UNA BIENNALE... A CALDO

Esprimere un giudizio pressoché oggettivo su una manifestazione vasta e complessa come la Biennale di Venezia non è cosa semplice, pur conoscendo le intenzioni del direttore artistico. Nei giorni del  vernissage il tempo a disposizione è sempre insufficiente, in rapporto alla quantità di opere esposte e alla loro dislocazione. Per giunta, questa volta il clima tropicale e l’incomprensibile carenza dei servizi hanno reso ancor più ardua l’impresa, al punto di indurre a rinunciare ai cataloghi dei padiglioni per non appesantire… ulteriormente il percorso, ormai divenuto una prova di resistenza fisica. Quindi, sulle fredde analisi sono prevalse le impressioni a caldo…

Diciamo subito che i presupposti di Bonami, scaturiti anche da una riflessione sulle formule adottate dalle maggiori esposizioni internazionali concorrenti, non erano privi di interesse. Ma alle buone intenzioni non sempre sono seguiti i fatti. Da qui il dibattito e le polemiche che, da un lato dimostrano la vitalità dell’evento artistico più prestigioso del mondo; dall’altro ne evidenziano le deficienze.

Se il progetto iniziale era quello di decentrare e di far coesistere la molteplicità e le contraddizioni dell’attuale sistema influenzato da un nuovo ordine economico e politico, omologato dal fenomeno della globalizzazione e tormentato da altre problematiche esistenziali, l’obiettivo è stato centrato. Ciò grazie… alla delega curatoriale che ha favorito la rappresentazione di una situazione più diffusa. Tuttavia, quella che doveva essere una polifonia, in vari momenti si è rivelata un’esecuzione dissonante che metteva in luce solo la provvisorietà di un periodo instabile come l’attuale. Era opportuno riconsiderare la marginalità; contrapporre i “Sogni” ai “Conflitti”; riaffermare il ruolo dell’utopia; prendere atto della metamorfosi delle identità, dell’inesistenza dell’avanguardia e delle tendenze dominanti. Tutto questo, però, non autorizzava scelte inconsistenti e occorreva fissare un limite, se non altro per non disorientare. Inoltre, la dialettica arte-realtà non doveva essere evasiva (circoscritta, cioè, alla registrazione di fatti individuali), evitando di valutare lo scontro ideologico vero che è alla base di cambiamenti epocali.

Era pure doveroso ricercare strategie per favorire la comunicazione e coinvolgere il pubblico, ma, nell’affrontare l’annosa questione, di frequente si è caduti nell’ingenuità o nella demagogia, mentre – com’è risaputo - l’arte per svilupparsi vuole libertà creativa e non “Dittature”. Se poi, per raggiungere lo scopo, viene privilegiata la produzione di seconda mano, la cosa non può che risultare controproducente. Per compiere un’azione coerente ed efficace in senso formativo, si dovrebbe addirittura promuovere un’attività continuativa, di cui da tempo si parla, che vada oltre la collettiva a cadenza biennale. Però Venezia ha bisogno dell’evento di grande richiamo e di quel turismo che la induce a estendere le mostre in luoghi diversi da valorizzare.

A parte queste osservazioni di carattere generale, abbiamo condiviso il ridimensionamento dell’arte autoreferenziale, del gigantismo all’americana e dei video e film di lunga durata. Ma in avamposto c’erano i “Ritardi” e non le “Rivoluzioni”, che hanno deluso sia i conservatori, sia gli altri che pensavano di trovare il meglio della ricerca contemporanea ed emozioni al posto delle banalità del quotidiano, come quelle affastellate nel labirintico spazio dell’Arsenale. Anche il ritorno della rappresentanza italiana in “The Zone”, pur se  non priva di posizioni ideologiche, in un contesto tutto sommato neutrale, non ha convinto. Neppure la rivisitazione della pittura, da Rauschenberg a Murakami, al Museo Correr, che voleva essere rassicurante, ha raggiunto in pieno lo scopo, per omissione di nomi e selezione di lavori non rappresentativi di autori fondamentali.

In definitiva, hanno avuto il sopravvento le esperienze convenzionali e le ambiguità; è stata enfatizzata la cronaca e forzata la naturale evoluzione dell’arte. Sembrava che la biennale avesse voluto ignorare i veri protagonisti dell’arte attuale e che le opere avessero cambiato i connotati di autenticità convalidati dalla storia.

