La Platea della Utopie

Cara Venezia, dopo aver rinunciato alle solite interviste volanti della vernice per evitare distrazioni, mi solleciti un testo sulla tua Biennale. Ad essere sincero, a distanza di due mesi dall’apertura, non mi resta molto nella mente. Ci stiamo abituando a tutto e si riesce a memorizzare solo ciò che sa darci emozioni estreme. Per giunta, in questo momento - senza voler essere irriverente verso l’arte, né addentrarmi nella cronaca nera… - mi prendono di più certe problematiche che scuotono le coscienze. Con il clima sociale (e stagionale) che stiamo vivendo, parlare di mostre mi sembra quasi anacronistico ed è difficile potersi concentrare anche su avvenimenti importanti come il tuo, pur sempre estetici… Dopo che l’arte è stata liberata dalla schiavitù delle scuole e dei movimenti, dissertiamo volentieri della sua autonomia e non ci accorgiamo di vivere in stato di libertà condizionata… Comunque, ho scelto di fare questo mestiere anche per rifugiarmi nell’immaginario e sono condannato a criticare senza peraltro ricevere risposte gratificanti. Ecco allora alcune rapide impressioni e considerazioni sui tre frenetici e stancanti giorni dell’inaugurazione che, per affollamento, evocano le fiere dell’arte.

Ti premetto che stimo Szeemann come critico-organizzatore e persona animata da ideali; che, in genere, sono ben disposto nei confronti di quanti si impegnano (non solo per i soldi) nella concretizzazione di grandi progetti curatoriali.

Certamente questa 49esima edizione è concettualmente connessa a “dAPERTutto” di due anni fa e, per il largo uso delle nuove tecnologie, rappresenta uno sviluppo di Documenta X di Kassel.

Anche se manca un tema specifico e non vengono ufficializzate tendenze dominanti, il titolo “Platea dell’umanità” e la sua esemplificazione plastica, “Piattaforma del pensiero”, lasciano individuare la filosofia che ha guidato il direttore.

Converrai che nel vasto percorso labirintico si incontra di tutto: Occidente e Oriente; realtà multietniche; creatività maschile e femminile senza gerarchie; esperienze manuali e multimediali; cinema; poesia; performance; luoghi del vissuto; mitologie individuali e opposte ideologie; problematiche femministe ed ecologiste, antropologiche e sociologiche; aspetti drammatici e ludici; agonismi; angosce e speranze della civiltà contemporanea che spesso vede calpestati i diritti umani.

Dunque, un panorama eterogeneo capace di stimolare una riflessione critica su chi siamo e dove stiamo andando, nell’arte e nel mondo.

Perseguire un obiettivo unitario in questa platea ba-belante non era facile e forse neanche auspicabile, dal momento che la creatività non segue regole rigide e la casualità fa parte dell’arte, oltre che del divenire della realtà. Senza contare che, in un sistema planetario, complesso e soggetto ai giochi di potere, molte cose possono sfuggire di mano…

Szeemann, avendo avuto un incarico pluriennale e altri suggestivi spazi, non ha resistito alla tentazione di allargare ulteriormente la manifestazione fuori dai Giardini, fino alla spaesante “Hollywood” palermitana di Cattelan. Ma non ha valutato che, per visitarla tutta con la necessaria calma e partecipare ai vari appuntamenti (oltre alle interminabili file all’Ufficio Stampa e ai padiglioni), occorrevano almeno dieci giorni. Tra l’altro, pur essendo migliorati i servizi, non è stato ancora affrontato il problema, apparentemente secondario, dei guardaroba (da tempo risolto a Kassel) per liberare i visitatori dalla croce dei cataloghi.

Va ricordato che il curatore, nel registrare l’esistente in ambito internazionale, ha operato una mediazione e auspicato un cambiamento per promuovere la coesistenza della diversità nella globalità, visto che le identità troppo radicate possono turbare la convivenza pacifica. L’assunto, seppure sacrosanto, si dimostra utopistico, almeno finché impererà il sistema capitalistico selvaggio con i suoi gruppi di potere che, per fini puramente speculativi, usano violenza ai singoli, alla collettività e all’ambiente.

Ai padiglioni è ancora evidente una certa diversità nazionale, ora meno accentuata nei paesi fino a qualche anno fa piuttosto ‘arretrati’: siamo ancora nel campo dell’osmosi culturale e degli arricchimenti linguistici.

Esemplari le partecipazioni della Germania con la casa-scultura del giovane Gregor Schneider; della Francia con i notturni ‘giochi’ di luci esistenziali di Pierre Huyghe; della Gran Bretagna con le conturbanti apparizioni di Mark Wallinger; degli Stati Uniti con il sincero psicodramma di Robert Gober.

