BIENNALE DOCUMENTA e altre storie

Anno di grandi eventi artistici. Mostre da tutte le geografie e per tutti i gusti. Un ritorno ai tempi migliori? Sì e no. Sicuramente un’eccezionale coincidenza enfatizzata dal bisogno di verifiche e dalle speranze di fine secolo. L’arte resiste ed insiste anche in periodi di crisi. Così, attraverso le occasioni espositive, buone o cattive che siano, va sperimentando espedienti per superare l’incomprensione e l’emarginazione nel tentativo di destare quell’attenzione che soltanto un’avanguardia forte sa stimolare.

È triste constatare che, nonostante le formule catturanti, attuate a caro prezzo..., essa non riesca a ritrovare la fiducia del pubblico, essenziale per la sua sopravvivenza e la crescita culturale. Le esposizioni restano avvenimenti effimeri o élitari, che soddisfano esigenze troppo individuali e giochi di potere, trascurando gli obiettivi primari.

Se è vero che l’arte sa decidere nel suo privato la direzione da prendere, è pur vero che ha bisogno di condizioni favorevoli per esprimersi.

Le rassegne dell’estate, specie se inquadrate nel contesto socio-economico-culturale, dopo i caldi confronti dialettici, dovrebbero far riflettere su questioni fondamentali.

Ben vengano i momenti aggreganti, ma non  più  concepiti come episodi isolati. Occorre muoversi avendo in mente obiettivi più ampi; affrontare problemi strutturali; ripensare il ruolo delle istituzioni del settore e  creare sinergie con l’esterno; studiare nuovi metodi operativi e dare continuità all’azione informativa e propositiva...

Traguardi così ambiziosi, seppure lontani, debbono essere perseguiti con convinzione. Evitiamo allora di parlare esclusivamente di centralità dell’arte e di autonomia dell’opera, di contaminazioni e di teorie ormai scontate e incominciamo ad intrattenerci seriamente su altri argomenti. Qualora per raggiungere il fine sia necessario rallentare il passo e compiere un’analisi storica, niente di male, purché si proceda per strategie costruttive.

Intanto è positivo che gli ultimi importanti appuntamenti internazionali abbiano provocato riflessioni in tal senso. 

Inevitabile il confronto tra la Biennale di Venezia e Documenta di Kassel, le più concorrenziali e chiacchierate.

Anche questa volta, per capire meglio le filosofie che le hanno ispirate, è stato di ausilio rifarsi alle biografie dei curatori, Germano Celant e Catherine David.

L’assunto di entrambi poteva far pensare a programmi simili, ma già dalle metafore usate dall’uno (“mappa stellare”) e dall’altra (“nucleo circondato da cerchi concentrici”), traspariva che le strade non avrebbero portato alla stessa mecca.

Fuor di dubbio che Celant, stimato critico-manager, abbia fatto miracoli nell’organizzare tutto accuratamente in pochi mesi e con il vecchio statuto, ma questo non è sufficiente ad assolverlo con formula piena. Nel bene e nel male è stato fedele a se stesso: alle sue teorie e al suo pragmatismo; alle sue stelle e ai legami internazionali. Ne è derivata una mostra rassicurante, più con presenze storicizzate che con nuove proposte. Intendiamoci, non vogliamo puntare il dito sulla scelta dei nomi e sulle illustri dimenticanze, né, tanto meno, su alcune opere non del tutto remunerative. Tra l’altro, è stato un piacere rivedere i maestri della Pop-Art (che avevano meravigliato nell’edizione del 1964) ed altre conferme. Peccato che Celant abbia evitato di rischiare e, ancora una volta, omologato l’egemonia statunitense, finendo per incoraggiare le tendenze d’un mercato statico. Per la verità il suo conservatorismo è di stampo ben diverso da quello del predecessore Jean Clair e va giudicata favorevolmente la riconsiderazione dell’arte pura dopo il discutibile matrimonio celebrato a Firenze tra arte e moda. Può essere lecito rivolgersi al passato per recuperare energie che aiutino ad andare avanti, ma ciò, chiaramente, deprime l’area della ricerca. Né sono bastati a colmare certe debolezze l’aver introdotto migliorie e correttivi come la prospettiva museale; la mescolanza delle stars con gli astri nascenti alle Corderie; la limitazione a tre del numero degli espositori nel padiglione Italia (in un’associazione ardita); l’inserimento di un nucleo di italiani nel giro internazionale (contraddetto dall’esclusione di altri aventi titolo); la richiesta ai partecipanti di presentare lavori inediti; l’aggiunta di qualche coinvolgente performance.

Giustamente è stato ribadito che non ci può essere avvenire senza storia, sottovalutando, però, che esiste un’attualità attendibile, indispensabile per collegare passato e futuro. 

Riserve a parte, si deve riconoscere a questa edizione l’aver selezionato vari artisti autorevoli, anche se essi assecondano più i gusti di quanti  hanno una concezione meno dinamica dell’arte.

Tutto sommato, la formula è riuscita a mantenere il prestigio di una istituzione che risente dei suoi cento anni.

È da augurarsi che la “società di cultura” in arrivo, non trascuri - come già qualcuno ha sospettato - il laboratorio del nuovo e non svenda la Biennale agli stranieri. Non vogliamo essere nazionalisti ad oltranza, ma nemmeno correre il rischio che si apra ai colonizzatori.

Per Kassel va subito detto che Catherine David ha avuto molto tempo a disposizione; un budget sostanzioso; una macchina organizzativa made in Germany; un organismo più giovane e flessibile.

Ma la sua articolata e impegnativa Documenta è frutto di una mentalità diversa per formazione e di una volontà riformatrice. Più che puntare sul gigantismo e sulla spettacolarità, su una mostra intesa come luogo dell’oggetto estetizzante destinato al consumo e alle collezioni permanenti, ha tenuto ad attuare una manifestazione culturale in una visione libera da schematismi. Seguendo un metodo innovativo, basato su una capillare ricerca sul campo, in un’ottica politica del mondo, si è addentrata nella molteplicità delle culture contemporanee, con gli incombenti quesiti della globalizzazione e delle nuove identità. Dunque, da presupposti critici moderni e consequenziali, è nato il proposito di cercare alternative al sistema espositivo consolidato, per introdurre comportamenti più responsabili nel presentare la produzione delle arti visive di oggi in tutta la sua eterogeneità e crescente complessità. La David, in altre parole, si è posta l’interrogativo di come relazionare l’arte alle altre discipline e alla vita. Marcata è stata la sua intenzione di dare ascolto alla ricerca e di scoprire una prospettiva. E la ricognizione nel passato è risultata funzionale ad un presente fenomenico. Da qui l’approccio interdisciplinare per comprendere una realtà non solo strettamente artistica, mediante gli incontri dei 100 giorni con l’intervento dei protagonisti della scena culturale internazionale (felice idea che rimanda alle discussioni del mitico Beuys a Documenta del 1977).

