GIANNI DESSĖ |
Nel tuo caso, la scelta di operare nello specifico pittorico - che oggi appare irreversibile, in quanto funzionale al tuo discorso - rappresenta un voluto ritorno ai canoni tradizionali come alternativa alle altre esperienze più spregiudicate? È anche un’opzione critica? Per me, scegliere di usare la pittura è aderire ad un ordine di pensiero. Quindi, non ho un’altra possibilità. È il mezzo più idoneo, malleabile per dire tutto quello che sento. Può essere il centro dell’arte (che non è solamente un discorso di rispetto verso la storia dell’arte), perché è unita di più all’umano e, quindi, all’idea di soggettività, di sensibilità, di altre cose che rendono la pittura più direttamente legata ad una esperienza difficilmente trasferibile in un altro medium. Tutta questa specificità fa sì che la pittura sia un luogo completamente a sé. La sua permeabilità è l’unico modo di percorrere il mondo e di testimoniarlo. Capisco che lo si può fare anche attraverso la fotografia, la televisione, il computer e tutto quello che vuoi, ma io trovo fantastica la possibilità della pittura di realizzare una sintesi generale di intelligenza, cuore, anima, erotismo. Questo, se vuoi, è un discorso secondo a una voglia di fare, di dire, di testimoniare. C’è il fatto di rivendicare una necessità a un modo di essere, di pensare, di agire e allora, naturalmente, forse c’è anche un intento un po’ polemico. Non è una cosa che nasce per contrasto o reazione, ma per necessità; una necessità interiore, o più semplicemente per la voglia di sporcarsi le mani. Trovo che la pittura abbia una capacità intellettuale più forte di aderire al mondo e alla realtà che non usare un oggetto, per esempio, della stessa realtà. In altre parole, la rete che la pittura riesce a tessere può catturare il mondo più di ogni altro mezzo. Il mio non vuole essere un discorso polemico sulle priorità; è una magia, un incanto che io difendo, proteggo e manifesto ogni volta che lavoro. È anche una parzialità, ma l’arte è fatta di parzialità assolute ed è giusto che sia così.
Bisogna capire che cosa si intende per pittura. Per me, come ti dicevo, è un ordine di pensiero, un linguaggio che non ha un codice, nel senso che non c’è una grammatica da applicare. È una cosa che ha molto in comune con il fare, con l’aspetto misterioso di mettersi lì e sporcarsi le mani con la realtà del mondo, con i suoi colori e questo mi fa vibrare.
Ecco, hai detto bene. Entrare a far corpo. È tutto lì, è quel rendere manifesto, dare una sostanza, un luogo al proprio punto di vista, in quanto le altre dimensioni del quadro sono sempre e comunque riferite ad esso. Mi piace l’idea di uno spazio ritagliato al mondo, separato ma tangente ed anche perciò uso i suoi materiali sino ad arrivare al muro dove poggia e al chiodo dove è appeso.
È qualcosa che ha a che fare con il sentire, l’interrogarsi per cercare di capire a 360° con un coinvolgimento totale, tentando una vista d’insieme e con una densità che solo la pittura riesce a dare con semplicità, senza retorica come può fare un colore che si stende là quasi per caso. E allora sembra niente ma invece c’è molto.
La pittura è un’attitudine, in sé è niente, tutti i codici costruiti sopra ad essa non la rappresentano. La pittura è un istinto, un’invenzione degli artisti, in sé è solamente il materiale che compri dal coloraio. Diventa qualcosa di diverso quando parla e parlando figura un ambito. È questo approccio che intendo testimoniare, che sento importante e vitale e senza del quale credo che il mondo sarebbe più povero. Allora, forse...
Il mio lavoro non ha narrazioni da offrire e quindi si risolve nel proprio essere in sé. È come costituire una realtà, una presenza.
