ATTUALITA' DI MAGRITTE

La mostra di Verona “Da Magritte a Magritte”, riportando l’attenzione sul grande artista belga nell’anno del revival surrealista, ha evidenziato, anche se non sempre a proposito, gli influssi della sua pittura anomala su molti artisti ad iniziare dagli anni Sessanta, da quando, cioè, si cominciò a capire il genio magrittiano. Al riguardo, è doveroso precisare che le pur innegabili influenze di Magritte sulla Pop-art, non furono da lui mai omologate. Anzi, come dimostrano alcune sue dichiarazioni, disapprovava gli artisti della tendenza con l’intransigenza di chi aveva definito la sua originale poetica con grande lucidità e non si lasciava distrarre neanche dalle lusinghe di quanti gli attribuivano meriti. Già nel n.12 dell’agosto 1964 di “Retorique” (pubblicazione non commerciale edita dal poeta belga, amico di Mag, André Bosmans), l’artista motivava il suo giudizio negativo sulla Pop-art di cui rifiutava, appunto, la paternità. Inoltre, in una lettera in francese del 7 gennaio 1967 (anno della sua morte), a me indirizzata, fino ad ora rimasta inedita, riferendosi proprio al testo di un critico che metteva in evidenza le sue “anticipazioni” pop-artistiche, tra l’altro, puntualizzava: “...Non si deve confondere la “stupidità” con l’apparenza delle cose che ci circondano. L’apparenza offerta da una nuvola, un albero o un’altra figura non è “stupida”. Questa apparenza non è da disdegnare a vantaggio delle “interpretazioni” che gli artisti-pittori si sforzano di dare. In questa occasione, è la stupidità e la noia che procurano le pitture: esse sono tutte talmente indifferenti le une alle altre. Non è l’apparenza del mondo che è stupida, è ciò che gli “artisti”, quelli della Pop-art per esempio, ne fanno. È miserabile e conviene perfettamente “ai tempi presenti”. Io non desidero essere “del mio tempo”. Io lascio ciò alle persone che si interessano all’attualità come se non ci fosse una visione del mondo che ad essa sia superiore...“.

Come si vede, una precisazione non soltanto pedante, ma appassionata, espressa con tono risentito e didattico, per evitare di essere frainteso e accomunato ad un movimento artistico che non gli apparteneva, nel momento in cui prendevano piede questi apparentamenti che, tutto sommato, sminuivano la portata del suo lavoro. A riprova della sua meticolosità e coerenza ideologica, posso dire che perfino le pubblicazioni di filosofia e di letteratura, che ebbi il privilegio di scoprire nella sua libreria, recavano annotazioni a margine con i “suoi” punti di vista a confronto con quelli degli autorevoli autori che, in qualche modo, “interferivano” col suo ideale artistico.

Quanto al comprensibile interesse che gli operatori dell’area concettuale hanno avuto fin dagli esordi per il suo metodo analitico e la tautologia, la dialettica tra oggetto, immagine dipinta e parola scritta (“Ceci n’est  pas une pipe”), sono certo che un artista così fedele alle sue scelte non si sarebbe compiaciuto neppure di questo, anche se certe loro caratteristiche mentali lo avrebbero potuto incuriosire.

Un altro aspetto non convenzionale di Magritte che dovrebbe piacere ai sostenitori dell’ “arte per tutti”, è dato dalla “riproducibilità” delle sue opere che nega la privatizzazione dell’originale e il feticismo. I pubblicitari lo citano ovunque grazie alla sua figurazione altamente comunicativa e scioccante... (Ricordo le preoccupazioni di Georgette che, subito dopo la scomparsa del marito, non riuscendo a gestire la situazione ereditata con la sola arma della gentilezza, si era rivolta inutilmente ad un avvocato per cercare di frenare gli editori che sfruttavano l’immagine... di Magritte).