La mostra policentrica - luogo d’incontro e di confronto di esperienze non rivoluzionarie ma neppure inflazionate - è stata piuttosto rigorosa. Solo qualche raro caso di pittura; in prevalenza immagini fotografiche (più o meno manipolate) e uso degli attuali media tecnologici, di cui molti autori hanno subìto il fascino. Tuttavia non sono mancati prodotti di qualità. Forse c’è stato un eccesso di ideologismo e l’intento di comunicare e instaurare un rapporto interattivo con i visitatori, a nostro avviso, non si è del tutto concretizzato. Le sistematiche visite guidate non sono bastate a soccorrere il pubblico: la vastità della rassegna, la specificità dei linguaggi e i lunghi tempi di fruizione non hanno agevolato approfondimenti. Probabilmente chi è abituato ad opere museali ha lasciato Kassel un po’ frastornato e inappagato.

Biennale e Documenta: due eventi che alla fine non si sono negati a vicenda, ma che hanno trovato giustificazione nella loro complementarità da posizioni distanti. La prima ha sostanzialmente agito nella sfera dei codici tradizionali alla ricerca del consenso; la seconda ha creduto di più negli sconfinamenti e nei processi evolutivi. Forse è corretto sintetizzare che Venezia è stata la sede ideale per le opere da godere con gli abituali strumenti della percezione e che Kassel andava letta con occhi disincantati, richiedeva una partecipazione senza preconcetti e  sensibilità socio-mediale più sviluppata.

Allora, a sipari chiusi, in attesa di altre esibizioni, applausi e fischi.

Ora la parola agli intervistati.


Germano Celant, critico d’arte, curatore della XLVII Biennale di Venezia

Potrei spiegare, come ho fatto ormai decine di volte, che il titolo “Futuro Presente Passato” per me rappresenta un’immagine completamente aperta. Alla fine di questo secolo l’idea del tempo forse non esiste più. La possibilità che diverse generazioni e tendenze possano coesistere è il motivo guida di questa Biennale. Ho cercato di realizzare qualcosa di totalmente contemporaneo nel senso che ho accomunato i tre momenti di ricerca in una percentuale quasi pari, per avere sia la storia, sia la proiezione in avanti. L’isolamento dei giovani in “Aperto” non era più necessario. Oggi essi sono riconoscibili come i grandi maestri. I due momenti - passato e futuro - s’incontrano al centro del nostro presente nell’assoluta contemporaneità di lavori realizzati all’80% per questa occasione. [...] L’intreccio dei tre autori nel padiglione italiano tende a sottolineare che la storia dell’arte non è solo fatta di narcisismo e protagonismo, ma di ricerca linguistica, di contributi. Quello che conta non è l’individualità, ma il contributo alla ricerca, il tipo di discorso che si porta avanti. [...] Ho tentato di dare spazio all’arte e si vede dal numero ridotto di espositori sia nel padiglione Italia, sia nella mostra internazionale dove ognuno ha avuto un territorio a disposizione. Il mio compito è difenderla, farla esprimere, porla all’attenzione. [...] C’è un tentativo da parte mia di tenere aperte le possibilità dell’espressione linguistica in modo che ci sia una orizzontalità. Oggi la dimensione gerarchica all’interno dei linguaggi è superata. [...] Io ho pensato questa Biennale, e mi viene criticato, come un’istituzione che funzioni a tempo pieno, limitatamente ad un potenziamento di budget, di energie [...]. Il padiglione Italia, quando noi usciremo, sarà pronto per un’altra mostra. Il che vuol dire che ci siamo posti il problema di usare la Biennale non come un atto di pirateria [...], ma come una struttura a tempo reale sull’arte contemporanea. Questo è un progetto ideale in cui la Biennale ha un ruolo fondamentale, perché lo deve gestire nella sua totalità, facendo in modo che non ci sia il momento dell’abbandono [...].È evidente che questo è un sogno, ma siccome si possono fare miracoli, anche i sogni potrebbero diventare realtà.


Vanessa Beecroft, artista

La Biennale è interessante, storica, molto tradizionale (e includo me stessa), però ci sono anche i giovani e mi sembra che nel complesso sia stato raggiunto un certo equilibrio. È per me lusinghevole ed emozionante essere qui, come in un museo. Mi dà soddisfazione a livello di carriera.  Il mezzo espressivo che preferisco è la performance. Anche se sono maturata, più o meno è il solito argomento. È l’equivalente di un disegno. È come mantenere la memoria senza essere troppo descrittivi. Questa volta, visto che passo molte ore in Internet e sto parlando con dei ‘soldiers’ americani in Corea, ho pensato di presentare delle ragazze che potevano piacere a loro. (Sto qui a fotografare per scannerizzare le immagini). Ho fatto una performance di tre giorni perché mi è stato richiesto. In genere non mi piace ripetermi. Per me è come usare un modo accademico, mentre all’inizio il discorso è più semiologico. Fai un gesto perché hai bisogno di esprimerti in quella forma... Solo quando devo definire alcuni particolari disegno delle anatomie su tela. Sono appunti, schizzi e provengono dalla mia formazione accademica. Oltre le performances, faccio video, fotografie e sto accumulando tanto materiale digitale.


Maurizio Calvesi, critico d’arte

Più o meno tutti hanno detto la stessa cosa: è una Biennale professionale, fatta bene, pulita, ma senza nessuna novità. Un bilancio un po’ conformista dei valori internazionalmente omologati con delle opere buone ma non particolarmente strepitose. La ricerca non c’è, non ci sono proposte critiche nuove. Qualcuno parla di ritorno di Celant all’arte pura. Che vuol dire ritorno? Egli si è occupato per tutta la vita di certe cose. Le contaminazioni non sono cose importanti. Quando ha curato la Biennale di Firenze, tutti hanno gridato allo scandalo, ma io non vedo perché. La moda è una forma di design che appartiene all’area creativa. Sono altre le cose di cui scandalizzarsi. Per esempio che l’America diventi padrona della Biennale. Con l’apertura ai privato al 40%, se questi si chiamano Zio Tom, qui abbiamo chiuso...