Rispetto all’assunto, emblematico il Leone d’Oro a Pistoletto per la sua opera come specchio del mondo e per l’azione “responsabile” nell’ambito della “Cittadellarte”. Meno comprensibile, sotto tale profilo, quello a Carol Rama, ma, probabilmente, il riconoscimento al suo lavoro autobiografico è servito a bilanciare l’altro a valenza collettiva.

A conti fatti, si può dire che alla 50esima Biennale abbia veramente trionfato la “Dittatura dello spettatore” sull’élite più informata e sensibile in cerca, soprattutto, della qualità poetica. Così la gente comune continuerà a porsi domande sul significato delle opere, anche quando non ne saranno portatrici...

Qualora i molti scontenti si fossero sbagliati nella valutazione, vuol dire che andava fatto qualcosa in più per aiutare a comprendere le ragioni di una mastodontica rassegna che, per essere gestita nel migliore dei modi, richiede molte virtù.

A ridare buonumore… e sprazzi di fiducia, di tanto in tanto appariva Charlie, il monello telecomandato di Cattelan; mentre chi in quei giorni infuocati disponeva di qualche ora e di energie residue, è andato a farsi consolare da Kounellis, i Kabakov, la Dumas e da alcune buone personali in gallerie private.

Al termine dell’excursus resta un dubbio: ci troviamo di fronte a una reale decadenza culturale o lo scenario prospettato nasconde segni di rinascita “globalromantica” che non abbiamo saputo cogliere? Valutino i lettori-visitatori!

Intanto, ecco alcuni commenti raccolti qua e là per mettere alla prova le nostre notazioni.


Valentino Borgatti

Il primo giudizio è che la frammentazione per temi e concetti, invece di aiutare, complica la visita allo spettatore, al quale è dedicata questa Biennale. Giustamente un video cita Marcel Duchamp, che dava al visitatore la dignità dell’artista nel rapporto con la comunicazione. Ho avuto l’impressione che l’eccessivo sezionare le proposte allontani, crei difficoltà di decodificazione di qualsiasi possibile metafora; che si rischi la retorica, perché l’elemento totalizzante di banalizzazione, significa semplicemente che i due poli del quotidiano e dell’artistico storico devono confluire. Direi che questo voler catalogare per sezioni fa in modo che l’elemento banale, che può essere costruttivo nella sua provocazione, si ammorbidisca, si spenga, diventi solo fine a se stesso. Sotto questo profilo la Biennale di due anni fa era molto più eccitante.

Finisco col dire che, secondo me, l’Arsenale contiene veramente poche proposte vivaci. Anche quella specie di autocelebrazione al Museo Correr forse non doveva appartenere a una biennale, dove era bene vedere le proposte di tutto il mondo in contemporanea. Certamente, quando uno può dire che di qua sono passati Bacon, Fontana, Burri, Rauschenberg, c’è da levarsi tanto di cappello, ma ce lo leviamo di fronte al passato, mentre sarebbe importante che la Biennale mostrasse un contesto contemporaneo molto più vitale.


Marina Abramovic

Come sai, ogni Biennale è stata criticata… Penso che questa edizione offra una buona visione di cosa sia l’arte contemporanea in questo momento. Personalmente - è ovvio - preferisco alcuni lavori ad altri… Tra le migliori sezioni ho trovato “Stazione utopia”, curata da Obrist [Nesbit e Tiravanija]. Per certi versi c’è il ritorno di alcune idee essenziali degli anni Settanta.

A mio parere, l’artista più interessante è il grande Orozco, non solo per il suo lavoro, ma per le cose che egli ha scelto come curatore. Io penso che il vero grande problema della Biennale sia quello di presentare al meglio le opere nello spazio. Ci sono lavori che occupano spazio senza necessità e altri che non ne hanno a sufficienza. Un esempio è dato dalla cattiva presentazione del lavoro dell’americano Matthew Barney.


Paolo Canevari

In questa Biennale mi e sembrato che il protagonismo dei curatori fosse la vera dittatura. Il significato dell’esposizione nel suo complesso era politico, nel senso degli interessi e non del concetto.