All’Arsenale, invece, l’omologazione, a livello di tecniche espressive, era alquanto marcata con la massiccia presenza di foto, video-proiezioni e video-installazioni. Qui, per chi concepisce l’arte come movimento, le presenze erano sicuramente più vitali, anche se troppo somiglianti. Ad ogni modo i lavori erano ben diversi da quelli dei decenni passati, quando l’approccio al video era incerto, l’elaborazione informatica inesistente e la realtà virtuale incontrava forti resistenze. Fallita l’iniziale video-art (pressoché illegibile), con la crescita esponenziale delle tecnologie, si è capito che bisognava creare anche un più diretto rapporto tra opera e fruitore. Così siamo approdati al maxischermo, alla multimedialità e all’interattività, sconfinando nell’eccessiva spettacolarizzazione che può creare nostalgie per la tradizionale opera-mito. Purtroppo, molti artisti usano queste tecniche per ottenere un consenso basato più sull’originalità della forma che sui contenuti. In altre parole, c’è stato un adeguamento al sistema consumistico e alle sue tecniche comunicative-persuasive, all’immagine prodotta dagli stessi media, per cui sovente si cade nella banalità e in una sorta di nuovo accademismo. Questi mezzi, associati ai riti della quotidianità e al paesaggio urbano, affascinano senza richiedere riflessione…, mettendo a proprio agio i soggetti indifferenziati della nostra società e quanti la promuovono per trarne profitto.

Sul fronte opposto alle ‘ricerche’ impersonali si collocano gli artisti che cercano di ritrovare la loro individualità e di autodefinirsi. Alludo a quelli che sfruttano la corporeità, la sessualità, l’ideologia fino all’esasperata esibizione del privato. E, per questa strada implosiva, arrivano all’opera autoreferenziale, all’autoritratto, al suicidio…, ignorando la dialettica costruttiva con l’esterno.

A ristabilire un certo equilibrio… sopraggiungono i non allineati, gli artisti della denuncia, quelli che vengono etichettati come “sovversivi”.

In questo incontro di esperienze contrastanti, è positivo constatare che l’arte cerca  maggiori coinvolgimenti, contaminazioni disciplinari e pone al centro il destino dell’uomo, sia pure con una identità plurima.

Insomma, in questa Biennale si ha veramente l’impressione di trovarsi di fronte a un momento di passaggio dalla cultura di un secolo a quella di un altro, probabilmente cruciale per il futuro dell’uomo.

Tutto ciò, naturalmente, provoca l’allontanamento del gusto dall’arte più riservata legata allo specifico e dalle opere che richiedono tempi di lettura più lunghi.

Si spiega allora certo disinteresse per i dipinti (già ripudiati dai ‘giudici’ di Padre Pio), quasi monocromatici, di Gerhard Richter differenziati da sottili stratificazioni immateriali.

Cy Twombly, con i suoi grandi, raffinati acrilici, è riuscito a farsi notare, mettendo però a rischio la dimensione intima.

In un contesto simile pure le invenzioni al rallentatore di Bill Viola passavano quasi inosservate, nonostante egli stia andando oltre le intuizioni esibite nel 1995, che avevano generato tanti proseliti. Lo stesso valga per “Wall Piece”, l’intrigante installazione video-sonora  di Gary Hill.

Esemplare, secondo la logica di questa Biennale, la sequenza fotografica di Vanessa Breecroft sull’identità femminile, tra citazione pittorico-plastica e corporeità.

Altra luminosa… sorpresa Alessandra Tesi con le ‘sue’ metamorfiche proiezioni ‘liquide’.

Restando in casa nostra, insufficiente anche se significativo, l’omaggio a Boetti, ancora da valorizzare appieno per la dadaistica leggerezza e la libertà nomadica.

Pure Rotella meritava di essere riproposto con più determinazione.

Riguardo ai premi, si sa che servono a ‘giustificare’ l’intera rassegna e a conciliare la qualità degli artisti arrivati con le innovazioni degli emergenti.

Quello a Serra era inevitabile anche per ringraziare chi ha sponsorizzato il trasferimento dell’imponente installazione.

Con Schneider sono state ricompensate le attese… di quanti non hanno voluto rinunciare ad avventurarsi nella sua “Dead House”.

Soddisfacente lo ‘special’ alla brava Marisa Merz, con le sue visionarie testine femminili, intense, poetiche e così sobrie rispetto al gigantismo che ha toccato l’apice con il “Boy” di Ron Mueck e le mammelle speziate del brasiliano Ernesto Neto.

‘Rappresentativo’ il riconoscimento ai canadesi Janet Cardiff e George Bures Miller per la loro opera multisensoriale.

Ma su tutti il vero trionfatore è il mitico Beuys con la sua profonda e alta soggettività, maestro della nuova creatività in funzione della “social sculpture”. “La fine del XX secolo” da lui ‘preannunciata’ proclama anche quella delle neoavanguardie…

E con questa nobile immagine simbolica che offusca tante altre, cara Venezia, io chiudo.

La Biennale, bella o brutta che sia, è sempre un tuo vanto; un evento straordinario che merita di essere vissuto; un appuntamento dove non vorresti incontrare nessuno e incontrare tutti. Perciò, arrivederci alla cinquantesima, sempre che, nel frattempo, la virtuale dittatura dei media globalizzanti non ci privi di questo piacere.

Nel frattempo Nedko Solakov, da moderno odisseo, continua per “A life” a far ri-dipingere metaforicamente la sua sala di “black et white”. Che stia inconsapevolmente preparando l’ambiente ai veri restauratori della prossima edizione?

Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 104, ottobre-novembre 2001, pp. 31-32 e 36]