Leo Castelli
, gallerista

Sono almeno quarant’anni che non manco di venire alla Biennale. Non ho ancora visitato bene la mostra, ma mi sembra che ci siano delle buone premesse. In ogni caso c’è Lichtenstein che mi interessa particolarmente perché è un artista che espongo. E Oldenburg... Come al solito, se una Biennale presenta qualcuno di cui mi sono occupato, sono contento di vederlo in un contesto internazionale.

La Biennale di Firenze non ha avuto la stessa importanza di questa veneziana. Contaminazioni o no, io sono per l’opera buona.


Robert Colescott, artista

...Per me è stato un grande onore l’essere stato scelto a partecipare a questa Biennale, ma c’è anche un significato simbolico, perché sono il primo pittore afro-americano che abbia rappresentato gli USA. Tutto ciò mi dà speranza. Sono sicuro che è la più importante mostra a cui ho partecipato. Purtroppo, non ho avuto modo di vederla perché sono stato preso dal parlare con questo e quello. So che la gente può guardare quello che stanno facendo gli artisti di varie nazioni e porsi delle domande sul clima culturale nel mondo occidentale. Penso che una delle conclusioni a cui si può arrivare è che l’influenza americana è preminente. È il risultato di un tipo di imperialismo culturale che l’America per via del potere commerciale opera su artisti di altre culture che, in fondo, trovano anche piacere nell’essere americani. I registi di films desiderano farli simil-americani; i musicisti vogliono suonare musica come quella americana. Si dà un grande valore all’America, ma non so se sia una cosa del tutto naturale.


Lucrezia De Domizio, gallerista, editrice d’arte

Mi sembra che sia cambiato molto poco. I poteri sono sempre gli stessi. Siamo ancora intorno agli anni Sessanta con la questione dell’interdisciplinarità. Io penso invece che bisogna attuare una intercomunicazione. Un po’ di intreccio di linguaggi c’è, ma non è questo il problema. In Italia mancano totalmente le istituzioni, tanto è vero che quando ci sono questi grandi eventi internazionali (alle calcagna sta Kassel) non sappiamo se nascerà qualcosa che si riprodurrà nei vari posti adibiti all’arte, cioè nei musei. Da noi non c’è la volontà politica di inserire nell’economia la cultura nel senso globale. Non c’è una crescita. Negli anni ‘60-’70 la protagonista (sulla propria pelle) è stata la galleria privata  che sceglieva di sostituirsi alle istituzioni. Oggi dobbiamo tenere presente che l’economia è alla base del sistema del corpo civile di qualsiasi paese del mondo. La galleria privata non ha più senso di esistere.

Io penso che gli eventi come la Biennale servano a dare un input. Vanno bene se generano un’altra cosa. In Italia dagli anni Ottanta stiamo producendo un sistema ad imbuto piuttosto che allargato. In qualsiasi paese il rinnovamento socio-economico deve passare attraverso la cultura, intesa non soltanto come arti figurative, ma come arte culinaria, delle tradizioni, della propria geografia, della propria etnia. Bisogna andare a Lisbona per vedere cosa sta succedendo. Si stanno mettendo su vecchie case e i collezionisti prestano le opere per cinquant’anni. Poi ci sono spazi dove l’arte è sperimentazione, round continuo. Da noi, invece, una volta che questa manifestazione è finita, cosa resta? Prima le gallerie private traevano vitalità da esse e gli eventi si riproducevano; oggi ciò non si verifica più. Non abbiamo bisogno di cose che muoiono dove nascono, ma di istituzioni, di musei con la parte rappresentativa, ma anche con quella interattiva che vive di proposte.


Gillo Dorfles, critico d’arte

Un errore accusare Celant di scarsa obiettività, dato che la Biennale presenta un panorama molto articolato e complesso. È ovvio che gli artisti invitati appartenessero all’area più vicina all’ordinatore, anche tenuto conto del tempo limitatissimo a disposizione. Rimane tuttavia il fatto che l’odierna edizione biennalesca si presenta come qualcosa di estremamente risaputo e priva di scoperte impreviste. Non solo, ma la maggior parte degli artisti - anche dei migliori - appare in una fase di triste declino. Così Cucchi, così Dine, così Merz, per non fare che qualche nome. Quali i padiglioni più interessanti? Certamente non il triste esempio di colonialismo americano, né quello di bric-à-brac francese, ma invece indubbiamente quello inglese (Whiteread è una delle artiste più vitali) e quello belga (i feticci di De Cordier sono molto espressivi e conturbanti). Quanto alla mostra di Kiefer - certo la più classica di tutta l’esposizione - se conferma l’importanza dell’artista come rappresentante del neoespressionismo germanico, ne mostra anche le debolezze, dovute a un gusto spesso troppo lirico e a un gigantismo che nuoce all’intensità delle opere.


Claes Oldenburg, artista

È sempre bello per me essere a Venezia. La mostra di quest’anno mi sembra interessante. Celant ha fatto una buona selezione e ha dato all’opera mia e di mia moglie, Coosje van Bruggen, un buon posto. Sono pienamente soddisfatto. Abbiamo presentato l’ultima scultura da noi realizzata perché Germano voleva un’opera inedita, così abbiamo pensato a qualcosa di vivo. Di solito facciamo lavori grandi, da mettere all’esterno, in diverse città: Parigi, Barcellona... In questo caso il lavoro è stato sistemato all’interno perché lo spazio era sufficientemente ampio. Le nostre sculture recenti non sono per i collezionisti, ma per il grande pubblico, monumenti che tutti possono vedere. Quando esponi qualcosa in galleria, forse vendi, ma certo non rivedi più l’opera perché magari viene rinchiusa per sicurezza in banca o altrove; esce dalla tua vita. Invece, quando lavori per la gente, l’opera è sempre lì per tutti.


Pierre Restany, critico d’arte

Questa è la Biennale del sistema dell’arte, del regno del political correct, del clean. In cinque mesi Celant ci ha dato una visione di tre generazioni dell’arte di oggi che corrisponde proprio all’inserimento di questo tipo di cultura nel mercato, nel giro istituzionale, nell’opinione pubblica e anche nel verso critico. Dunque, una Biennale senza problemi, ai giardini e al padiglione Italia. Alle Corderie abbiamo le nuove generazioni, gli artisti degli anni Novanta, con la manifestazione di un linguaggio internazionale che si è generalizzato. Hanno 25 anni adesso e costituiscono l’esperanto, la lingua franca dell’emergenza periferica. Insomma, le opere di giapponesi, cinesi, europei, potrebbero essere state fatte da africani, australiani, sudamericani. È la generazione che si esprime con oggetti riciclati,  installazioni, performances, video, manipolazioni fotografiche. Questo linguaggio ormai è alla portata di tutte le mani. C’è grande disponibilità, grande flessibilità. In tutto il pianeta gli artisti sono capaci di lavorare così e lo fanno con piacere, per tentare di affermare, di gridare la loro verità. Questo tipo di terzo mondo generalizzato lo troviamo proprio alle Corderie, senza differenze, come dice molto bene Celant, tra il nord, l’ovest, il sud, l’est.