Rilucevano ai Giardini la sala dell’artista Gabriel Orozco e il Padiglione Spagnolo di Santiago Serra.

Il resto era piuttosto caotico negli allestimenti o piatto nei significati..., o viceversa.


Enrico T. De Paris

Sogni e conflitti è sicuramente una biennale ad alto contenuto intellettuale con molti artisti…, forse troppi…, molto bravi; ricca di metafore che ci aiuteranno a comprendere il presente e il futuro.

Una biennale che si inserisce nel dibattito culturale internazionale con forza e dinamicità. Visto questa intensità di spirito del curatore, avrei preferito opere originali e non già viste in altre manifestazioni e avrei gradito una sensibilità maggiore nella visione del panorama italiano.

Ma sensibilità, coraggio, pressioni economiche e altre piccole cose non possono che sviluppare… sogni… evasioni e omissioni!


Emilio Isgrò

Devo confessare che come artista sono portatore anch’io di un piccolo “conflitto di interessi” che purtroppo non può non inquinare i miei giudizi e le mie opinioni: nel senso che tali opinioni e tali giudizi saranno sempre condizionati dal fatto che anch’io, come tutti gli artisti, considero la mia opera come la sola risposta efficace al degrado e al declino dell’universo.
Detto questo per un debito di lealtà verso il pubblico - e dopo aver precisato che la lealtà degli uomini è la sola cosa che conti davvero per un artista - la constatazione più ovvia è che anche questa Biennale, più o meno come le altre che l’hanno preceduta e le altre che la seguiranno, non può che rispecchiare una situazione più generale. E quella che c’è - diciamolo con franchezza - non è davvero una delle situazioni più esaltanti e vitali. Come se gli artisti si mordessero la coda tutti insieme e tutti insieme pestassero l’acqua nel mortaio. Solo che questa non è l’ “acqua pesante” dalla quale può venire l’atomica. Ma un’acqua frizzante e leggera che ci aiuta a digerire tutto.
Insomma, molti di questi artisti hanno già un avvenire. Ma sicuramente non avranno un passato.


Luca Maria Patella

La Biennale è finita in una palude e sarebbe bene che riprendesse il volo! Io son pronto ad osservare le cose; quel che però l’arte non ha capito è che non può più dar frutti originali (questo è il punto dolente)… se non esce anche da se stessa: una cultura o una moralità che non sia unicamente “artistica”, cioè decorativa e artigianale.  …Quando una “corriera” o un vaporetto del genere facessero tappa a Venezia: …li prenderemo. Ma il mondo è vasto e tondo, e io non li aspetto a una “fermata”!

In ogni caso: non dittature, ma …quel che il cor  “ditta” dentro!


Alfredo Pirri

La mia non è propriamente un’opinione, piuttosto un’esperienza (fisica ed emotiva).

Non ho visto tutto della Biennale e non voglio parlare di quello che mi è piaciuto o no. Invece ho avuto un’impressione forte; la sensazione che viviamo un momento in cui le idee e i sentimenti debbano materializzarsi, prendere corpo e forma per considerarsi tali. Mi è parso, cioè, che il tema dell’opera (della sua realtà fisica) stia per proporsi nuovamente, ma sotto un differente aspetto. Nella Biennale prevale quello macchinoso e ipercostoso legato ai materiali e ai meccanismi realizzativi che, privilegiati in eccesso, danno un’idea dell’opera d’arte come di un qualcosa di “assoluto”, non più nel vecchio senso filosofico e (quindi) metafisico, bensì in una scala assolutamente fisica o addirittura iperfisica che potremmo chiamare “costruttiva”. È come se la cultura dell’immateriale che ci ha governati negli anni passati stia per concludersi. La mia speranza è che in questo percorso (giusto), non prevalga una dimensione titanica, debitrice di quella utopica da cui prende origine. Spero anche che si tenga sempre presente l’aspetto demolitore delle utopie (grandi e piccole, sociali o personali), in modo che l’arte del futuro non vada nella direzione di un abbraccio fra titanismo e demolizione, invece sia in grado di affrontare quella scala umana che è a fondamento dei nostri desideri e dei nostri sogni.