La storia è ciò che siamo, ci piaccia o no. Non la vedo come qualcosa di esterno, non capisco neanche come si possa percorrerla andando di qua e di là prendendone poi dei souvenirs. Noi siamo l’anello tra il prima e il dopo; in questo senso non si può che essere nel mezzo e io il mio mezzo, se mi si passa il gioco di parole, l’ho scelto ed è la pittura, appunto, intendendola quasi come una categoria generale.
Ho chiamato un lavoro “Mani in pasta”, primo perché la sorte mi ha portato ad avere lo studio in un vecchio pastificio e poi perché ricordavo che un gioco da bambini, che facevo con mia sorella, era osservare mia madre fare la pasta. Quelle mani che affondavano nell’impasto e lo pigiavano, pressavano facendogli cambiare continuamente forma, ci affascinava. E l’artista è là, nella capacità di far prendere forma, lievitare e la manualità è questo entrare in contatto anche molto materialmente con la cosa.
È una suggestione oppure qualcosa che un’altra opera ti suggerisce; qualcosa che avevi lasciato da parte durante il lavoro su un’altra opera. Comunque, quell’irrisolto che nell’esperienza ti si presenta ogni volta, quel modo ulteriore che ti sembra poter stringere...
Per me è come un insegnamento. Cerco di afferrarla, ma è quasi più importante lo slancio che il sapere di arrivare ad un risultato. Questo forse ha molto a che fare con l’idea di sublime. C’è bisogno di misurarsi con una altezza, per cui l’immagine, per me, è come catturare l’anelito, il luogo del senso. Non so dirti qual è la mia iconografia anche se poi guardando all’intero ciclo del mio lavoro, comincia a delinearsi una costante.
Sì, anche se io sto bene attento a mettermi sempre i bastoni tra le ruote, a non permettere che le cose arrivino con troppa facilità. Ritornano, quasi mio e loro malgrado.
Diventano complemento di essa. La poetica viene prima dell’opera singola che ha una vita propria, anzi la cosa principale è proprio misurare il distacco, il rilancio tra me e l’opera, lo spazio di non controllabilità, il salto, l’approdo importante che non avevo calcolato. Esso testimonia l’ardimento, se ardimento c’è stato. Diversamente, sarebbe un pianificare piatto. Nella creazione artistica non è mai così: si sa da dove si parte e non dove si arriva e lo stile è ciò che resta nonostante tutto.
Scherzando, ho sempre detto che con i pittori astratti mi sento molto figurativo e con i pittori figurativi mi sento molto astratto. In realtà, sto in un territorio di mezzo e non mi pongo il problema. Io certe volte uso, anche in maniera spudorata, entrambe le possibilità. Di certa astrazione non amo la freddezza perché penso all’arte come a un organismo che deve avere un certo calore, una certa pelle, una qualità. Tutte cose che non hanno a che fare con una immagine della mente in cui predominano le linee tracciate con la riga o col compasso. Riesco solo a pensare attraverso cose anche molto semplici, ma, appunto, legate all’organicità.
Mediante la sensibilità che non reprimo, il movimento delle mani, cercando anche di dare all’immagine quell’essenzialità che, a volte, è l’opposto del ben finito, distante dall’idea di manufatto, perché esso spesso contiene una idea oggettuale di cosa ben fatta che deve essere rifinita. Tutto il procedimento, la messa in opera alla fine serve a dare permeabilità. Io penso alla pittura come a una grande trama composta di tanti fili che ha la capacità di reggere e di contenere il mondo di cui è la ragione d’essere, per questo io cerco di amplificare l’immagine, di non darne mai una univoca, ma di giocare anche con l’ambiguità delle forme. Mi piacciono la rifrazione, la possibilità di avere un tempo molto lungo di consumazione dell’immagine in cui le cose non sono del tutto chiare che è l’opposto di quello che vogliono gli americani per i quali l’opera deve dire tutto e subito.