Christian Stein, gallerista

È una Biennale confortante. Come in tutte, anche in questa c’è del buono e qualcosa che mi piace un po’ meno, ma è giusto che si continui a fare perché, in fondo, è importante incontrarsi e vedere i lavori. Non voglio parlare di ciò che mi ha colpito di più. Sono troppo di parte...! Quando vedo i miei artisti sono felice, però ne devo considerare anche altri. Certo, la ricerca si fa, non so poi se si trova... Penso che sia giusto riproporre artisti consolidati anche perché i giovani si ripassino un po’ di storia. Devono sapere cosa succedeva un po’ prima e anche vedere come il lavoro di certi autori è andato sviluppandosi.


Joe Tilson, artista

Mi sembra che l’idea della Biennale sia stata recepita dalla gente con scetticismo. Io la trovo  molto buona, per niente fredda, anzi! Ci sono cose importanti come quelle di Kiefer, della Whiteread (bravissima!) nel padiglione inglese, di Agnes Martin (opere bellissime!). Gli spazi della Martin e di Vedova sono tra i migliori ed è curioso vedere come due anziani non abbiano niente di vecchio. Nello stesso tempo le opere non sembrano fatte da giovani, hanno una loro maturità. Sono due presenze splendide, coerenti e forti. A me non interessa la struttura della mostra, ma le emozioni di fronte alle opere, la possibilità di seguire l’evoluzione di artisti come Toni Cragg che molti anni fa era per me un po’ noioso. Ora non è di quelli che fanno shock, che durano poco. È uno scultore maturo che fa delle cose eccezionali. Nel suo caso è positivo notare come certi artisti cambino durante il loro sviluppo.


Maria Grazia Torri, critico d’arte, performer

Mi pare che la presenza italiana non sia quella che brilla di più e mi dispiace. Pensavo che questo “Futuro Presente Passato” fosse un riepilogo del nostro talento e dell’arte di questi ultimi due decenni, per cui, se devo partire da una critica, è il caso di dire che il discorso di Spalletti, Cucchi e Cattelan non mi ha persuaso. Trovo che sia piuttosto debole l’assemblaggio forzato tra geometria, purezza ed elemento espressionista. Francamente ho fatto fatica a vedere Cattelan. Mi hanno detto che i piccioni sono veri. Mi sembrano idee di una forza molto relativa. Non ritrovo più nemmeno Cucchi che ricordo nei primi anni Ottanta con una potenza espressiva di una certa caratura. Mi è sembrato pretestuoso fare i nomi di questi artisti per costruire un evento che non c’è. Le presenze al padiglione internazionale sono senz’altro di grosso calibro. Ma bastano pochi nomi (Cragg, Dine, Ruscha, Fabro o Vedova) a completare un evento? Chiaramente c’è Merz. Molto bello il lavoro di Rebecca Horn. Dine mi piace, trovo che si è rinnovato in maniera geniale a 40-50 anni dalla propria partenza. Ci sono grossi nomi di americani e c’è un completamento della Pop-Art che ancora non si era visto. Non sono riuscita a trovare un De Dominicis come mi aspettavo, forse anche una Marina Abramovic. Mi sembra un po’ stucchevole questo discorso insistente sulla performance che, a mio parere, ha fatto il suo tempo. La riproposizione tel quel è qualcosa che non condivido. Bisogna cercare oltre. Trovo questa Biennale piuttosto confusa sull’idea di performance e anche sul fatto che alle Corderie essa viene proposta come un evento degli anni Novanta. Io stessa partecipo da un po’ di tempo ad azioni e le chiamo “Living act” perché preferisco ispirarmi al teatro di Julian Beck e Judith Malina che per me sono stati il massimo. Un discorso profondamente esistenziale. L’ultima che ho fatto è stata nell’ambito del Festival della parola di Balestrini. Ho visto Beecroft e mi lascia scettica. In questo momento di autocelebrazione della moda è abbastanza inutile celebrarla. Buona l’installazione di Airò, però anche a questo livello non ho visto niente di nuovo. Nell’insieme c’è la presenza del fattore grande. Il grande americano è diventato grande anche per noi. È come se ci dicessero che dobbiamo adeguarci ad un formato. In conclusione, poca spregiudicatezza, mancanza assoluta di ricerca.


Lorenza Trucchi, critico d’arte

La Biennale non va mai valutata in fretta. Mi sembra che ci sia un netto ritorno alla storia e questa è un’indicazione, ma spesso bisogna guardare non a quello che essa dà, ma a quello che c’è dietro il progetto. Forse è il caso di rivedere molte cose, soprattutto i giovani riuniti all’Arsenale che sono assai carenti. Alcuni non più giovani danno la prova meno positiva di loro. La cosa più importante in assoluto è Kiefer: pittore che chiude il secolo; che recupera gli elementi dell’Informale; di una grandissima libertà e poesia nella catastrofe dell’ultimo cinquantennio in Europa. Secondo me, al padiglione Italia nuoce la commistione dei tre artisti che non si fondono sempre in maniera equilibrata e positiva. Ci sono delle elisioni. Spalletti soffre e forse anche Cucchi. Era meglio separarli. Era più banale, più consuetudinario, ma più giusto. Questo però fa parte della Biennale che è anche spettacolo ed ha la necessità di far parlare di sé.


Emilio Vedova, artista

In generale posso dire che Bonito Oliva aveva lavorato con indicazioni diverse da Celant. Non tutte le Biennali sono inedite, né per l’uno, né per l’altro. Però, mi pare che Celant abbia veramente la possibilità di una informazione internazionale e di una specie di sessualità e di presa fisica con le cose. Egli fa un tipo di sondaggio critico nei riguardi del suo prossimo - come potrebbe essere l’Arte Povera - e della vicenda che lo ha contrassegnato come leader di questa particolare poetica.

Io ho esposto opere che camminano da sole. Si presentano nello studio a più riprese e vengono avanti. Sono collages cosmogonici su tre tondi giganti. C’è un contraccolpo di segnali che si scontrano con un personaggio: forse uomo, forse natura. Certamente c’è sotto un’atmosfera di trauma.