Solo poche parole “specifiche” a proposito della  mostra sulla pittura. È una mostra livida e triste, interpretata con quello spirito di demolizione che fa di ogni utopia fallita (quella della Painting contro la Pittura) uno spirito sterminatore.


Achille Bonito Oliva

Ribadisco quanto ho scritto in maniera approfondita su “Repubblica”.

Le emergenze della cronaca sembrano l’assunto di questa Biennale, sdoppiata tra rappresentazione delle identità nazionali, il territorio segnato dei padiglioni ai Giardini e l’incubo del magma globale dentro le Corderie e l’Arsenale. La storia è solo un partito preso, l’architettura del contenitore, cornice garante dell’Evento che corre e scorre tra diverse opere disseminate nel set espositivo. Qui si mette in mostra la peripezia dello spettatore, indotto al percorso e ad una contemplazione da inciampo tra gli intrighi di una foresta stereofonica di immagini e proposte, tutte a simulare l’ingorgo già visto, ma inatteso della megalopoli finale. Tangibile, e giustamente, la tentazione dell’arte all’imbocco del terzo millennio di produrre comunicazione, intercettare una società di massa già avviluppata nel suo immaginario da un sistema produttivo sempre più pervasivo e performativo. L’esposizione si fa mass-medium, mezzo mediatico per una folla istantanea sulla quale le opere funzionano nello stesso tempo come solletico liberatorio ed ortopedia sociale di sopravvivenza.

Al progetto del Curatore si sostituisce la manutenzione del curatore, la documentazione orizzontale come buffet multimediale, bandito a piene mani, un veloce boccone d’arte, per una clientela di cui non si conoscono precisamente i gusti. La dittatura dello spettatore, così presupposta, è una gigantesca macina del Grande Numero. E il grande numero viene quasi artatamente enfatizzato dall’ingorgo del percorso che, nei suoi snodi, restringimenti e sponde strette, dà protagonismo tangibile al corpo collettivo dello spettatore, che muore come pubblico e si fa folla.

Biennale Grandi Manovre: dittatura proletaria dello spettatore, morte del pubblico, avvento del Numero che avanza (nel Paese), deriva plebiscitaria della “folla solitaria”.


Angelo Capasso

Ho atteso questa Biennale con particolare curiosità (anche per l’intervista che ho raccolto personalmente da Francesco Bonami: la prima rilasciata per una testata specialistica), lasciandomi entusiasmare dal  progetto aperto e dal desiderio di svecchiare l’istituzione della Biennale con una nuova tensione al plurale: una regia diversificata con curatori diversi; tante sezioni, tanti territorio geografici, princìpi diversi di selezione. I risultati espositivi sono stati pressoché deludenti: è mancato un progetto strutturale ben coordinato, e il protagonismo di ogni singolo curatore (o le coppie, terzetti, etc.) si è limitato a produrre la solita collettiva che normalmente oggi invade le gallerie di tutto il mondo (perlopiù con titoli tardoromantici ripetitivi: urgenze, emergenze, rivoluzioni, utopie di zona o di quartiere). La sezione di gran lunga più interessante è quella curata da Igor Zabel. Per il resto ha prevalso il criterio della biennale/fiera d’arte: tanti nomi, tante sezioni, che hanno affollato gli spazi con opere. E poi: l’amore di Bonami per la pittura, ancora una volta non lo ha ricambiato: l’unico tentativo di strutturazione che il direttore ha mostrato nella sezione al Museo Correr ha messo in mostra la fragilità del progetto curatoriale: enormi buchi nel percorso dal ’64 ad oggi, e soprattutto una mostra con opere poco emblematiche considerato l’evento internazionale: un Damien Hirst-pittore rappresentato da un quadro scrostato; un Kiefer da campeggio e un Andy Warhol da spiaggia….

Venezia e Kassel sono a mio avviso due momenti centrali del pensiero dell’arte contemporanea. Mentre Documenta riesce ancora ad avere proposte di ampio respiro, Venezia sta lentamente scivolando nel vortice delle biennali praghesi, albanesi, libanesi etc., dove non è più il progetto culturale a prevalere, quanto la necessità di dilatare gli spazi espositivi per accogliere l’attuale iperproduzione di artisti e opere, con princìpi selettivi di circostanza basati sull’ “inclusività indiscriminata” (non è un caso che dalla storia si sia passati alla geografia).