Non voglio celebrare né spiegare, io faccio e non posso fare altrimenti. La pittura allora è uno specchio in cui mi perdo e mi confondo, ma dove anche ritrovo tutti. Per me l’arte più significativa si è sempre mossa per conquistare un piano di volta in volta nuovo del reale e anche io non mi sottraggo a quest’impegno. Vorrei anche aggiungere che realtà è una parola con un’accezione molto più vasta che società: termine che oggi è ritornato molto nelle cronache dell’arte. Costringere l’arte all’esplorazione della società e basta significa accontentarsi di poco, abbracciare uno sguardo superficiale e impoverire un tessuto che deve poter sposare la complessità, è allora che il processo di simbolizzazione si fa più arduo e le sue radici divengono più lunghe arrivando al fondo della storia e la cronaca giustamente non trova spazio. Allora forse è giusto parlare di un’attenzione religiosa nel senso etimologico della parola, del collegare, del costruire e qui per me c’è la mia pittura.
Anche.
Il noi.
Come ti dicevo, io non ho scelta, non so se sono eccentrico oppure discreto o altro e non mi interessa neppure saperlo; è l’opera che crea il suo fruitore e viceversa.
La storia è andata così... Il caso ha voluto, ma è un caso in parte cercato e desiderato, che si sia stabilito uno stretto dialogo con altri artisti, iniziato anche prima dell’incontro a San Lorenzo, perché io ho avuto il mio primo studio con Domenico Bianchi e successivamente con Ceccobelli e poi ancora con Roberto Pace a Trastevere. Abbiamo lavorato insieme per quattro o cinque anni, poi, ci siamo trasferiti qui. Il rapporto con Giuseppe Gallo è cominciato in quello stesso periodo, per cui mi sono formato intorno ad altre presenze stimolanti e credo che anch’io, in qualche modo, ho stimolato gli altri con la mia presenza. È stato un fatto molto semplice e naturale, certamente interessante, ed io ne ho tratto tutti i benefici che ho potuto. Siamo cresciuti, com’è naturale, un po’ l’uno sull’altro. San Lorenzo, poi è diventata un’altra situazione. Si è ancora di più ampliata con l’entrata di altri artisti.
Evidentemente c’è stato anche questo. Noi abbiamo cominciato ad esporre nel momento in cui la Transavanguardia iniziava ed era presente in tutte le mostre con il suo repertorio di forme, colori, immagini. Quindi, per qualche anno, per me, è stato necessario restringere la gamma dei colori, puntare più sulla sobrietà d’impianto quasi per una reazione, un bisogno di concentrazione maggiore che poi, fino ad oggi, è la cosa che è andata sempre più crescendo. Tra l’altro, io dopo un po’ ho avvertito il peso degli elementi di cui parli tu, per cui ora mi sento molto più aperto e sensibile a delle cromie diverse che non sono quelle dello scuro, d’un certo fondo, del soggetto tendente solo al bianco. Mi pare di aver messo in gioco altre cose.
All’inizio abbiamo cercato di lavorare con le stesse gallerie: prima con Ugo Ferranti, poi con Sperone. Insomma, abbiamo costruito, un po’ per la necessità di crescita e di proteggerci, un’idea di lavoro che andavamo maturando, per cui è stato necessario stabilire tra noi un collegamento stretto che, ripeto, è nato con estrema semplicità, senza grandi sforzi.
Non lo so. Ormai è nell’uso di ricondurci un po’ a una storia, metterci in prospettiva perché ci sono dietro degli anni di lavoro. Ogni volta che c’è una recensione si parte da... Diventa quasi inevitabile, ma l’essenziale per noi è di conservare l’idea che in ogni lavoro è come se si prendesse per la prima volta il toro per le corna, perché altrimenti rischi di appesantirti. Io non gradisco un rapporto piano con le cose, cerco di movimentarlo, di insinuare dubbi, per cui all’interno del mio organismo, anche se possono essere previste le ulcere, spero che la serenità del lavoro sia un risultato che gli altri possono godere, ma di cui io invece devo patire. [...] A cura di Luciano Marucci [«Juliet » (Trieste), n. 69, ottobre-novembre 1994, pp. 36-37] |