ROMA Quello di Alfredo Pirri è un percorso solitario e perseverante. La sua personalissima e complessa ricerca, alimentata dalla dialettica fra tradizione e avanguardia, nonché da motivazioni profonde e da riflessioni sugli accadimenti esterni, è in continua espansione. La produzione - non ripetitiva e aperta - nasce per intima necessità, da una visione ideale e insieme concreta del mondo. Prende corpo da un rigoroso metodo operativo, dalla sperimentazione di procedimenti tecnici (dagli artigianali ai più avanzati) e dal sapiente uso di materiali poveri o tecnologici, purché funzionali alla sua poetica. Riesce così ad essere linguisticamente attuale e, associando estetica ed etica, dialoga con la realtà, evitando però di dipenderne. Non è rappresentativa né astratta e utilizza sia strutture primarie che componenti informali. Il mezzo pittorico-plastico che la connota è sempre arricchito dai rapporti dell’autore con architettura, scenografia, musica, filosofia, letteratura. Il tutto sorretto da una precisa ideologia, da intelligenza creativa e sentimento. L’artista riserva particolare attenzione ai contenuti e, parallelamente, alla percezione attiva e dinamica, coinvolgendo emotivamente e mentalmente lo spettatore. Ho ri-trovato questo e altro alla personale di Pirri presso la Galleria Oredaria e alla presentazione dell’originale pubblicazione (non concepita come catalogo) “Dove sbatte la luce” (Skira) presso il MACRO: duplice evento esemplare che ha riproposto la sua forte identità, la circolarità del processo operativo, la sua responsabilità di artista. I nuovi lavori, correlati fra loro e allo spazio espositivo rappresentavano un arrivo e un transito per quelli che seguiranno ed evidenziavano un felice equilibrio fra concetto e oggetto. Rispetto ai precedenti erano più disoggettivati ed esperti, mentre pathos e sacralità apparivano più disciplinati. Dalle pareti emergevano raffinati quadri tridimensionali costruiti con frammenti di cellulosa strappati, assemblati in strati e dipinti sul retro per irradiare colore-luce che acquistava valore simbolico: evocazioni memoriali di montuosi paesaggi artificiali e metafisici, dove l’incanto e la magia non escludevano la ragione; forme di vita che sprigionavano energia positiva, alludendo al tramonto della storia e all’alba del futuro; luoghi dell’accoglienza e dell’affettuosità, della globalità e della comunicazione sensibile. Nello spazio agibile si esibivano e si appartavano ‘sculture’ e installazioni sorte da altre intuizioni; fatte di materie nobilitate, di senso, di spazialità e luce per illuminare la via di una realtà superiore. Luciano Marucci [«Juliet» (Trieste), n. 117, aprile-maggio 2004, p. 77] |