Si sta affermando il principio di “una Biennale per ogni artista”, e questo stesso principio giustifica l’arruolamento di curatori (artisti o ex) nella progettazione di eventi periodici che dovrebbe avere lo scopo di fare il punto sull’attualità e creare dibattito attorno all’arte. La complessità della scena artistica è sostituita quindi da un anelito di ricerca della completezza e dell’aggiornamento che rivela tutti i suoi limiti nel momento in cui sbucano fuori le solite assenze rilevanti (che anche in questa biennale non erano poche) che si legano al principio del gusto personale del direttore.

Non ho mai creduto in una  “dittatura dello spettatore”, guardando a questa Biennale però ho pensato che questo principio sarebbe molto comodo a quell’oligarchia di poteri (economico-politici) che dietro agli spettatori vorrebbero mascherarsi per perseguire il loro scopo di semplificare la cultura e spingerla al margine, dove il controllo è più facile e accessibile.


Vittoria Coen

È stata sicuramente una delle Biennali più calde degli ultimi anni, ma non per il dibattito culturale. D’altra parte è anche vero che di una Biennale si parla un po’ meglio quando è già passata, perché la si confronta sempre con l’ultima. Credo sia anche importante non abbondare in presunzione (ricordo la mia personale esperienza nel 1993 - quando il mio incarico riguardava anche il coordinamento organizzativo di una sezione – tutto era molto complicato e rallentato in una città dove già vivere il quotidiano non è semplice). Infatti, come nel calcio e nella musica così nelle “arti visive”, sono tutti dei grandi esperti e tutti potrebbero vincere i mondiali solo se ne venisse data loro la possibilità.

Proprio in questi giorni, però, mentre conversavo con un artista americano molto noto e di solito molto equilibrato, mi veniva rivolta la seguente domanda: “ma tu tutti quegli artisti americani che sono alla Biennale li conosci? perché io non li ho mai sentiti nominare!”. Ammetto che sono rimasta piuttosto perplessa e ho anche un po’ riso. A parte, quindi, il ventaglio degli “sconosciuti” e  a parte l’evidente volontà all’interno del Padiglione Italia di “spiegare” la poetica degli artisti e le intenzioni dei curatori, la confusa congerie priva di una vera selezione mi ha molto raffreddato il cuore (nonostante l’afa). Sì, perché avevamo tutti sperato, almeno seguendo le  dichiarazioni sui giornali, in una auspicata “riscoperta della pittura”, in una coralità provocatoria degna di riflessione, in una puntualizzazione delle identità e delle diversità. Vince invece l’omologazione, ancora una volta, in un evento come la Biennale che non merita questo, anzi! Essa deve distinguersi per la capacità di scegliere, di sintetizzare, di dichiararsi con senso di responsabilità affrontando anche i rischi di non essere capita. Qui non è che non abbiamo capito, qui c’è poco da capire. Mi dispiace, ma la regia è troppo importante. Per voler mettere d’accordo tutti, la Biennale non ha convinto quasi nessuno.


Gillo Dorfles

Il fatto che Francesco Bonami abbia voluto presentare a Palazzo Correr una vasta scelta dei migliori e più noti “pittori” delle passate generazioni, dimostra l’intenzione di affermare che non sono solo le foto, i video, le installazioni a costruire l’autentica arte dei nostri giorni. Un altro merito del nuovo direttore è stato quello di aver preferito non assumere su di sé tutte le scelte, con l’allargamento delle iniziative espositive ad altri co-curatori. Un passo avanti, dunque, come molteplicità e multipolarità degli indirizzi, ma anche un ripiegamento su alcune zone d’ombra, come risulta da parecchie sezioni.

Quello che salva una notevole porzione dell’esposizione è “Stazione Utopia”: forse la più affascinante da un punto di vista non solo concettuale, dove personalità di primo piano appartenenti all’arte, alla scienza, all’architettura, si sono cimentate nelle più curiose e geniali operazioni. In realtà, tra giochi e giochetti cibernetici da un lato, denunce politico-belliche dall’altro, non possiamo non riconoscere come l’attuale Biennale – più di tante del passato – corrisponda all’odierno Zeitgeist, lo “spirito del tempo”, dilaniato da eccessi tecnologici e orridi bellici.

