XLV BIENNALE di Venezia

Il clima dei giorni del vernissage, in particolare nella sede centrale dei Giardini, centro nevralgico dell’intera Biennale, era diverso da quello delle precedenti edizioni piuttosto monotone. Ma i continui incontri, da un lato erano utili per scambiare opinioni che permettevano, sia pure attraverso pareri contrastanti, di focalizzare meglio il senso dell’intera manifestazione e di ricercare le possibili vie evolutive dell’arte di oggi; dall’altro distraevano, non permettendo di leggere le opere fino in fondo. In compenso, oltre alle performances, si aveva modo di incontrare anche gli autori delle opere e ciò, indubbiamente, dava una carica di entusiasmo specialmente ai più giovani.

Non si poteva rimanere indifferenti di fronte ad un grande testimone del secolo come il quasi centenario scrittore e filosofo tedesco Ernst Junger (al quale è andato il “Leone d’oro”); ai sempre attivi componenti dello storico gruppo giapponese Gutai, con o senza scritte colorate sulla testa... o protagonisti di altri interventi più o meno invadenti... (che già negli anni ‘50 proponevano un’arte gioiosa da vivere); all’ormai canuto Richard Hamilton, uno dei primi e più raffinati popartisti; al regista-artista Peter Greenaway che, bando alle chiacchiere..., è riuscito a trasformare l’intero Palazzo Fortuny in luogo delle meraviglie (per visitare il quale bisognava lottare con una folla incontrollabile..., così interessata da sopportare il disagio di una stipata attesa in una calle stretta e senza uscita...). Robert Wilson compariva in autoritratto nel suo suggestivo e inquietante ambiente e in “azione” di difficile accesso... La figura messianica di Emilio Vedova (decano, sempre combattivo, dell’esposizione) si aggirava nel suo triangolare spazio con esposte le opere su carta in “continuum”... Il coreano Nam June Paik, padre e mago della video-arte, aveva “parcheggiato” i suoi “mostri elettronici” accanto al padiglione tedesco, rumoreggiato anche dai visitatori che si avventuravano a calpestare il pavimento sconquassato di Haacke (metafora politica preannunciata dalla gigantesca “presenza” di Hitler). Antoni Tapies era venuto a tramutare in una installazione il suo mondo simbolico a due dimensioni, in barba anche a chi dissentiva dalla sua scelta. Kosuth - da sempre rigoroso capostipite dell’Arte Concettuale - era ospite del padiglione ungherese con le scritte di Svevo coinvolgenti in più sensi. Passando da un padiglione all’altro, ecco l’immancabile e intramontabile gallerista italo-americano Leo Castelli, numero uno dei mercanti. Ecco Robert Rauschenberg, tornato nei luoghi che lo avevano visto mattatore nell’ “edizione della Pop-Art”, e tanti altri protagonisti dell’arte di ieri e di oggi... E, per chi non sa scordare quelli che hanno dominato la scena dell’arte di questo secolo con un contributo di intelligenza creativa determinante, era ancora possibile incontrare a Venezia i fantasmi di Marcel Duchamp, riconosciuto maestro delle neo-avanguardie (che se ne stava appartato a Palazzo Grassi in una documentata esposizione); di Joseph Beuys, sciamano dell’arte contemporanea che, avendo impiegato tutte le sue “energie” per plasmare una scultura sociale, ha lasciato un “Grave” vuoto...; di John Cage nel “suono rapido delle cose”, incontenibile sperimentatore e dissacratore di linguaggi codificati; di Francis Bacon, ultimo, insuperabile interprete delle angosce dell’uomo di oggi con il mezzo pittorico “Figurabile”.

I patiti delle cronache nere, rosa e televisive hanno notato di più le distraenti presenze di Yoko Ono, un giorno vestita tutta di bianco e l’altro completamente di nero; di Moana Pozzi che guardava le forme dell’arte, mentre gli altri ammiravano le sue; di Enrico Ghezzi in cerca di significativi ritagli da assemblare nell’originale “blob”.

C’erano Sandro Paternostro, questa volta come inviato speciale dell’arte (sempre abile nel cogliere il lato umoristico da ogni situazione) e perfino l’onorevole... De Michelis che si esibiva in inglese partecipando ad una intervista dentro il padiglione americano.