Sono soddisfatto del riconoscimento ufficiale. Queste cose vanno bene se il collettivo che te le dà è fatto di gente che in qualche modo ti stima e ti conosce. La gioia è parola vuota, però mi fa bene.


Lea Vergine, critico d’arte

Sì, è vero, questa Biennale sembra un po’ un capitolo della serie ben nota “facciamoci molto male”.

Che si può dire?! Un autogoal; o no?

Celant, da quando è stato assunto dalla grande famiglia del mercato statunitense, ha preso l’abitudine di minimizzare la cultura europea e ancor più quella italiana, sorvolando troppo su quei nostri artisti che non sono presenti sul mercato americano. Il titolo suggerirebbe un bilancio di “stelle passate, presenti e future”. Ma come si fa ad illustrare tale galassia se mancano troppi nomi estremamente rappresentativi degli ultimi cinquant’anni? Kounellis, Beuys, Castellani, Pistoletto e i Poirier, Bob Morris, Kosuth e i più giovani come Jenny Holzer, Barbara Kruger, Annette Lemieux. Mezza mostra del padiglione Italia è al di sotto delle qualità innovative ed estetiche dimostrate da certe personalità abbastanza straordinarie nel loro percorso trentennale e, in alcuni casi, di mezzo secolo. Vere schegge geniali, invece, si possono cogliere tra i decani degli anni ‘60, ‘70 e ‘80. Gilberto Zorio, Rebecca Horn con un ambiente di rottami. Sofisticata e intelligente come sempre la grande composizione di Giulio Paolini; talentuosa la sala di Baldessari; raffinata e colta quella di Dibbets; emozionante Marina Abramovic; buon maestro, un po’ teutonico, Kiefer; ironico e sentimentale Panamarenko. Finanche Vedova non è poi così male.

Tra i padiglioni stranieri - a parte il patetico statunitense, volutamente ed efferatamente etnologico-folcloristico - di conferme o sorprese rimarchevoli ce n’è, a dire il vero, un bel po’. Carmen Calvo per la Spagna; Terry De Cordier per il Belgio; Katarina Sieberding per la Germania; Rachel Whiteread per l’Inghilterra; Sigalit Landau per Israele; Gia Edzgveradze per la Georgia; Mark Dion per i paesi nordici; Kirsten Ortwed per la Danimarca.

Passando alle splendide Corderie, qua e là è abbastanza evidente un radicalismo non privo di humour. Negli autori, quasi tutti di acclarata notorietà e di versatilità stilistica, troviamo molti esempi di quella ibridazione erratica che è tipica dei nostri anni.


Gilberto Zorio, artista

Ho trovato lo spazio ideale per tre lavori che sono separati, ma possono assumersi benissimo la responsabilità di comunicare tra di loro, anzi, di interferire l’uno con l’altro. Mi sembra che tutto vada bene, perché ci sono una consequenzialità e un tema principale, soprattutto formale, con questi otri, pelli di maiale che venivano e vengono utilizzati ancora come contenitori sia di liquidi sia di aria. Tutto il meccanismo funziona tramite un timer che rilancia continuamente i movimenti. Vi sono dei flussi d’aria compressa che muovono le opere e provocano un ritorno in sede.

Trovo molto bella questa Biennale. Pulita, pura, responsabile. Ogni artista ha avuto la possibilità di confrontarsi con il proprio lavoro e con quello degli altri. In questi giorni ho visto opere meravigliose di Cragg, Rebecca Horn, Merz, Vedova, Richter, Oldenburg. Sono stati una sorpresa Lichtenstein e Dine, il quale lavora da 45 anni e ha fatto un’opera che scatta. È giusto rivisitare personaggi che appartengono alla storia e vedere come si muovono nella produzione attuale, come reagiscono al passare degli anni. Le Corderie sono eccezionali. Mochetti tiene in piedi tutto l’Arsenale.


Rudi Fuchs, critico d’arte, direttore Stedelijk  Museum di Amsterdam

Nel padiglione internazionale, con la mostra che sembra un museo, possiamo dire che Germano è tornato ai vecchi amori. Per me l’esposizione sulla moda era stata uno scherzo cinico, una forzatura. La cultura è sempre stata contro la moda. Adesso sembra che la pittura da sola non basti più e allora abbiamo pittura-teatro, pittura-musica, pittura-moda... Domani si potrebbe fare una mostra su arte e agricoltura. Sarebbe già meglio!  Entrare nella discussione sulle alternative è già ammettere che esse esistono, mentre per me non è così. Io mi rifiuto di parlarne perché credo nella forza morale, filosofica, estetica, umanistica, umana della pittura, vista però in modo ampio: da Picasso a Kounellis, da Mondrian a Ryman. Anche Burri, Merz sono pittori. La Abramovic è drammatica, ma in confronto alle tragedie di Shakespeare è niente. Come teatro è debole. Utilizza la staticità della pittura, la musica, ma il teatro ha le sue regole. Alla fine mi sento molto tradizionale...

Anche a Kassel c’è un tentativo di uscire dall’arte normale. Ma perché si debbono invitare cineasti, architetti, mentre gli architetti non invitano mai i pittori? A Cannes non è mai stato invitato un pittore. Questo denota insicurezza nel lavoro dell’arte. La nostra cultura non ha fiducia nell’arte visiva. Ha sempre dubbi e la cosa è molto grave.


Haim Steinbach, artista

...Della Biennale non ho visto tanto. Rispetto al passato trovo che questa sia una delle più sensibili e curate, nella scelta dei lavori e nella loro collocazione. Tutto è stato preso in considerazione attentamente, compreso il fatto che ogni opera ha bisogno del suo spazio per vivere. È una Biennale indubbiamente buona, ma, come ogni volta, ci sono lavori che stimolano e altri no. La maggior parte di essi è molto contemporanea, fine secolo. Se prendiamo Paolini, Abramovic, Fabro (splendido il suo lavoro!), trovi sensibilità, sentimento, idee praticate in vari modi, ma sempre conformi alle odierne correnti dell’arte. Per me è interessante individuare in queste opere l’idea del futuro che è duro da visualizzare. Come sarà? come si muoverà l’artista? dove andremo tutti? Penso che ci siano alcuni lavori di giovani completamente nuovi, come quelli di Maria-Ange Guilleminot, Vanessa Beecroft, che mostrano veramente la direzione che va emergendo dalla storia recente nell’uso della performance, l’interazione con gli oggetti quotidiani, la loro considerazione estetica. Si capisce che ci stiamo muovendo verso le attività lavorative, l’interazione con le persone, l’integrazione tra le comunità. E c’è il senso di consapevolezza che l’arte non è solo nell’oggetto fisso e bello, più o meno intelligente che si appende al muro, ma include qualcosa che è dentro di noi, di cui facciamo tesoro interagendo con la gente e comunicando con le cose.