Degli oltre trecento artisti presenti, almeno qualche nome va ricordato: B. de Bruyckerl, Gabellone, P. Jonas, D. Hirst, Orozco, J. Pastor, J. Queiroz, F. Pumboesl, C. Drake, E. David… E non possiamo dimenticare la sempre vivace e indomita Carol Rama – premiata con il Leone d’oro alla carriera – e l’altro giustamente premiato Michelangelo Pistoletto, che si sono sempre distinti per il loro anticonformismo e la loro audacia inventiva. Purtroppo non posso dirmi del tutto soddisfatto per quanto troviamo esposto nel nuovo padiglioncino dedicato questa volta all’Italia, diretto da Massimiliano Gioni, “La Zona”. I lavori esposti non mi sembrano tali da dare un’idea sufficiente dell’attuale stagione italiana. Il fatto che in alcune sezioni siano presenti la Lambri, Donati, Pivi e altri, effettivamente non soddisfa la presunzione – in questo caso lecita – dei nostri connazionali.


Gabriele Perretta

Com’è annoiato questo spettatore!

Anche questa biennale di Bonami, come quelle affidate ai precedenti curators, non funziona. Sembra però che dobbiamo rassegnarci alla dittatura del curatore più che dello spettatore. Siamo circondati in maniera ossessiva da questa figura di mediazione tra il mercato e la forma dello spettacolo che esorcizza l’ideuzza della mostriciattola, le frustrazioni represse dell’artista, combinando, ahimè, al limite del guazzabuglio, una sorta di combine painting (Bonami, ma che combini!?). Il tema (o il non-tema) di questa edizione è davvero contraddittorio ed incomprensibile per come viene posto. Più che una dittatura dello spettatore, là dove si fa confusione tra la moltitudine degli sguardi e lo stadio caotico della massa amorfa, che si trova ad interagire con una quantità di informazioni impostegli dall’alto, in puro stile autoritario, emerge una congerie fieristica che non discerne e non comunica. L’arte con questa 50^ biennale pone l’allarme definitivo sul senso della sua esistenza. Bonami ed i suoi amici non si sono accorti del fatto che nel frattempo l’arte è morta. Essa da tempo è già sepolta nei luoghi più marginali del sistema della comunicazione e loro, invece di costruire dei traini che siano delle nuove forme di interpretazione e di conoscenza dell’attualità, invece di ridare alla storia lo spazio del timone, si sono arenati nelle secche paludose della rappresentazione liberista globale. La crisi attuale chiede l’esistenza di lettori e spettatori attenti, che sappiano scoprire il nuovo corso della storia e soprattutto che stiano lontani dall’autoritarismo dell’onnimercificazione comandata dal pensiero mafioso dei clan internazionali, dove sono tesserati galleristi, curators e artisti o pubblicitari falliti.


Ludovico Pratesi

Difficile dare un giudizio a caldo sull’ultima Biennale. Sulla carta le promesse erano tante, ma in realtà, dopo i tre giorni della kermesse veneziana, si rimane con l’amaro in bocca. Poche le opere significative, rari i momenti di emozione. Molto caos, a volte vitale (“Zone d’urgenza”), ma spesso inutile. Preferisco dire cosa mi ha interessato nei padiglioni stranieri: Eliasson, Rovner, Ofili, Sierra, Höfer, Sterback (con qualche riserva). Interessante la mostra di Kabakov alla “Querini Stampalia”, anche se l’ho trovata un po’ troppo disneyana. Ma il ricordo più forte di questa biennale rimane l’installazione di Jannis Kounellis nel chiostro di San Lazzaro degli Armeni: 1200 bilancini di metallo che sorreggono bicchieri, brocche, bottiglie di vetro trasparente o colorato. E di colpo l’architettura del chiostro perde peso e diventa leggerissima, mentre la luce disegna sul pavimento le ombre dei vetri, che brillano come pietre preziose... Insomma, un vero capolavoro, custodito con pazienza e dedizione dai monaci armeni. Forse l’arte è ancora capace di diventare poesia!


