RICORDO DI UN MAESTRO DI CREATIVITA' |
Alla soglia dei novantun anni Bruno Munari ci ha lasciato: una lunga vita all’insegna della creatività e della ricerca. Alle sue scoperte era giunto da una sintesi tra intuizione e analisi, seguendo un metodo progettuale che combinava armonicamente classicità e linguaggio moderno. La sua multiforme produzione aveva preso l’avvio da una vocazione di eclettico che lo portava a coniugare geometria-gesto-fantasia, poesia-ironia-natura-artificio. Accanto ad oggetti di quotidiana utilità - caratterizzati da economia costruttiva, eleganza, minimalismo e praticità - per bilanciare la ‘compostezza’ dell’arte applicata, aveva realizzato opere a funzione esclusivamente estetica: Macchine inutili, Fontane mobili, Forchette parlanti, Fossili del 2000, Libri illeggibili, Sculture da viaggio, Concavo convesso, Simmetrico asimmetrico, Alta tensione... Soleva dire: “Cerco soprattutto di evitare l’accademia. Ci sono artisti che vivono tutta la loro vita su una sola idea. Io voglio conoscere il più possibile, capire un’infinità di cose che mi permettono di produrne altre”. Quasi per giustificare l’essenzialità a cui arrivava con naturalezza, puntualizzava che “complicare è facile, semplificare è difficile”. Il suo lavoro era legato all’osservazione e all’esperienza per scoprire il senso o il nonsenso all’interno delle cose. L’albero per lui era “l’esplosione lentissima di un seme”; e da lì partiva per individuare le costanti della ramificazione e la diversità delle nervature delle foglie, traendo insegnamenti per sé e per gli altri. Incorreggibile sperimentatore di stampo rinascimentale, aveva portato avanti la lezione del Bauhaus, da cui proveniva la sua formazione razionale e interdisciplinare, introducendovi la dimensione psicologica e ironica per rendere più leggera e godibile l’opera, privata della sua staticità e seriosità. A 18 anni a Milano aveva iniziato a lavorare come grafico e si era ritrovato ad esporre con i futuristi. Dal 1945 aveva realizzato i prelibri e nel ‘48, con Dorfles, Monnet e Soldati, fondò il MAC. Nel ‘57 cominciò a collaborare con Danese per la produzione di oggetti di design. Negli anni ‘60 teorizzò e praticò l’Arte Programmata e l’opera aperta; pubblicò testi sull’arte, sull’industrial design (di cui in Italia può essere considerato il padre pur essendoci arrivato da autodidatta) e sull’educazione visiva per divulgare il suo metodo (certamente non convenzionale) di operare. Contemporaneamente organizzava ‘sorprendenti’ mostre personali e partecipava a collettive di rilievo. Fin da principio si era mosso verso esperienze dada-futuriste e astratte da cui non riuscì mai a distaccarsi completamente. Ma, attraverso la libera investigazione, era passato dalla rappresentazione delle cose all’uso delle stesse giungendo a stabilire un insolito legame costruttivo tra arte e vita. Si era dedicato alla grafica editoriale, ai giochi e giocattoli operativi, all’attività pubblicitaria, alla saggistica... Usando nuovi materiali e tecnologie, aveva prodotto i multipli, le Xerografie originali e così via. Negli anni, dunque, dal segno e dal colore, aveva esteso il suo lavoro in direzione dell’oggetto plurisensoriale e dell’azione sociale, facendo uscire dall’atelier e dalla galleria privata l’arte, nella convinzione che essa fosse un’attività pubblica, un servizio per la collettività. “Contrariamente all’affermazione di un famoso critico [Argan] che aveva detto che bisognava fare l’arte per tutti, io sono per un’arte di tutti “. Sulle potenzialità creative degli individui aveva le stesse idee di Beuys, ma egli le applicava costantemente nell’azione didattica sottraendo spazio all’opera intesa come pezzo unico da commercializzare. Rivolgendosi ai giovani operatori, consigliava “di essere sempre se stessi ricercando la propria personalità, di non lasciarsi influenzare dal mercato, di stabilire un rapporto pieno con la realtà esterna”. Era uno spirito proteiforme, indipendente, ludico, irriverente (verso l’opera come oggetto feticistico, le abitudini borghesi e i luoghi comuni), ma estremamente rigoroso. Molte erano le sue affinità con la filosofia giapponese. Dal pensiero Zen aveva assorbito alcune regole: “Una persona vale per quello che dà e non per quello che prende”; “La perfezione è bella ma stupida; bisogna conoscerla per