Sull’appartenenza dell’artista al Surrealismo ortodosso e sull’artificioso confronto con la metafisica di De Chirico, di cui si è parlato in occasione della predetta esposizione, va ricordato che egli era in aperta polemica anche con Breton, perché non si considerava un pittore “onirico”. Del resto, guardando le sue opere, non ci vuole molto per rendersi conto che egli ha sviluppato un discorso personale, più “freddo”, con l’uso di un linguaggio pittorico modernissimo, di tipo duchampiano, avvalendosi di una immagine dal taglio fotografico e del trompe-l’oeil per intrappolare lo sguardo. Lo spaesamento è ottenuto con combinazioni sensazionali di oggetti familiari decontestualizzati (fino a perdere la funzione conosciuta e ad essere caricati di significati misteriosi) e non con i mostri che nascono dal sogno, dall’automatismo psichico, come in Masson, Dalì e Savinio, per fare solo qualche nome. Esso, semmai, deriva dal non-senso di una realtà piena di contraddizioni, dalle verità e dalle “invenzioni” del pensiero visualizzato ed è rafforzato con i titoli mai rassicuranti. Se ne serviva per entrare nella totalità dell’universo e nella magia dell’esistenza, chiamando l’osservatore a “risolvere” il giallo degli enigmi che proponeva in maniera giocosa, catturante. In lui, poi, non c’era la distanza dal presente come in De Chirico che, per “rappresentare” i silenzi del mistero, si rivolgeva alla mitologia. Gli bastava una mela (rilevata dal quotidiano, col pennello, come ready-made, senza dare importanza alla manualità e alla qualità) messa sul volto di un uomo o accanto ad una casa per penetrare nel labirinto di quel “mistero di cui c’è necessità per far esistere il reale”. Magritte intendeva superare l’arte stereotipata della tradizione e quella moderna - contestando, ad oltranza, il codice visivo acquisito e rompendo i nessi culturali (ab)usati per interpretare un’opera del passato - non per stupirci con trovate più o meno spiazzanti, ma per impostare - in modo non romantico, antinaturalistico, antiborghese e programmatico - i problemi del mondo. Tutto ciò scartando la pura contemplazione e senza compiere atti autoritari per fornire soluzioni. Pur avendo trovato pienamente la sua strada dopo essere rimasto folgorato dal “Canto d’amore” di De Chirico, era riuscito ad andare oltre la staticità museale e archeologica, con un prodotto più sensibile, più mentale e ironico e, quindi, più vicino al nostro gusto. In sostanza, ha saputo fare antipittura concettualizzando un medium che aveva già dato il meglio di sé, operando con spirito sperimentale, fino ad indicare vie diverse per la sopravvivenza dell’arte.

Se si volessero riconoscere al complesso artista non-pittore altre “qualità moderne”, si potrebbe anche parlare di una sua, non dichiarata, anticipazione dell’Arte comportamentale. Penso ad alcune “azioni giocose” - documentate dalle foto degli anni giovanili - dove l’uomo Magritte, pur considerando quei momenti (artisticamente non finalizzati...) diversivi della sua esistenza poetica e creativa, entra in relazione con l’opera dipinta, simulandola e integrandola. Queste operazioni in cui l’autore “incarna” l’opera che viene s-doppiata, diventano, invece, più intenzionali e calibrate nelle “performances” degli ultimi anni, immortalate anche da fotografi famosi che hanno saputo mettere in risalto la relazione tra il pittore in carne ed ossa e la sua opera, il reale e l’immaginario, il gioco dentro-fuori il quadro. Tali associazioni e compenetrazioni, se non altro, rimandano all’osmosi arte-vita a cui egli tendeva per un ampliamento dei confini dell’opera. In realtà, questa intenzione di far uscire il “soggetto” dipinto dalla cornice per farlo ri-vivere come attore nella scena della vita attraverso l’ideatore, si ritrova pure nelle “opere oggettuali-seriali” (che ebbe modo di realizzare solo negli ultimi anni), aggiungendo un’altra dimensione alla sua prolifica e multiforme produzione. Ma anche queste forzature (non del tutto arbitrarie) non gli avrebbero fatto piacere, perché Magritte e la sua opera si s-compongono, con sapiente disinvoltura, come in un gioco di specchi in cui si riflettono le immagini finte e vere.

In ogni caso, la modernità del suo pensiero forse è espressa, più che altrove, da poche parole, passate inosservate, da lui pronunciate nel 1966: “...Non cambierebbe nulla per me se tutti i miei quadri venissero distrutti. La vita continua...”. Con questa dichiarazione di “superiorità” verso l’arte, che rientra  in pieno nella sua filosofia, l’artista è andato anche oltre il mito della sua opera...

A parte questo commento un po’ estremista, ancora oggi, ogni suo quadro che si vede riprodotto per la prima volta (comprese le varianti di un’opera già nota), anche se rientra sempre nella strategia del paradosso inquietante, sa dare un’emozione nuova. E dire che non sono state ancora divulgate molte opere custodite, gelosamente, per lo più dai suoi amici che le avevano avute in dono! Mi vengono in mente quelle su carta che vidi a Bruxelles, in casa del poeta surrealista Scoutenaire, una volta che io e mia moglie fummo ospiti dei Magritte: composizioni con “deformazioni” grottesche ed erotiche realizzate con quello spirito amorale che gli consentiva la massima libertà espressiva.

Al di là dei capolavori che ci ha lasciato e delle indicazioni innovative date al contesto contemporaneo, Magritte è stato un personaggio astorico, salutare per l’uomo di oggi, incapace di reagire adeguatamente ad una civiltà che crea falsi bisogni, occulta le verità più profonde e blocca l’immaginazione.

Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 57, aprile-maggio 1992, p. 62]