ROMA

Il MACRO con due mostre di grande interesse ha arricchito l’estate romana. All’ex-Mattatoio Danilo Eccher ha proposto Christian Boltanski che, dalla fine degli anni Ottanta, tende a utilizzare tecniche multimediali e oggetti del quotidiano in grado di connotare l’immaginario collettivo. Testimonianze del vissuto con storie personali che procurano molteplici sollecitazioni sensoriali. L’artista, grazie anche alla profonda partecipazione e alla capacità di rappresentare con più mezzi espressivi riesce a riportare all’attenzione del presente avvenimenti del passato. Per l’occasione ha realizzato una coinvolgente installazione site specific occupando l’intero padiglione di ben 1000 mq con trecento abiti che pendevano dal soffitto, proiezioni di significative immagini su pareti trasparenti e ombre come fantasmi, voci diffuse, luci pulsanti che illuminavano nove teche di cristallo, simili a casse mortuarie, con altri simulacri. Il percorso esibiva, in modo emozionante, ciò che resta di individui scomparsi, ridestando nello spettatore ricordi e sensazioni; metteva in scena una tragedia capace di provocare riflessioni sull’esperienza della vita e il senso della morte. La grande scritta “Exit” (che dava il titolo all’evento) - posta in alto e al termine dell’attraversamento - indicava l’uscita dall’esistenza terrena, ma anche la liberazione dalla triste condizione di cui siamo attori; trasmetteva un messaggio ironico-drammatico e, nel contempo, denso di vitalità.

Nella sede principale Marc Quinn con più di 30 intense opere affrontava problematiche esistenziali non comuni con inedite modalità dell’espressione artistica. La poetica di questo protagonista della “Young British Art” si fonda sul concetto che l’arte deve riflettere le trasformazioni degli esseri impegnati nella lotta per la sopravvivenza contro l’ineluttabilità della Natura. E, poiché la vita è soggetta a continua metamorfosi, anche il suo lavoro, che si svolge tra realtà e immaginazione, si muove con la massima libertà, utilizzando varie tecniche e materiali in parte recuperati dal passato. La mostra, curata da Eccher e Bonito Oliva - con ‘dependance’ di disegni e acquerelli alla Galleria Alessandra Bonomo - ha dato modo di conoscere de visu la produzione del versatile artista che sa coniugare modelli classici e tendenze del contemporaneo, mito ed effimero. Colpisce particolarmente l’unicità delle sue indagini sui processi evolutivi, sulla struttura interna dei corpi e le funzioni, nonché sulle possibilità della genetica. Da qui le ibridazioni tra biologia e tecnologia; le differenti realizzazioni, ora dalla forte presenza materica, ora dalle delicate astrazioni simboliche e liriche, dove è introdotta una nuova nozione di bellezza, che crea inquietudine e spiazzamento. Ecco un vero laboratorio della nuova creatività, ancora non entrato nella ricerca ufficiale... Qualche esempio: l’installazione con elementi di DNA clonati; i quadri con grandi fiori manipolati; l’autoritratto scultoreo di sangue congelato; i busti di persone disabili o dai corpi vistosamente mutilati. È sufficiente osservare la serie Chemical Life Support (sculture in cera, mista a medicinali) per comprendere le motivazioni dell’operazione artistica di Quinn; il suo rapporto simbiotico con la realtà; l’interesse per il nostro destino e le scoperte della scienza; la metodologia adottata per fare un’arte non convenzionale. 

Fin dagli esordi la produzione artistica di Rocco Dubbini sorprendeva per gli sviluppi non lineari. Si capiva già che ricercava l’indipendenza da forme codificate, ma faceva anche pensare a un’identità plurima o in via di definizione. Nel procedere, ha provato che la costante delle sue opere era nell’incoerenza voluta in funzione della libertà di esplorare territori senza limiti linguistici, eludendo perfino il proprio stile e le attese dei fruitori. Oggi, con tali premesse, è più agevole apprezzare i salti nell’uso di tecniche e materiali da cui derivano lavori originali e diversificati che pure ripartono da certi insegnamenti dell’Arte Concettuale e Comportamentale. La ragione di questo orientamento è ben evidente nella personale alla Galleria 2 de Il Ponte Contemporanea, dal titolo programmatico “Lo spazio mentale libero dal tempo diacronico rivendica la possibile paternità di aliene manifestazioni in somiglianza”, dove l’artista ha proposto alcune realizzazioni piuttosto provocatorie: un video in cellulosa (con il proiettore che ingombra e disturba...), in cui un down tiene in braccio un neonato; una piccola scultura in acciaio associata a una dichiarazione d’intenti che lega la sua prima opera (1993) a quelle attuali e alle altre che verranno...; un’invadente installazione formata da gessi simili a ossa umane e animali che ricorda la sua vocazione tridimensionale; l’autoritratto digitale mutante (in tre stadi), giocato sull’ambigua reversibilità evoluzione/involuzione. Le opere, in apparenza scollegate, non citano né raccontano, ma riescono a trasmettere un messaggio basato sul paradosso, su una illogicità dada al limite del surreale, non del tutto evasivo rispetto alle ‘diversità’ vere. Rimandano a fenomeni spontanei o scientifici tra arcaico e realtà in divenire. Anche se la sottile ironia e la valenza vagamente didascalica alleggeriscono il dramma e se l’autore privilegia l’immaginario, l’osservatore è indotto dall’impatto scioccante a meditare su alcuni aspetti esistenziali emergenti e sul destino dell’homo tecnologicus.

Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 129, ottobre-novembre 2006, pp. 93-94]