Testimonianze Astratte

Nell’ “anno di Licini” mi è sembrato giusto raccogliere le testimonianze dirette di due protagonisti delle avanguardie storiche che agirono con il pittore di Monte Vidon Corrado nel contesto in cui negli anni Trenta si sviluppò l’astrattismo lombardo: Luigi Veronesi, artista geometrico tra i più puri, che ha operato con vari linguaggi, e Bruno Munari, geniale sperimentatore interdisciplinare. Tutti e tre, anche se da posizioni diverse, lottarono con decisione contro il novecentismo per promuovere un’arte nuova.Le interviste che seguono sono la prosecuzione dei miei dialoghi con Veronesi e Munari, pubblicati recentemente dalla “Cauda Pavonis” nei “quaderni” della collana “Viaggi nell’arte”.È il caso di ricordare che i due maestri sono gli ultimi testimoni di quella situazione, ancora attivi e combattivi come allora, anche se oggi l’arte astratta non incontra più le resistenze di una volta. 

 

- Veronesi, l’Astrattismo cresciuto intorno alla Galleria del Milione, visto con gli occhi di oggi, ti appare un movimento rivoluzionario per l’arte italiana nel periodo in cui imperava il Novecento o divulgativo delle esperienze analoghe che si andavano affermando a livello europeo? 

 

Serviva come shock nell’ambito dell’arte italiana che in quel momento era costretta a seguire un falso classicismo. Noi cercavamo di rivoluzionare il pensiero artistico per portarlo su un piano europeo. 

 

- È stato un movimento di rinnovamento che ha accelerato il processo evolutivo della nostra cultura? 

 

Noi abbiamo lavorato in quella direzione, ma al di fuori non ci seguiva nessuno, anzi li avevamo tutti contro. 

 

- Tu eri contrario allo spiritualismo condiviso da Osvaldo Licini; hai sempre operato per un ‘ordine nuovo’ seguendo la ragione e scartando anche la sola evocazione della realtà naturale, mentre Licini aveva ten­denze visionarie che, più tardi, lo avrebbero portato sulle vie del surre­ale. Eravate su posizioni molto diverse o percorrevate strade parallele? 

 

Non eravamo su posizioni molto diverse e, direi, neanche su strade pa­rallele: erano strade abbastanza divergenti, in quanto in Licini c’era un sottofondo romantico dal quale ero lontano. Io seguivo soltanto la ragion pura; ero e sono ancora un razionale e un pitagorico; venivo dai costruttivi­sti russi più ancora che da quelli olandesi. 

 

- Negli anni eroici del Movimento gli sconfinamenti di Licini, per i più ri­gorosi, potevano rappresentare un tradimento dei principi di base dell’Astrattismo? 

 

Non parlerei di sconfinamenti, perché ognuno di noi percorreva la propria strada. Io sostengo che è un errore chiamare gruppo quello del Milione, perché un gruppo ha delle direttive e delle finalità piuttosto omogenee. Tutti rifiutavano la rappresentazione della realtà, ma ciascuno inten­deva l’astrazione in modo diverso. 

 

- Avevi già intuito che egli avrebbe dato più ascolto alla ‘sua’ voce inte­riore ricorrendo all’immagine-simbolo? 

 

Licini interrogava molto il suo mondo interiore, ma non è che io facessi altrimenti... Le mie sollecitazioni interne erano completamente diverse dalle sue. Io seguivo la regola di Pitagora che dice: “In ogni cosa metti davanti la ragione”. 

 

- Ci fu un contrasto tra le teorie razionalistiche del Milione e le idee di Licini sull’irrazionalità dell’arte o fu un’occasione per sviluppare un di­battito costruttivo? 

 

Fu un confronto positivo. Gino Ghiringhelli, che dirigeva il “Milione”, era un pittore sensibile e intelligente e aveva capito che il gruppo poteva vi­vere anche nelle grandi differenze dei suoi componenti. 

 

- Senza voler togliere nulla al messaggio poetico di Licini, per te l’artista piceno, con la sua continua e inquietante ricerca, riuscì mai a innovare l’arte e a trovarsi? 

 

Se facciamo un confronto con Morandi, vediamo che Licini ha rinnovato parecchio, anche se non è mai riuscito a rompere totalmente il legame con una certa realtà. 

 

- Secondo me, l’adesione di Licini all’Astrattismo fu soprattutto un im­portante momento di transizione per passare dal reale all’immaginario e per compiere un’operazione di sottrazione. In sostanza egli puntava all’essenziale, ma, come ha dimostrato con le scelte successive, non si sentiva di rinunciare fino in fondo alla figurazione, forse perché, avendo una forte vocazione poetica, avvertiva l’esigenza di rappresentare, in maniera  meno asettica, i sentimenti e di dare sfogo alla sua fantasia. Sei d’accordo? 