romperla”; “Quando l’immagine è presente, è inutile che il pennello la finisca”. Rientravano in questa logica i progetti di opere delegabili, come ad esempio i Positivi-negativi, le dimostrazioni teorico-pratiche (vere e proprie performances educative) che, tra l’altro, evidenziavano la sua capacità di dialogare con le tendenze artistiche di punta, senza mai rinunciare al suo catturante linguaggio ironico-didattico. Aveva a cuore le sorti delle nuove generazioni e preoccupandosi che in esse non venisse meno la libertà di pensiero, si era impegnato in Italia e all’estero per impostare, fin dal ‘77, i Laboratori liberatori per la creatività individuale, “rivoluzionari per formare la società del futuro”. Famosi in Italia quelli di Brera a Milano; del Museo “Pecci” a Prato; di ceramica a Faenza; all’estero quelli di New York, Tokio, Rio de Janeiro. Nel corso di una delle ultime interviste, con la solita aria semiseria, mi aveva detto: “Io ho tenuto diversi incontri e conferenze a livello universitario, in scuole medie, alle elementari e adesso, finalmente, sono arrivato alla materna... I Laboratori sono la cosa più importante che ho fatto per la gente e, soprattutto, per i genitori che hanno un buon pensiero per i loro figli”. Aveva sempre operato con l’idea fissa di apprendere, inventare e insegnare agli altri come ‘guardare’ e come ‘fare’. Studioso dei problemi della percezione, trasmetteva volentieri le sue scoperte attraverso innate doti di performer e tecniche comunicative elementari. E sapeva mettersi sulla stessa lunghezza d’onda dei bambini con i quali, a volte, divideva perfino lo spazio espositivo. Dedicando molto tempo all’infanzia e, passando con disinvoltura da un genere all’altro senza sfruttare il successo commerciale delle ‘invenzioni’, evitava la mitizzazione dell’io a cui quasi tutti gli artisti non sanno rinunciare. Aveva ricevuto il premio della Japan Design Foundation “Per l’intenso valore umano del suo design”, il “Compasso d’oro” con una menzione onorevole dell’Accademia delle Scienze di New York, il “Premio Andersen” e il “Premio Lego” (Mi fanno piacere i riconoscimenti che vengono da varie parti del mondo, ma sono più sensibile a quelli delle persone semplici, dei bambini, dei genitori che sono contenti quando vedono che i loro figli sono creativi”). Era contro lo stereotipo e il cattivo gusto, quindi, faceva il possibile per cambiare la percezione del mondo. Si dichiarava pienamente soddisfatto del suo ‘mestiere’ (“...Per realizzarsi e non sentire le fatiche, bisogna cercare di far coincidere tempo di lavoro e tempo libero”), tanto che non pensava a fare soldi (“Quando si ha una lira in più di quello che serve per essere liberi, dovrebbe bastare; invece, il principio dell’avere è molto diffuso...”). Pure nelle analisi dei comportamenti sociali di cui sapeva cogliere gli aspetti ridicoli, mostrava di essere un acuto e saggio osservatore della realtà saggezza. Per la Einaudi aveva diretto collane di testi per bambini tutti improntati alla giocosità, trovandosi in piena sintonia con il suo amico Gianni Rodari del quale aveva illustrato i libri più famosi. Aveva continuato a ideare originali edizioni (libri e oggetti seriali) per Maurizio Corraini di Mantova, fino a quando la crudele malattia aveva preso il sopravvento. Del resto a lui la vecchia e la morte non facevano paura. Già avanti con gli anni, gli chiesi una riflessione sul tempo dell’esistenza: “Consiglio sempre di conservare lo spirito dell’infanzia fino agli ultimi giorni della vita, perché se si hanno la curiosità di conoscere e la voglia di fare, non c’è tempo per pensare alla vecchiaia. Il pensiero orientale dice: ‘L’eternità è adesso!’ “. È difficile classificare Munari. Egli stesso non sapeva definirsi. Dopo tante realizzazioni, si potrebbe affermare che è stato ‘quello’ che ha fatto tante cose diverse per praticare un’arte totale con l’intuizione d’artista, l’essenzialità del designer, l’analiticità dello psicologo, la versatilità dello scrittore e l’entusiasmo dell’adolescente, spendendo tutta la vita per migliorare la qualità di quella degli altri. Saremo in molti a ricordarlo come un dei più grandi maestri di creatività di questo secolo che ha vissuto da ragazzo prodigio, rimanendo sempre all’avanguardia. Luciano Marucci [«Juliet» (Trieste), n. 90, dicembre 1998-gennaio 1999, p. 68] |