparsi di arti visive non significa essere fuori dalla realtà, ma è pur vero che, in mancanza di novità stimolanti, la frequentazione assidua delle esperienze autoreferenziali e di quelle che rivendicano la piena autonomia dell’opera o la specificità dei linguaggi può far desiderare di evadere, almeno temporaneamente, anche dall’immaginario per approdare in ambiti meno teorici, lasciando la pura analisi estetica ai filosofi di professione... Se poi si guarda al degrado del sistema socio-politico-economico-culturale dell’Italia di oggi, viene voglia non solo di cambiare canale..., per non vedere le facce dei ‘colpevoli’ e prendere le distanze dalle fiction e dai reality, ma addirittura di sconfinare... Da qui il bisogno di disintossicarsi visitando l’Opera Mundi, non tanto per stabilire un rapporto immediato con le testimonianze archeologiche di geografie lontane illustrate dai libri (che pure sono alla base delle civiltà), quanto per conoscere popolazioni che, non essendo state raggiunte dal cosiddetto progresso indotto specialmente dalle nuove tecnologie né conquistate dal consumismo grazie... alla diffusa miseria, vivono allo stato primordiale in armonia con gli animali (da cui traggono sostentamento) e con l’ambiente naturale (non sconvolto dall’intervento predatorio dell’uomo). Nel contempo si ha l’opportunità di rivisitare una parte del nostro percorso antropologico per cercare di capire meglio in quale direzione stiamo andando. Per estraniarsi veramente vanno privilegiati i viaggi alternativi nei paesi in cui si possono rinvenire i comportamenti spontanei, i modi di vita quasi fermi all’età della pietra di una umanità nuda nel vero senso della parola. In certi luoghi, infatti, gli indigeni, oltre a non avere case, si vestono... con brandelli di pelle animale, di-segni a colori naturali e di tatuaggi a rilievo procurati ad arte, divenendo esemplari unici di scultopitture viventi, non meno avvincenti degli stereotipi femminili di Vanessa Beecroft. Le espressive performance del loro contemporaneo sono autenticamente arcaiche (non ‘costruite’ per esposizioni o turisti): svelano le radici tribali della Body Art e avallano la teoria di Beuys sull’identità uomo-artista. In genere questi gruppi sono molto attaccati alle loro origini e rifiutano ogni influenza esterna. Penso, in particolare, alle etnie dell’Etiopia lungo il corso del fiume Omo e ad altre comunità della stessa Africa, dell’India, della Birmania, del Perù, dell’Indonesia, della Nuova Guinea e delle isole Trobriand..., tra quelle che ho ‘esplorato’ finora. Com’è intuibile, nei loro territori la famigerata globalizzazione dal volto umano non ha ancora portato il dichiarato benessere. Niente strade asfaltate e ponti, elettricità e mezzi meccanici; scarsità di acqua e cibo; sanità spesso affidata alle pratiche magiche degli stregoni... Dei contraccettivi e preservativi, che potrebbero frenare l’impressionante diffusione dell’Aids, non c’è traccia. Non esistono aspirina e collirio, acqua ossigenata e mercurio cromo per curare le normali affezioni. Lì i ragazzini tendono ancora le mani e si accapigliano per una bic o una caramella, una saponetta o una bottiglia di plastica vuota. Sembra di vivere su un altro pianeta, per cui ci si può meravigliare di tante cose, negative e positive. Si riesce sempre a godere il fascino d’un arioso paesaggio incontaminato (con o senza animali selvatici) e del cielo notturno reso fiabesco dalle grandi stelle non oscurate dal diaframma luminoso delle metropoli. Chiaramente, nelle aree più isolate occorre essere prudenti e, all’occorrenza, servirsi di una guida armata, razionare le scorte, prendere precauzioni igieniche, affrontare problemi logistici e mettere nel sacco spirito di adattamento e passione per l’inedito. Ma vale senz’altro la pena di tentare l’avventura, sia pure responsabilmente. Alcune escursioni sono così ricche di emozioni che da sole equivalgono a un intero tour. Basti ricordare l’impatto con i mursi etiopi e le loro mitiche donne dai grandi piattelli labiali; le imperlinate figure femminili dell’Orissa (che hanno ispirato i modelli di Versace per Naomi Campell); le suggestive danze di Mount Hagen in Papua Niugini; i surreali riti funebri dei Toraja a Sulawesi; le mistiche cerimonie nei templi di Bali, del Deccan o sulle montagne del Gujarat. Senza contare le azioni spirituali sul Gange; i magici incontri con i sadu nepalesi, i timidi sorrisi dei bimbi impolverati; gli animati, colorati e profumati souk; gli esistenziali ‘murales’ di sterco impresso dalle mani; gli incantevoli siti naturali come il delta dell’Okawango, il lago Titicaca, la savana integrale del Botswana, le foreste pluviali dell’Amazzonia, le silenti dune e le metamorfiche cromie del deserto del Namib, la splendida riserva geo-zoologica delle darwiniane Galapagos... Oltre alle mete più ambite e agli eventi più appariscenti, si possono ritrovare le espressioni semplici dei volti e gli aspetti poetici elementari; provare esotiche sensazioni; scoprire la ricchezza della povertà, l’assenza di falsi pudori, la profonda devozione popolare nei riti sacri (puje), il senso della diversità e della cultura che si forma e si manifesta sulla strada; cogliere le contraddizioni tra attaccamento alle tradizioni e tendenze moderniste, tra incontenibile pubblicità e carenza di consumi; assistere a scene tragicomiche che scaturiscono dall’arte di arrangiarsi come il riciclaggio umano dei rifiuti (quando il vomito del ricco diventa il pasto del povero), al dinamismo dei disperati contrapposto alla staticità dei rassegnati e a tanti altri inattesi momenti d’un presente anacronistico. Meglio se nello scarno ma straordinario scenario non compaiono l’opulenza, l’arroganza e l’opportunismo dei nuovi colonizzatori e dei potenti che ci ricondurrebbero, anzi tempo, alle inciviltà dell’Occidente. A questo punto dell’arte di viaggiare contro il tempo ecco riaffiorare la passione per le immagini, il desiderio di comunicare le conoscenze dirette, perché di fronte a certe ‘apparizioni’ non si riesce a rimanere indifferenti. Sì, le foto..., come atti d’amore, non di corruzione e dissacrazione, che permettono di partecipare, documentare, preservare, diffondere..., contribuendo a dirottare il mito dell’evasione verso valori più vitali... E le sofisticate apparecchiature digitali assolvono con onore la salvifica... funzione. Tra l’altro, gli scatti sulle intriganti iperrealtà consentono di liberare la propria sensibilità, proiettare all’esterno i sentimenti, dare visibilità all’ideologia repressa. Certo, sarebbe bello contemplare e registrare esclusivamente con gli occhi della mente, per evitare di essere invadenti... e in continua tensione nel rubare le immagini che eludono le ‘pose’, ma la memoria svanisce... e resterebbe il rimpianto delle tante situazioni ignorate dall’obiettivo, anche se, alla fine, le istantanee migliori sono quelle dei soggetti che si percepiscono senza riuscire a fermarli... Testo e foto di Luciano Marucci [«Juliet» (Trieste), n. 127, aprile-maggio 2006, pp. 48-49]
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