Non ho ancora visto la mostra di Colescott, ma penso che sia un buon pittore, interessante per il modo con cui percepisce la cultura americana. È un bene che sia stato proposto il suo lavoro. La gente non lo conosceva perché egli non è una stella internazionale, ma ritengo che meriti un suo posto.

Parliamo di Kassel. Che cosa il pubblico si aspetta che Documenta debba essere e cosa dovrebbe essere? Un artista dovrebbe fare un’opera e un curatore concepire una mostra secondo ciò che il pubblico richiede? È provato che il grande pubblico desidera divertimento, spettacolo, quindi, il più delle volte riceviamo proprio questo dall’industria della cultura e attendiamo che il direttore di un evento d’arte importante come Documenta prenda in considerazione tale aspetto. Fare ciò ha certamente il suo lato negativo: spazzar via il significato dell’arte; in altre parole, ammorbidirla, addolcirla, al fine di compiacere il pubblico. A Documenta Catherine David ha dimostrato di non perseguire niente di tutto ciò. Non voleva fare un festival dell’arte, per cui ha organizzato una mostra storica secondo una selezione di realizzazioni che hanno a che fare con argomenti che si rivolgono ai maggiori cambiamenti demografici nelle società attuali: nazionali, etnici, urbani. Queste pratiche artistiche dovrebbero rivelare un lavoro di tipo visionario, un’attività che stabilisca un modello per le ricerche culturali e sociali del futuro. In altri termini, Documenta evidenzia il desiderio di porre l’arte nel giusto binario. Il progetto ambizioso, in se stesso ammirevole, tuttavia ha le sue trappole, la più vistosa delle quali è l’ideologia. Nell’atmosfera socialmente e culturalmente aperta di oggi sarebbe un grande rischio indirizzare gli artisti ad operare in ordine ad una linea politica di qualsiasi tipo. Chi sottoscrive il proprio lavoro a una linea politica, di solito corre il rischio di autodistruggersi e rischiano la stessa sorte i curatori che seguono tale via.


Laura Cherubini, critico d’arte

Posso dire con tutta sincerità che non ho molto amato la decima edizione di Documenta. Io sono per l’opera e trovo che il discorso in questo senso non è venuto fuori. È stata eccessiva la prevaricazione da parte del progetto curatoriale che può essere anche interessante, ma che un critico d’arte dovrebbe fare in un libro, in un saggio, in una pubblicazione senza utilizzare l’occasione di una rassegna che ha il compito principale di far parlare le opere e di valorizzarle. Da Catherine David è stata privilegiata una linea molto letteraria con prevalenza di lavori realizzati con video e altri strumenti del genere. Le opere più belle, corpose, di qualità mi sono sembrate quelle storiche. Dopo le fatiche di Basilea e Venezia e il lungo viaggio affrontato, da Documenta ci si aspettava altro. Gli oggetti in meno di Michelangelo Pistoletto (con una sala straordinaria) erano tra le cose migliori, però si conoscevano. Mi piace segnalare anche Haacke, Douglas, Richter. A proposito di quest’ultimo, capisco che la David abbia voluto presentare “Atlas”, che raccoglie le fonti del suo operare, ma forse ad un pubblico meno avvertito non fa capire il lavoro dell’artista. Per il resto ho trovato frammentarietà e confusione. Secondo me, gli obiettivi si raggiungono proprio attraverso la qualità dell’opera. L’arte non dovrebbe gareggiare con altri linguaggi più da grande pubblico come ovviamente sono il cinema, la musica, la televisione.

Scarsa nel numero la presenza italiana, mentre sono convinta che i nostri artisti hanno la qualità giusta per essere meglio rappresentati. Non so quanto abbia funzionato il discorso degli ospiti nei cento giorni. È vero che la mostra durerà tre mesi, ma la maggior parte dei visitatori si è concentrata all’inaugurazione. L’esposizione, quindi, è stata parzialmente fruita.

La differenza tra la Biennale e Kassel sta nel fatto che sono due modi completamente opposti di concepire una mostra. La Biennale è quasi museale, molto curata e attenta alle opere; sicuramente bella nel suo genere. Documenta ad alcuni è sembrata più stimolante, più nuova, anche se in parte datata anni Settanta. Può apparire più avvincente, però finisce per essere una brutta mostra. Io sicuramente preferisco il male minore (la Biennale), con il rischio della musealità, ma opere accurate, di sicura qualità, e spazio agli artisti.


Michelangelo Pistoletto, artista

A Kassel il mio lavoro ha avuto una buona risonanza. Insieme ad Emilio Prini ho rappresentato praticamente l’Italia. Ero in quattro situazioni diverse: una parte storica con gli oggetti datati prima del ‘65; l’“Ufficio dell’uomo nero” (aperto dal 1969 ad oggi) con tutta l’informazione sul mio lavoro attuale; delle strutture nello spazio esterno e, infine, due interventi di discussione nei cento giorni dove ho parlato di “Progetto Arte”, del rapporto tra i vari settori dell’economia e della politica, in collegamento con l’esperienza al Museo “Pecci” di Prato. Il secondo giorno c’era anche un architetto con il quale ho progettato per Lublijana un museo per gli oggetti in nero come lavoro di integrazione architettonica. In generale per me è molto difficile parlare di Documenta. Ogni volta che l’ho visitata, ho trovato una situazione diversa. Forse non c’è stato l’annuncio di prospettive future, ma l’epilogo di una situazione che esiste certamente sì. Mi sembra che l’aver presentato molta fotografia è qualcosa di nuovo rispetto a quanto è stato fatto in passato. Gli incontri nei 100 giorni sono l’aspetto più sperimentale. Si sono toccati tutti gli argomenti che vivono intorno all’arte nel mondo ed è anche la parte più vicina al mio progetto in cui l’arte incontra la vita. C’è sicuramente qualcosa che porta nel futuro con l’idea della retro-prospettiva, cioè di guardare in avanti partendo da certi punti del passato. Penso che si veda in alcuni aspetti il desiderio di muoversi su nuovi binari o perlomeno di raccogliere quanto di più avanzato c’è stato come, appunto, i nuovi media, la fotografia, il colloquio con altre forme di cultura che non sono soltanto quelle dell’oggetto. Documenta, rispetto alla Biennale, in un certo senso richiede un’attenzione nuova che non è solo quella di passare dentro uno spazio per vedere delle cose e tirar dritto. I giovani di oggi si siedono volentieri davanti ad un computer e comunicano attraverso questo mezzo. Non sono così spaesati, anzi, sono interessati a portare avanti un discorso di comunicazione a distanza. Internet è il nuovo villaggio mondiale che si muove sotto questa nuova forma di interazione. Non dico che sia di per sé arte, ma dà la possibilità di riflettere su segnali, movimenti, parole non dette; stimola emozioni; permette una comunicazione molto più vasta, come una volta la piazza del villaggio dove tutti si ritrovavano. Se c’è un messaggio, è proprio questo della piazza che si allarga; innesca una grossa problematica. La David non si è basata sul clamore effimero; ha strutturato una mostra che ha evidenziato una evoluzione appena accennata, ma che sarà molto più forte, molto più marcata nel tempo; in cui si scopre la volontà di andare verso il prossimo secolo, ma anche di porre l’accento sulle ultime battute di questo.