Marisa Vescovo

Io credo che Bonami si sia fortemente impegnato nella ricerca di artisti che avessero dei rapporti col sociale e, quindi, che fossero ideologicamente impegnati. Penso soprattutto alla straordinaria presenza nel padiglione di Israele. Accanto agli artisti affermati, anche gli sconosciuti. Non è necessario avere un curriculum incredibile per arrivare alla Biennale. Poi ci sono i segni di una rottura con gli artisti che dalla fotografia prendono una scorciatoia per arrivare in fretta al mercato. Inoltre, non esiste più l’eccesso di video della Biennale precedente, ma solo gli artisti fortemente motivati in questo tipo di linguaggio. Quindi, ci sono le premesse per un ritorno alla pittura, annunciata anche dalla mostra al “Correr”. Ciò vuol dire che il problema della pittura è ancora all’ordine del giorno. Quello che mi dispiace, come torinese e come donna, è che un’artista come Carol Rama, Leone d’oro alla carriera, sia stata rappresentata con quattro disegni e due olii: insufficienti per dare la misura del suo lavoro, tanto che gli stranieri erano meravigliati, perché non c’erano i presupposti per capirlo. Temo che l’altro Leone d’oro a Pistoletto sia un tentativo di riportare sul mercato l’Arte Povera e, in particolare, Pistoletto stesso. L’Arsenale per me è stato un shock: il caldo…, non si riusciva a trovare un posto per sedersi…, non si respirava…, non si capiva dove iniziavano e dove finivano le opere di un artista. Bonami doveva gestire meglio i suoi collaboratori ed essere più attento.


Sergio Bertaccini

Questa edizione é stata contrassegnata dal gran caldo e da una generale disorganizzazione all’interno della Biennale stessa, cosa che fa specie, se si pensa che la manifestazione si ripresenta a grandi linee in una struttura sempre uguale; non si capisce allora perché, anziché eliminare disservizi e cattivo funzionamento di precedenti edizioni, si sia arrivati ad uno stato di grande confusione e generale improvvisazione.
Al di là di ciò credo che questa Biennale non sarà ricordata come evento epocale, né come una delle migliori ultime edizioni. Penso, infatti, che le scelte affidate ai curatori, peraltro ampiamente giustificabili, riflettano un momento di stanca nel mondo dell’arte contemporanea. Poche nuove proposte folgoranti o conferme importanti alle Corderie e all’Arsenale, mentre nei padiglioni nazionali, fatta eccezione per alcune ottime proposte (Svizzera, Gran Bretagna, Israele e Danimarca) lo standard era su livelli medi, per non dire modesti per alcuni padiglioni importanti (uno per tutti, gli Stati Uniti). Il padiglione Italia, come spesso é successo, é da valutare comunque in positivo, anche se non era proprio entusiasmante. Infine, due parole sul Museo Correr: ottima, anche se ridotta, la retrospettiva su Alex Katz, mentre la mostra celebrativa sulle presenze alla Biennale degli ultimi quarant’anni presentava vistose lacune e molte opere non rendevano giustizia all’artista.
Le mie impressioni sono state più o meno condivise anche da altre persone con cui mi sono  confrontato.


Enzo Cannaviello

Sono appena tornato da un viaggio a Basilea e ho avuto la netta conferma che, pur nascendo soltanto dalle dinamiche del mercato, tale evento fieristico batte la Biennale di Venezia dieci a uno. La critica d’arte, soprattutto in Italia, va in altre direzioni, snobbando le scelte del mercato e imponendo i propri modelli (Alessandra Ariatti, etc..), che tuttavia non vengono accettati a livello internazionale e sono
al di fuori del sistema dell’arte. Mi rifiuto perciò di commentare una Biennale che rincorre soltanto l’evento, trascurando la qualità dell’artista e il suo effettivo valore. La mia critica non è rivolta a questo o a quel mezzo, che è solo uno strumento di cui l’artista si serve per la sua libera espressione. Intendo criticare piuttosto l’assolutamancanza di qualità artistica nelle scelte dei curatori. A Venezia si assiste soltanto alla spettacolarizzazione dell’arte, mentre vengono omesse - perché non conosciute o volutamente ignorate - altre forme artistiche ben più importanti dal respiro internazionale e modernissimo. Inoltre il concetto di globalizzazione applicata all’arte è un falso, in virtù della

Natura elitaria e territorialmente limitata dell’arte stessa.


