“ARTE / MODA”. NOGATO IWASAKI & YOHJI YAMAMOTO

Se l'obiettivo della Biennale di Firenze era quello di creare un

incontro/scontro tra il linguaggio dell'arte e quello della moda, è stato raggiunto... Era inevitabile che gli stilisti, per vocazione formalisti ed estroversi, prendessero il sopravvento sull'arte pura, solitamente più sublimante, riservata ed elitaria, pure se non sono mancate le differenziazioni. Ci sono stati casi di dichiarata spettacolarità come quello di Emilio Pucci a Palazzo Pitti, ma anche di integrazione con l'esistente (Dolce e Gabbana al Museo di Antropologia, Gaultier a quello Zoologico), di fashion designers (in “New Persona / New Universe”) che hanno scelto di simulare l'opera d'arte (vedi Armani e Missoni) o di non interferire (Calvin Klein - Donald Judd); esperienze di connubio spesso infelice (nei padiglioni di Forte Belvedere), oppure di associazione costruttiva (Yamamoto-Iwasaki). Sostanzialmente indipendente “Habitus, Abito, Abitare - Progetto Arte”, attuato al “Pecci” di Prato dal direttore Corà e da Pistoletto, che continuerà a svilupparsi nell'ambiente urbano sui grandi temi della relazione umana nel rispetto dell'idea di museo-territorio. In questo contesto non sono mancati interventi autorevoli di operatori visuali che hanno tentato di riequilibrare il rapporto tra i due ambiti: da Jenny Holzer (con i suoi tre coinvolgenti interventi) a Bowie, a Penone. Quasi tutti, però, grazie alla formula, agli spazi e ai mezzi a disposizione, si sono ritrovati in passerella, accomunati in una sorta di gigantismo all'americana. Così, in un certo senso, l' opera più sincera di questo teatro delle vanità è risultata “Metamorphosis” di Elton John con i suoi abiti di scena realmente vissuti.

Una cosa è certa: la tematica voluta da Celant, Settembrini e Sischy per creare a Firenze (città-museo e dell'antiquariato, rimasta lungamente assente dall'arte contemporanea) un big event, ha avuto un effetto dirompente facendo divampare le polemiche, da una parte per difendere l'autonomia dell'espressione artistica e la sacralità dei musei; dall'altra per legittimare l'assunto al fine di valorizzare l'inventiva di certi stilisti e provare l'utilità delle contaminazioni e degli sconfinamenti disciplinari. Proprio su queste problematiche abbiamo voluto conoscere il pensiero dell'artista giapponese Nogato Iwasaki, fino ad ora abbastanza inedito per l'Occidente.

 

Che significato acquista per lei questa Biennale incentrata sul rapporto Arte-Moda?

Fino ad ora avevo lavorato unicamente per l'arte. Per la prima volta ho avuto rapporti con uno stilista e la cosa non mi è dispiaciuta. Posto in relazione con la moda, ho considerato i vestiti come se fossero un materiale da scolpire e li ho disposti sul pavimento esattamente come voleva Yamamoto.

 

Qual è il suo punto di vista sull'autonomia dell'arte rispetto alle contaminazioni con ambiti decisamente spettacolari?

Il vestito non è solo contaminazione. È qualcosa che l'essere umano porta, per cui può diventare arte unicamente sul corpo, anche se di per sé non lo è. Chi lo indossa gli dà la forza della sua personalità. Ecco perché arte e moda si possono combinare. Per il modo con cui disegna le collezioni, ho sentito che Yamamoto voleva mandare un messaggio di tipo spirituale. Quindi, non mi sono sentito assolutamente a disagio, non mi ha dato alcun fastidio. Yamamoto non vuole dimostrare che il vestito è arte. A lui interessa il lato umano dell'oggetto che diventa ancora più interessante quando è usato, vecchio.

 

È lecito che la moda entri nel museo?

Secondo me, con la combinazione stabilita a Firenze, la moda fa da ponte tra la gente e l'arte. È un abbinamento tra due settori diversi che può funzionare.

 

Ma l'alta moda presente alla Biennale resta pur sempre un fatto mondano...

Per certe persone la moda è innanzitutto un linguaggio che trasmette un messaggio. Anche i più poveri si interessano ad essa. Il guardarla diventa una gioia. Si può incominciare dal piacere di guardare un gioiello per poi andare a vedere la Gioconda. La moda ha una valenza trainante.

 

I suoi personaggi, immessi in questo luogo reale e immaginario, su cosa si interrogano...?

Si pongono domande molto profonde a cui non si può rispondere in poche parole...

 

Per la verità, quelle inquietanti presenze dis-umane, costruite con frammenti di alberi consunti dal tempo, vaganti nello spazio dell'in-civiltà contemporanea come arcaici fantasmi; quelle vesti informi abbandonate dai loro corpi sul pavimento così da essere anche calpestate, non formano solo un'installazione scenograficamente avvincente. Dall'insolita collaborazione tra lo stilista Yamamoto, che ha intelligentemente rinunciato a sfarzose tentazioni, e l'artista Iwasaki, che ha nobilitato la pratica artigianale, è nata un'opera composita, fortemente evocativa e drammatica.

Questo prova che, se il dialogo tra esseri diversi è autentico e geniale, il risultato può essere positivo, ma anche che l'Arte (quella che merita di essere conservata nei musei) non deve farsi distrarre più di tanto dalle avvenenze della Moda fatta per abitare le vetrine.

 

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 80, dicembre 1996-gennaio 1997, p. 53]