Col mio lavoro avrei avuto grossi problemi a partecipare alla Biennale di Venezia. Non ci sarebbe stato spazio per emettere segnali come ho fatto a Kassel, perciò, non mi sono sentito escluso. La considero una grande fortuna. Avrei perso una carta che ho ancora in tasca... La mia partecipazione ad un incontro al padiglione francese, certamente tra i migliori, è stata vivace. L’artista Fabrice Hybert ha coinvolto la televisione che continuava a riprendere entrando a far parte dell’opera; ero a mio agio. La Biennale mi è sembrata una rassegna di simboli materiali di nomi conosciuti, non ho provato un minimo di emozione, forse per un pubblico che si avvicina all’arte per la prima volta può essere stato interessante; per chi lavora e ricerca nel campo non è che un’ennesima ripetizione. Non solo, quando si ripete troppo, si scopre il punto morto a cui sono arrivati quasi tutti gli artisti di cui si parla da anni. A Venezia non c’è stato alcun annuncio. Certi artisti mi hanno profondamente deluso, non hanno fatto certamente meglio di prima e lo sforzo per avanzare è stato un passo indietro. Diciamo di Lichtenstein, Oldenburg, dello stesso Merz rispetto ai lavori di trent’anni fa. Vedendo a Kassel i miei lavori tutti si chiedevano se fossero gli ultim: erano freschissimi...


Maribel Königer, portavoce di Catherine David curatrice di Documenta X

Lavorando entro la tradizione di rinnovamento che ha caratterizzato altre Documenta, questa decima edizione ha optato per certe prospettive critiche necessarie a rapportarsi con l’arte contemporanea. Per sottolineare la sua evoluzione e diversità, la mostra si è articolata lungo un asse, un percorso che corre attraverso il centro di Kassel, varie parti della città e del suo passato.

Dopo 65 giorni, 391 mila visitatori sono venuti a Documenta per vedere le opere. Inoltre, per tutta la durata dell’esposizione, è aperto Documenta-Halle, uno spazio dove ci si può incontrare e scambiare idee. Interventi della più diversa natura conferiscono ulteriore fisionomia e spessore alla mostra. Questo forum è la seconda parte, più importante, di Documenta X. I ‘protagonisti della cultura’ - artisti espositori, registi, gente di teatro, architetti, scrittori, pensatori ed intellettuali come filosofi, critici, sociologi, scienziati, politici, economisti - espongono il loro punto di vista in direzione della globalizzazione. Le connessioni complesse e la multidimensionalità che caratterizzano lo stato attuale del mondo si riflettono nelle tematiche-specchio degli interventi i quali si espandono dalle idee sullo sviluppo della modernità nelle culture non occidentali, alle possibilità di politiche culturali date dalle condizioni del mercato mondiale, fino alle discussioni sui fenomeni universalismo e identità.

Il porsi interrogativi su quelli che sono gli elementi basilari della democrazia e dell’essere cittadini, sui limiti del neoliberalismo e sulle conseguenze delle nuove tecnologie dell’informazione, arricchiscono ancora di più il dibattito aperto. “100 giorni - 100 ospiti” è divenuto uno dei grandi successi di questa Documenta. Normalmente più di 400 persone stanno frequentando ogni giorno l’evento e gli interventi dopo le relazioni sono spesso stimolanti.

A cura di Luciano Marucci


Ma non solo Biennale e Documenta hanno tenuto banco questa estate: il viaggio verso Kassel ha offerto la possibilità di effettuare un tour all’insegna dell’arte contemporanea con esposizioni di rilevanza internazionale. Tra le migliori segnaliamo “Skulptur-Projekte” di Münster, “Die neuen abenteur der Objekte” al Museo Ludwig di Colonia e “The front, the throught, the tempest” di Jannis Kounellis presso “Halle Kalk” (nuovo spazio gestito dallo stesso Museo che in futuro ospiterà eventi più sperimentali rispetto alla sede centrale).

“Skulptur-Projekte” è una manifestazione con cadenza decennale alla terza edizione, curata da Klaus Bussmann e Kasper König.

Gli amministratori locali, dopo le iniziali titubanze, hanno pienamente condiviso l’iniziativa acquistando 22 sculture del 1977 e 19 del 1987, oggi facenti parte del patrimonio estetico della città. Visti i risultati, è augurabile che il programma vada avanti e che la mappa della collezione open-air possa essere allargata. 

I 77 invitati (tutti di primo piano) hanno esposto nella sede del Landesmuseum i loro progetti che hanno trovato attuazione in un confronto con il paesaggio urbano e in significative installazioni nei locali del museo stesso. Qualche nome tra i più rappresentativi: Andre, Baselitz, Buren, Chillida, De Vries, Fischli & Weiss, Hill, Gordon, Graham, Guilleminot, Haacke, Hains, Herkmen, Horn, Kabakov, Kirkeby, Koons, LeWitt, Mucha, Nordman, Oldenburg, Oursler, Paik, Ruthenbeck, Serra, Schütte, Thater, West, Weiner, Witheread, Zittel.  Per l’Italia: Boetti e Cattelan.