Emilio Mazzoli

Alla richiesta di esprimere un parere sulla Biennale provo una sensazione strana, perché non mi sembra di essere tra gli addetti ai lavori. Quindi, non mi va di combatterla, né di prenderla in considerazione. Mi è sembrata un manicomio e basta. Mi son sentito tra gente che non conosce il proprio mestiere: come degli alpinisti senza gambe o dei nuotatori che non sanno nuotare.

Quando Celant, Carandente, Bonito Oliva, Szeeman l’hanno organizzata, si poteva avere anche un’altra idea, però erano tutti personaggi che sapevano suonare lo strumento loro affidato. Faccio il gallerista da quarant’anni; ne ho viste di tutti i colori e, proprio grazie ad essi, una galleria come la mia può oggi vivere bene. Il pubblico si rivolge alle vecchie gallerie, perché hanno uno stile diverso. I curatori e gli espositori di quest’anno sembrano venuti da un altro mondo. Anche la mostra al Museo Correr denota mancanza di rispetto per le opere, la non scelta. Non so quali titoli abbiano certi curatori per fare il loro mestiere e non me ne frega niente. Non è una biennale questa e ho visto altra gente che in generale era perplessa. Ma non la critico! Cosa vado a picchiare un nano!? un debole!? uno che sta male!? Non so se la mostra è già finita [5 luglio], se hanno licenziato il curatore… Probabile, perché le cose si autoescludono. …Anche quelli che l’hanno messo lì. C’è troppa politica, troppa fretta. Ragazzini di 27-28 anni che hanno delle presunzioni…! Io che ho lavorato con De Dominicis, Schifano, personaggi importanti che hanno fatto la storia dell’arte, posso dire che lì c’è chi li scimmiotta, li prende in giro. Vorrei che il nostro Paese non fosse considerato solo quello di Pulcinella, Arlecchino, dei Luna Park e del Chianti Tuscany. Ci sono tante altre belle cose. Se si arriva da Trieste, ecco Saba e Joyce. Qui sono venute dentro la moda, le aste, la violenza. Hanno dato un pugno nello stomaco all’arte, a tal punto che ci vorranno anni e anni per rimettere le cose a posto. Spero che vengano delle persone competenti, che abbiano vera passione. Io ho avuto l’avventura, o la disavventura, di frequentare New York e di conoscere il suo sistema dell’arte. È una città meravigliosa, ma cotta. Ormai quel sistema è finito. Ci hanno venduto centinaia di milioni di dollari di roba che non vale una lira. Anche voi delle riviste vi rendete conto del casino che c’è in questa Biennale. Bonito Oliva sui giornali l’ha criticata con correttezza. Fanno una mostra sulla pittura senza Ryman, Martin, Kelly. Di Wharol, che è un artista ciclopico, mettono fuori un quadretto 40x40. Artisti male rappresentati. Se un curatore non sa scegliere le opere, ne ha disprezzo...! Un tipografo non può non amare i caratteri mobili, i libri. Siamo arrivati a un tale livello di inquinamento…! Da buon cattolico direi che è entrato il diavolo! C’è qualcosa di grossolanamente sbagliato, però non mi va di criticare, di litigare, perché non li considero colleghi. Ci può essere un dibattito onesto, mi piaccia o non mi piaccia una cosa, ma questa Biennale non è all’altezza delle altre. Qui è l’asilo infantile! Allora che vadano a scuola, che imparino, che abbiano rispetto di questa bella città che è Venezia, dell’Italia, del denaro pubblico, dell’Arte… L’Arte lì non c’era proprio. A certi giovani consiglio di andare da un’altra parte. Sono entrate nel mondo dell’arte altre componenti come la pubblicità. Tutto può essere meraviglioso, però a Venezia c’è una forma di insipienza, di incapacità, di occupazione del territorio e di malafede che è totale. Ma non voglio essere un loro pari. Ho sessant’anni e desidero che la mia vita venga spesa meglio.

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 114, ottobre-novembre 2003, pp. 28-35]