LUIGI CARBONI. La rivendicazione della pittura |
Nell’esposizione progettata per gli spazi del Palazzo Ducale di Urbino, Luigi Carboni ha presentato una selezione di grandi opere realizzate negli ultimi cinque anni. Ha così offerto l’opportunità di conoscere le relazioni e gli sviluppi dei cicli sui ‘giardini’, le ‘mappe’ e le ‘costellazioni’; di verificare il dinamismo e la coerenza della sua ricerca visiva, supportata da implicazioni concettuali e da personali procedimenti tecnici. Con queste premesse l’artista svela qualità nascoste della Pittura fondata sulla dialettica costruttiva tra entità opposte e su una nuova concezione del ‘decoro’. Quindi, indirettamente, lancia una sfida all’inflessibilità minimalista... di altre esperienze del contemporaneo che spesso negano la ‘bellezza’ di estrazione classica. La mostra, organizzata dall’Assessorato Cultura e Turismo della Città di Urbino, in collaborazione con la locale Accademia di Belle Arti, era accompagnata da un documentato catalogo edito da Skira con testi critici di vari autori. Dopo l’inaugurazione è seguito un concerto di Lucio Dalla tenutosi presso il Teatro Sanzio.
Per scoprire le qualità inedite del medium tradizionale adotta un metodo progettuale-strutturale flessibile, usa tecniche manuali e materiali non convenzionali, anche se non trasgressivi; mantiene un atteggiamento analitico e la dialettica tra le parti in gioco per evitare ripetitività e stabilità. Ne consegue che resta fedele a se stesso pur rimettendo continuamente in discussione il proprio stile. Contemporaneamente, nell’affermare il suo concetto classico e moderno di bellezza, è attento agli aspetti linguistici e ai problemi della percezione. Fin dagli esordi procede liberamente per questa strada con motivata coerenza e tensione innovativa. Nel promuovere l’osmosi tra passato e presente fa interagire entità opposte (linguaggio-contenuto, superficie-profondità, astrazione-figurazione, naturale-artificiale, materia-spirito) che gli impongono di ricercare equilibri non soltanto formali. Poi attua la verifica, anche perché le opere prendono avvio da un’idea preordinata e si sviluppano da un processo autogenerativo. Così concepite e ricche di rimandi - che vanno dalle tracce arcaiche alle suggestioni orientali, dai motivi floreali all’essenzialità minimale - non possono che risultare intriganti e armoniose, vitali e competitive. La costruzione del quadro è affidata a un insieme di segni (sporgenti e mimetizzati, liberi e geometrici, seriali e differenziati) che non articolano un racconto, né tanto meno descrivono un soggetto, anzi tendono a creare più punti di osservazione; di-segni che, sovrapponendosi su piani diversi alla materia-colore, originano liriche forme aniconiche e figurali, le quali generano piacere estetico e, nel contempo, sollecitano la riflessione. Dal fare piuttosto dinamico e accurato nascono manufatti finiti e indeterminati, ideazioni consequenziali per cicli tematici che danno la possibilità di esternare al meglio l’immaginario, di indagare e conoscere altre dimensioni dentro e fuori di sé. Così negli anni Carboni è andato alla scoperta di nuovi territori. Non solo: dalle tele con emergenze materiche, estroflessioni e bassorilievi, sia pure saltuariamente, è transitato per la scultura, la ceramica e le installazioni, dimostrando genialità anche nell’esperienza plastica e nel relazionarsi con l’ambiente espositivo. Ma il suo privilegiato campo d’azione è il grande quadro. Lì sono sorte le ampie esplorazioni in senso orizzontale e verticale... Alludo, in particolare, agli “Atlanti”, che evocano mappe geografiche, e alle recenti “Costellazioni” che dal pianeta Gaia elevano verso misteriosi spazi siderali, ancor più immateriali. È difficile prevedere quale sconfinamento l’artista potrà compiere con il prossimo approdo. Intanto godiamoci le preziosità di questi lavori in cui, con varianti visive e concettuali che garantiscono ‘luminosi’ esiti qualitativi, rivisita parti significative del suo repertorio, come se volesse ri-creare il micro-macrocosmo di una memoria apparentemente lontana, dove l’umano e il naturale si perdono e si ritrovano in un altrove universale. A questo punto è il caso di chiedersi se la sua aristocratica produzione sia destinata soltanto alla contemplazione o se la complessità e la raffinatezza nascondano un sottile messaggio ideologico. Di certo egli esibisce la forte passione per il mezzo pittorico e specula su simbologie, finzioni, ambiguità. Basti pensare alle nobili velature d’oro e d’argento, alla purezza dei monocromi. In termini astratti: all’aura romantica, alla visione idealistica, all’aspirazione al sublime. Sicuramente intende partecipare, con la sua identità ormai ben caratterizzata, al dibattito sempre aperto sugli orientamenti della pittura e far valere il suo progetto supportato da una teoria personale che in primis ribadisce la centralità dell’arte, riportando in superficie valori etici dimenticati o contestati. È vero, non si fa coinvolgere dalla realtà esterna, perché crede nell’indipendenza, integrità e ‘inutilità’ del prodotto creativo, ma la frammentarietà dei dipinti, la decorazione, l’indifferenza per le tecnologie avanzate e quella sua Natura ‘storicizzata’ e devitalizzata fanno sospettare che voglia utilizzare certe componenti come metafore della precarietà e delle contraddizioni del quotidiano; della decadenza di un’epoca e della mancanza di certezze. Forse anche della tendenza all’esteriorità e all’omologazione. Luciano Marucci [«Juliet» (Trieste), n. 128, giugno 2006, p. 63. La seconda parte del testo è stata pubblicata nel catalogo Luigi Carboni, Palazzo Ducale, Sale del Castellare, Urbino, Skira , Milano, 2006, pp. 177-187] |