Il primo aspetto positivo è che gli organizzatori non si sono limitati a chiamare gli autori legati alla plasticità di tipo tradizionale. Hanno seguito il progressivo sviluppo avvenuto in questi decenni nell’ambito della scultura, rimasta lungamente ferma ai canoni classici, fino ad accogliere opere molto distanti per stile. In certi casi è stata data l’opportunità agli artisti da parete di esplorare altri contesti con risultati inaspettati. Quindi, accanto a realizzazioni ottenute con procedimenti e materiali convenzionali (che però non hanno niente in comune con i monumenti celebrativi che deturpano gli spazi pubblici), c’erano lavori oggettuali, installativi (anche sonori e video), ambientali e perfino comportamentali. E non mancavano interventi che sfruttavano le tecnologie telematiche. A volte gli artisti delle ultime tendenze hanno negato ogni fisicità al mezzo lanciando messaggi utopici, socio-politici; oppure  ideando strutture funzionali al tempo libero, all’urbanistica o all’architettura. Per non dire di chi è entrato decisamente in un rapporto conflittuale con la dimensione spaziale propria della scultura e con quella esterna del sito che la ospitava.

Tutto ciò indica che anche su questo difficile terreno si possono attuare programmi seri a lungo termine, promuovendo la ricerca e finalizzando l’evento alla destinazione sociale della produzione artistica.

Non stupisce allora che artisti importanti abbiano partecipato con impegno, nonostante gli esigui compensi.

Concepita come omaggio della città di Colonia al collezionista Wolfgang Hahn, quella del Museo Ludwig sul tema “Die neuen abenteur der Objekte” (curatore Sechziger Jahre) è risultata una mostra dall’assunto convincente, grazie a parecchi pezzi di indubbia qualità che facevano parte della raccolta (ora appartenente all’omonimo Museo di Vienna). L’esposizione - rigorosa e ben ordinata - riuniva circa 140 notevoli opere, realizzate negli anni ‘60 in Europa e negli Stati Uniti dagli artisti dei movimenti Fluxus, Nouveau Realisme e Pop Art: accumulazioni, compressioni, decollages, combines painting... - ottenuti con objects trouvés - che documentavano un periodo ormai storico da cui più direttamente discende l’arte di oggi. È indubbio che esse abbiano contribuito prima ad integrare il medium pittorico tradizionale poi a sviluppare l’oggettualità, l’installazione e ad indirizzare l’arte verso spazi più reali e vitali. La loro condensazione in un’unica sede ha permesso di analizzare i rapporti con le esperienze provocatorie dei predecessori (in primis, i dadaisti) e quelle più spregiudicate venute dopo (l’Arte Povera, ad esempio). In più ha reso possibile confrontare le singole personalità e verificare il cammino parallelo, le anticipazioni all’interno dei tre raggruppamenti e in che misura allora andasse estendendosi il concetto di arte.  I nomi sono quelli che tutti conoscono: da Arman a Spoerri, César, Christo, Tinguely, Klein, Hains, Rotella, Beuys, Brecht, Broodthaers, Vostell, Paik, Chamberlain, Filliou, Kaprow, Oldenburg, Rauschenberg, Warhol...

Una mostra, quindi, che, nonostante le date, ha saputo parlare di modernità e ha focalizzato il passaggio tra vecchio e nuovo attraverso un percorso che ha restituito il piacere estetico di una stagione dell’arte piena di annunciazioni. Anche il catalogo collabora alla rilettura critica di una produzione che resta bene in vista nel panorama del XX Secolo.

Mentre il pianeta-arte veniva eccitato dai mega-eventi dell’estate, Jannis Kounellis - inspiegabilmente assente dalla Biennale di Venezia -  inaugurava a Colonia “Halle Kalk”, ex fabbrica maestosa come una laica cattedrale gotica (sezione staccata del Museo Ludwig, tra i più prestigiosi ed attivi d’Europa). L’avvenimento, per molti aspetti esemplare,  ripropone la verticalità dell’arte e la capacità dell’autore di partecipare al divenire del mondo con un linguaggio radicalmente nuovo, senza peraltro negare la tradizione.

La singolare installazione, dal titolo “The front, the throught, the tempest”, si articola in una serie di interventi, calibrati e incisivi, di cui è difficile far vedere la totalità da una descrizione sommaria.  Il grande locale (in parte riservato ad un teatro sperimentale) è stato delimitato da una sorta di sipario realizzato con palle e funi metalliche per non occultare i rottami di scenografie accumulati tra le quinte, che dalla loro marginalità dialogano con il resto. Sul lato opposto incombe dall’alto un pesante sacco, mentre sulle grandi pareti e sulle vetrate sono disposte composizioni di materiali primari o vissuti, a volte inglobanti rari reperti evocativi. Nell’area agibile un grosso quadro tridimensionale. Il tutto consolidato da pilastri percorsi in senso ascensionale da spirali di lamiera, da colonne di legno e da travature.

Come sua abitudine, l’artista, con fare ingegneristico, è riuscito a dialettizzare con la struttura architettonica agendo al suo interno. I possenti elementi, privi di ogni valenza decorativa e borghese, interagiscono con l’ambiente fisico e culturale. Costituiscono un unicum, ma nell’enorme spazio (circa 2000 mq) essi possono essere letti anche come entità indipendenti. Si percepisce un’opera composita, quasi metasifica, sintesi di una forte tensione concettuale e costruttiva, potenziata da quell’immaginario-ideologico che motiva le sue operazioni. Ogni componente è in armonia plastico-pittorica con la vocazione del vecchio opificio, la sua desolazione, il suo nero-fumo e la fredda luce-ombra. Si avverte che l’opera, vista anche come lavoro di restauro..., è incompiuta: una sorta di cantiere aperto ad altre azioni, ad altri accadimenti. Quelle testimonianze del passato, attualizzate senza vistose alterazioni, le metafore dagli accenti mitici, ma non autoritari e retorici, stimolano la ricerca dei significati nascosti.

Kounellis, dunque, nella fabbrica della meditazione ha saputo rivitalizzare le magiche energie del tempo, come se avesse risposto ad una committenza dell’interiore per soddisfare esigenze etico-poetiche. Così ha restituito al luogo decadente senso e dignità storica attraverso il simbolico progetto di riedificazione morale in cui l’uomo, con la sua antica esperienza e saggezza, è ancora l’artefice del suo destino. E ancora una volta ha manifestato le sue aspirazioni ideali, reagendo con lucida passione alla condizione drammatica determinata dalla caduta di civiltà e dalla crisi di identità, individuale e sociale, della nostra epoca.

Ecco come, ripartendo da una funzione materiale e avendo profonda coscienza di certi problemi esistenziali, con l’impiego di creatività e mezzi minimali, si possa rianimare un relitto dell’archeologia industriale; come si riesca a trasformare in un’opera di alta qualità non soltanto estetica un anonimo contenitore abbandonato a se stesso.

Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 84, ottobre-novembre 1997, pp. 22-24, 26, 28-30 e 32]

 

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