La più fotografata era la simpatica coppia di angeliche farfalle rosa (Eva e Adele) - nota ai frequentatori della Biennale di Venezia e di Documenta di Kassel per i travestimenti stravaganti - sorpresa mentre svolazzava nel padiglione francese, invaso dai teschi di Raynaud. All’ingresso dei Giardini un busto (vivente) mimetizzato su piedistallo faceva la lingua ai passanti e l’artista Byars, ancora una volta bendato e vestito color oro, distribuiva monetine dorate con la microscopica scritta “A presence is the best work”. Tutto questo mentre a Piazza San Marco veniva inaugurato un “monumento” di pane regolarmente divorato dai piccioni.

Poi è arrivato il giorno dell’inaugurazione ufficiale col Presidente Scalfaro e l’assenza di Liz Taylor per un colpo di strega... I vip della mondanità non si sono fatti sfuggire l’occasione culturale per beneficiare la ricerca sull’Aids, considerata la peste del secolo. Speriamo che questa volta il ricavato non sia dirottato per curare... quell’altra peste, non meno micidiale, diagnosticata in Italia, purtroppo soltanto un anno fa, da “tangentopoli”...

Annamaria Novelli

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Nei giorni del vernissage, passando da un luogo all’altro della XLV Biennale d’Arte di Venezia, abbiamo voluto registrare anche il giudizio a caldo di alcuni artisti partecipanti - italiani e stranieri, di diverse generazioni e tendenze - su questa edizione.


Getulio Alviani

Penso che sia “il miracolo di Achille”, perché è riuscito a fare questa mostra in una Italia, in una Europa, in un mondo, in cui va un po’ tutto allo sfascio: si sta sfasciando l’anima, si stanno sfasciando le cose più profonde che l’uomo aveva; c’è la caduta di tutto, motivata o meno; c’è una situazione di solitudine che ha portato a disinteresse, a lassismo, a sciatteria (molto ben documentata anche qui). Però ad Achille devo fare un vero applauso. Ho lavorato per tre settimane, giorno e notte insieme ad un gruppo di operai e di architetti e nessuno ha badato alla fiscalizzazione dell’ora in più. Si è risolto ogni problema per compiere questo miracolo. La sostanza dell’esposizione, per alcuni versi buona, per altri cattiva, è il documento dei giorni nostri. Achille è riuscito ad ottenere questo documento, compresa la mia opera, quella del padiglione francese, quella di Kosuth, che sono estremamente rigorose rispetto a un mondo di paccottiglia; è riuscito forse ad avere anche le proporzioni giuste del clima dell’azione artistica in questo momento.

Diceva Albers: “Io faccio cantare un colore, se lo metto vicino all’altro. Posso distruggere il rosso più acceso mettendogli vicino un violetto”. Mi viene in mente questa affermazione vedendo la biennale in rapporto alle precedenti che erano faziose e stupide. Questa è una mostra ruspante, di constatazione. Gli artisti si sono comportati da uomini veri, non ho sentito intrighi. Insomma: ho vissuto una bella situazione...


Enzo Cucchi

...Bisognerebbe chiedere al mondo cosa ne pensa, non a me... La riflessione non riguarda solo me, ma tutte le creature umane. Certe esposizioni sono luoghi di desiderio...


Sergio Fermariello

Sono molto contento di essere alla Biennale. Ringrazio Achille Bonito Oliva e Paparoni per l’invito. Io ho visto poco, perché ho il problema della manutenzione della “pedana”, però, dal progetto posso dire che ci sono alcuni segnali positivi. Per un certo mio bisogno di ritorno al rigore e per altri versi, considero alcuni padiglioni un po’ da baraccone, troppo spettacolari e li condanno. Devo confessare che a me manca qualche parte del cervello per capire le performaces. Non riesco a seguirle. Faccio parte di una generazione più pragmatica. Sento la necessità di tornare alle regole. Non penso di essere figlio della Transavanguardia perché odio questa parola, però, un Mimmo Paladino e altri artisti mi hanno insegnato a fare i quadri. Noi solo questo possiamo fare, non essere demiurgi o sciamani. L’opera deve fungere da filtro. Chi pretende troppo, ottiene pochissimo. Noi abbiamo bisogno di quattro elementi per campare: acqua, fuoco, aria e terra che sono stati rovinati e depauperati. Il discorso ambientale non andrebbe fatto con messe in scena esagerate; occorre tornare alla serietà professionale. L’elemento spettacolare mi è sembrato un grosso polverone. Di fronte ai teschi del padiglione francese, uno rimane agghiacciato vedendo quanto possa essere dura la sopravvivenza nel mondo, ed io, sinceramente, in un mondo così preferisco non viverci. Se l’arte ha un compito, è proprio quello di offrire delle colonne, degli orizzonti per dare ossigeno e sopravvivenza alla specie. Qualsiasi industria potrebbe speculare su queste cose, visto che anche gli artisti le rappresentano e le giustificano. Io vorrei che ci fosse una dimensione in cui non necessariamente debba essere rappresentato l’osceno e il brutto. Quindi, sarebbe bene recuperare anche il lavoro della pittura, non per un ritorno all’Ottocento, ma per operare in modo più naturale.