 

Sì, anche se devo dire che i quadri più astratti di Licini, quelli che tu consideri del periodo di transizione, avevano, a mio modo di vedere, un contenuto lirico altissimo; talmente alto che lo stesso risultato non è stato raggiunto con le opere surrealiste degli ultimi anni. 

 

- Come fu vista dagli altri la sua adesione al gruppo del Milione? 

 

Dico per la prima volta, con chiarezza, la verità: con gli amici del gruppo (Fontana, Melotti, Soldati e gli altri) parlavo raramente di arte. Non mi consideravano un pittore al pari di loro, perché ero più giovane di una decina di anni e non avevo frequentato l’accademia. Io, poi, fin da allora facevo una pittura basata sulla razionalità in cui era escluso an­che il minimo richiamo alla realtà. Nella loro, invece, c’erano ancora dei residui figurativi, anche se geometrizzati, e ciò li irritava. L’unico sul mio piano era Rho, ma morì presto. Quindi, dell’arrivo di Licini non ho mai parlato. 

 

- Munari, attraversando con la sperimentazione più correnti artistiche tra cui l’Astrattismo, hai saputo trovare precocemente la tua individualità. In breve, cosa ti univa ad esso e cosa ti allontanava? 

 

Mi univa il fatto della ricerca e mi allontanava il “Lombardismo”, la provincia, il ripetere dei modelli invece di andare avanti. 

 

- Delle analoghe esperienze di quegli anni cosa ti interessava? 

 

Tutto. Ancora oggi mi interessa conoscere le varie innovazioni per poterle assimilare e sperimentare. 

 

- Che ricordo hai di Licini? 

 

Non l’ho conosciuto. Ho un suo ricordo come artista e mi interessa molto. Mi pare sia genuino. 

 

- Ti sembrava un astrattismo convinto? 

 

Sì, penso di sì. Naturalmente questa convinzione non è perpetua. ‘Convinto’ finché operava in quella direzione, poi, quando ha avuto un’idea diversa, è stato altrettanto convinto di essa. 

 

- Per te, quella del pittore-poeta marchigiano, era più una trasgressione per distaccarsi dalla tradizione o nomadismo per trovare se stesso? 

 

Non so... Ti dirò che a me non interessano le questioni private e locali, piuttosto i problemi generali, più oggettivi, validi un po’ per tutti. Se un artista ha mal di pancia, è un fatto suo che forse influenzerà anche la produzione, ma non credo che ciò possa riguardare la ricerca. 

 

- Ci sono state delle tangenze tra te e Licini? 

 

No, ...mi pare di no. 

 

- D’accordo, tra l’Astrattismo e il secondo futurismo, da cui tu avevi preso le mosse, c’erano più divergenze che assonanze, ma qualcosa in comune con Licini c’è stato. Penso alla vitalità e allo spirito futurista... che animavano le vostre ricerche. 

 

Questo sì. 

 

- Per te che hai portato la dimensione creativa anche nella vita, “l’arte è” o “non è” quella di Carlo Belli? 

 

Indubbiamente, “l’arte è”. Se non è, “non è”, stando al gioco di parole. 

 

- Così era anche per Licini che rivendicava l’autonomia della pittura, ma senza mai prescindere dalla vita... 

 

A conclusione di questa breve conversazione su Licini, io aggiungerei che le ansie culturali e spirituali, il bisogno di trovare stimoli visivi, lo spingevano a esplorare anche i territori linguistici di altri artisti più vicini alla sua sensibilità. In lui c’era la preoccupazione di fare propria la citazione e, a un tempo, la continua ricerca di un modo originale che lo aiutasse a dire meglio, ricorrendo alle sue capacità disegnative e pittoriche. Ma oltre la cultura europea, da cui aveva attinto con umiltà specialmente negli anni della formazione, seguiva gli impulsi che gli venivano dallo spirito libero e dal furore creativo, dalla ricerca poetica e dalle motivazioni esistenziali. In questo senso Licini ha vissuto un’esperienza senz’altro felice negli esiti, ma drammatica e densa di tensioni per potersi esprimere con la massima “intensità sintetica”, per cercare di sondare le forze misteriose che avvolgono la vita dell’uomo e di raggiungere un’armonica fusione tra dimensione terrena e cosmica.Egli, senza dubbio, occupa ormai un suo posto nella storia dell’arte, anche se, nonostante i doverosi omaggi tributatigli, viene ancora visto con un’ottica provinciale e non si riescono a sciogliere quei nodi che ne condizionano la piena valorizzazione. Al di là del mito che si è creato intorno all’uomo-artista, la sua opera è ancora alla ricerca di maggiori riconoscimenti e io credo che dovrebbero essere perseguiti anche attraverso una più approfondita e attualizzata lettura del suo messaggio. 

 

Milano, novembre 1988 

 

A cura di Luciano Marucci 

 

[«DANGER ART» (Ascoli Piceno), n. 1-2, aprile 1989, pp. 40-43. Omessi i ritratti fotografici e la riproduzione delle opere dei tre artisti]