Piero Gilardi

È una Biennale che parte da certe dichiarazioni di nomadismo e di transdisciplinarità. Girando, emerge forte la metafora della morte della cultura occidentale. Bisognerebbe dire, in maniera più corretta, “della morte per entropia del sistema occidentale”. Rarissime sono le aperture, i varchi verso il nuovo, verso ciò che potrebbe nascere da una vera ed effettiva interculturalità. Non basta attraversare i confini: bisogna ricercare il dialogo e la relazione con ciò che è differente. Una cosa che mi ha colpito moltissimo, proprio come segno eccezionale, è l’opera di Geva del padiglione di Israele che ha realizzato una grossa serra: è uno degli elementi propositivi, uno dei passaggi per andare al di là della morte entropica. In generale, trovo che questa edizione, che pur dà un’immagine lucida, da polaroid, della realtà urbana e dei suoi conflitti, non mostra quali sono le alternative, quali gli sviluppi linguistici, le nuove relazioni, le nuove logiche che aprono i varchi per cambiare. Naturalmente, anch’io penso che le espressioni debbano avere uno spessore, nel senso che devono essere congruenti intorno ad un tessuto profondo. Però, la spettacolarità non mi scandalizza: è il linguaggio della gente comune. Essa è manipolata dalla televisione e dalle strutture mass-mediali. Oggi è veramente ora di cambiare pagina sulle macchine celibi di Marcel Duchamp per riparlare in modo aperto, pubblico, collettivo.


Ben Jakober

La proposta di Bonito Oliva, ambiziosa e dinamica, conferisce un nuovo respiro ad una istituzione che riflette il bisogno di cambiamento, senza peraltro perdere la memoria. In questo senso, il padiglione italiano e le manifestazioni distribuite per la città, ricompongono il tessuto dei movimenti importanti e originali che sono sfuggiti alle manipolazioni mercantili e ci restituiscono un sentimento di vitalità tanto necessario anche se esso a certuni può apparire caotico.


Thorsten Kirchhoff

In questa Biennale è come stare ad un grande tavolo. Se capiti in buona compagnia, ti diverti; se no ti senti magari un po’ perso.


Emilio Isgrò

Sono convinto che, come in tutte le Biennali, ci siano presenze vitali e altre meno. Non si può pretendere che tutti facciano la Cappella Sistina. L’importante è che gli artisti abbiano una misura di sincerità. Nella foresta anche il fiore più piccolo ha la sua ragione di esistere, non solo i grandi alberi. Però, conoscendo il curatore della mostra, credo che nelle sue intenzioni critiche ci sia un pochino il tentativo di rimettere in moto le ruote che sono completamente affossate ed infangate e non può farlo uno solo, ma tutti insieme. Oggi l’arte è una delle poche luci che abbiamo (lo dico senza timore di fare retorica). La politica e l’economia si sono inceppate, perché non c’è stata una reale inventiva. Gli artisti contano nella società (lo si vede nei momenti di crisi), nel senso che, se era utopistica una società di tutti angeli, è altrettanto utopistica una società di uomini tutti mascalzoni, mediocri, desiderosi di denaro. L’uomo vuole la compagnia, soffre, ama e non vede come valore il solo denaro. Francamente, non lo dico ad occhi bendati, ma come artista che vive in occidente.


Felice Levini

...C’era la volontà di realizzare una specie di grande Torre di Babele. Il problema è di vedere se esiste realmente l’intenzione di essere interdisciplinari, se l’arte è veramente una cosa intima che si vuole comunicare all’esterno, oppure se debba riprendere l’aspetto politico che, secondo me, in questa Biennale è venuto a mancare, pur essendo interessante come sintomo di una situazione di crisi e di confusione totale di ideologie. Questo mi interessa molto, ma sento la mancanza di una condizione poetica per l’artista. C’è una insofferenza che penso sia sentita da tutti. Si nota una grande uniformità di tecniche, ma manca la poesia. Si sta cercando, è nell’aria, ma ancora non si è arrivati ad essa. A parte ciò, certi artisti hanno presentato dei lavori che, anche se non accettai da tutti, sono sintomatici di una contemporaneità. In tal senso, la Biennale è uno specchio che riflette una condizione. Eppoi, attualmente, è uno dei pochi posti dove si arriva e si possono vedere delle cose.


Aldo Mondino

Trovo abbastanza entusiasmante che ci sia tanto interesse per questa Biennale. Non ho mai visto tanta gente così, tanta curiosità. Io ho una grande simpatia per Achille che considero un artista più che un organizzatore. Mi sembra che la Biennale, come anche la mia sala, abbia un clima dentro. Ci sono cose belle, cose brutte, discutibili; sicuramente verrà ricordata più di altre. Achille è riuscito a recuperare in modo sincero alcune cose trascurate per 20-30 anni perché non erano di moda, ma che erano alla base della nostra formazione (mia di pittore e sua di critico) come, per esempio, i Gutai e tutta la poesia visiva che, in effetti, non era mai stata ben presentata.


Luca Maria Patella

Le cose degli altri le guardo molto, ma non mi pronuncio tanto. Ti racconto una storiella: C’era una pignatta piena di latte in cui caddero due rane. Una disse: “Ahimé, non ce la faccio a saltar fuori”. Si lasciò andare e affogò. L’altra disse: “Io ci provo, mi sbatto, mi sbatto e vediamo che succede”. Si formò il burro, si poté appoggiare su di esso e si salvò... Speriamo che da tutto questo bailamme esca del burro (anche se in spagnolo questa parola vuol dire “asino”), che si trovi un punto d’appoggio per fare qualcosa. Io il latte preferisco berlo alla ready-made. Non credo che siamo sul finire di qualcosa, siamo sempre sull’iniziare e proseguire. Mi interessa questa “Arte che non c’è”, questa “Arte & non arte”.

La spettacolarità, l’avventurarsi in campi diversi sono stati sempre il leit motiv del mio lavoro. Se questo sta venendo fuori, tanto meglio. Vuol dire che la gente si sta svegliando.


Vettor Pisani

Io credo che ogni avvenimento si ponga l’obiettivo non di fare spettacolo, ma di rappresentarsi in maniera forte per suscitare interesse. Non vedo nella spettacolarità un aspetto negativo, anzi. Mi stupisce molto che in un momento di depressione, di estrema crisi e di fragilità italiana e internazionale, la cultura regga ancora alla catastrofe. Mi sembra un momento di energia da salvare e da guardare addirittura con entusiasmo. Questa Biennale riafferma la presenza dell’arte come cultura all’interno dei desideri e della volontà dell’uomo di superare le difficoltà storiche del momento. Può ridare fiducia e indicare nella creatività lo sbocco delle potenzialità umane che, come succede altrove, possono diventare negative e distruttive.


Piero Pizzi Cannella

La Biennale dà l’occasione di vedere con un solo colpo d’occhio tutto quello che succede nel mondo dell’arte adesso. Mi sembra che l’obiettivo sia stato raggiunto, al di là delle qualità di ogni singolo artista e di ogni idea rappresentata. Sono pochi i “pittori” che espongono in questa Biennale e mi sento abbastanza isolato. Ma l’intento era quello di cavalcare l’ondata neo-concettuale, neo-pop e questo si è fatto. Io credo che la Biennale, per come è stata concepita, debba essere il luogo per documentare, per dare un’idea di molte cose, in senso buono o cattivo. Anche io come pittore, come rappresentante di un’idea diversa della pratica artistica, mi auguro che vengano più visitatori possibili. L’entusiasmo può ridare fiducia nella ricerca che esiste ed esisterà sempre indipendentemente dalla crisi economica. È uno degli aspetti dell’arte. L’importante che non sia a senso unico, perché potrebbe significare anche riduzione.


Murakami
(gruppo Gutai)
Quarant’anni fa si esponevano solo quadri alle pareti e le opere dei Gutai destavano un grande scandalo. Le abbiamo ripresentate qui e ancora hanno la freschezza di allora; non sono invecchiate, appaiono nuove, perché basate sul gioco che è proprio di ogni età dell’uomo. E, se oggi gli artisti possono fare quello che vogliono, lo si deve anche a noi. Questa è la Biennale della libertà. Noi non abbiamo un’opinione sulla mostra in generale. È positivo che ci sia un luogo dove si possa vedere di tutto.

Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 64, ottobre-novembre 1993, pp. 33-37]