MATTEO BASILÉ American Diary

Luciano Marucci: Caro Matteo, questa volta la distanza ci costringe… a dialogare via e-mail. Anche se non invidio la tua posizione geografica, mi incuriosisce sapere cosa fai di bello nella Grande Mela. In breve, in che consiste la “lezione americana”?

Matteo Basilé: Sono qui, insieme con altri tre artisti italiani, come vincitore di un premio sull’arte contemporanea indetto dal Ministero degli Esteri e dall’Italian Academy in New York. Ho presentato un progetto con cui un artista europeo, che arriva in questa città, racconta le sue giornate con una sorta di diario su un web site che ho chiamato “Glocal-Project” (www.glocal-project.com). Quasi quotidianamente vi immetto una serie di appunti visivi. Il GLOCALE, ovvero la parte più intima, più nascosta di ogni luogo. A New York pensavo di riuscire giornalmente a catturare frammenti visivi, a raccontare la mia avventura della durata di quattro mesi… Ma così non è. NYC è il luogo da dove partono milioni di immagini…; fa parte del nostro immaginario collettivo. Dove appoggi l’occhio, ti accorgi o ti sembra di vedere la scena di un film, un video clip, un inseguimento della polizia, l’invasione degli UFO. New York è un déjà vu.

 

Hai impiantato un laboratorio?

Sono all’interno dell’Italian Academy, dove i borsisti - come frati cappuccini - nel periodo del loro soggiorno hanno a disposizione delle ‘cellette’ molto ben organizzate per creare, studiare e soprattutto confrontarsi. Forse è la prima volta che mi ritrovo a relazionarmi con personaggi lontani dal mio mondo, ma allo stesso tempo così vicini. Purtroppo, quattro mesi sono pochi per allestire un vero studio in cui realizzare dei lavori… E, ahimè, troppi per non farlo!

 

Vai confermando la tua ormai nota vocazione per il mezzo informatico o c’è dell’altro?

Il computer continua a rimanere il mio strumento di lavoro… Infatti, sto operando soprattutto con il video, come mezzo per registrare quello che vivo. Il tutto viene poi montato con l’idea di ‘appunto’ e inserito nel web site. Trovo nel video la giusta dimensione per raccontare, dialogare. Probabilmente, tornando in Italia, dedicherò molto tempo all’uso di questo mezzo. Il mio sogno sarebbe di riuscire un giorno a strutturare una storia attraverso un medio metraggio, dove l’estetica e i segni di Basilé, riescano a fondersi con la narrazione, il suono e il montaggio.

 

Qual è il progetto virtuale/reale per l’immediato?

Il “Glocal project” è stato ed è il mio contenitore virtuale di idee e di immagini. Un diario come opera d’arte in evoluzione, dove le immagini non devono essere necessariamente delle opere finite. Qui a New York, in questo periodo di guerra, ho visto una città mutare nei suoi aspetti più nascosti. Il volto del passante, il discorso ascoltato alla fermata della metro…: è un crescere di tensioni, non solo negative. Nella città sono un artista, ma  anche un po’ antropologo. L’esperienza americana mi servirà per sviluppare il mio prossimo lavoro che, quasi certamente, non avrà come soggetto l’America o gli americani…

 

Ora, quindi, preferisci rilevare le immagini da elaborare direttamente dalla strada.

Sono tornato in strada… Prima, da graffitista, lavoravo per lasciare un segno per la strada; ora da essa riprendo segni e volti e li rifaccio miei: la strada, i suoi personaggi, ma soprattutto la città dove i segni nascono. Sono osservatore e testimone di un momento storico particolare per tutto il mondo, ma specialmente per questa metropoli che ha subìto per la prima volta un attacco da un altro paese, da un’altra cultura. La cultura dell’immagine viene attaccata dalla cultura della non immagine, creando nell’immaginario collettivo una delle visioni più forti degli ultimi cento anni.

 

Essere capitato lì, con certi e-venti di guerra, è come stare in prima linea per ‘comporre’ il tuo “american diary”.

24 ore su 24 le principali reti televisive americane danno, secondo per secondo, una telecronaca sulla guerra. I giornalisti riescono a raccontarci, attraverso immagini riprese con un video telefono, uno dei capitoli più drammatici della storia contemporanea: un racconto fatto con immagini a bassa risoluzione che, invece di raffreddare il rapporto con il telespettatore, lo riproietta direttamente in un immaginario più reale. Il pixel, il fuori fuoco trasformano questa guerra in un peep show di sangue. I giornalisti usati non come mezzi di informazione, ma come strumenti per renderci testimoni di una guerra in ‘buona fede’. Testimoni e complici di un conflitto che non siamo stati in grado di fermare. E io mi ritrovo, appunto, nella terra dei salvatori della cultura occidentale, adoperando le stesse armi fatte di chip e video ad infrarossi, per testimoniare, però, la ferita che si è appena aperta nel cuore del gigante.

 

A parte l’aspetto contingente, New York ti sembra il luogo più vitale per l’arte  contemporanea?

Sono arrivato pensando alla metropoli che ha visto nascere alcuni degli artisti più autorevoli della storia del contemporaneo, le gallerie più importanti del mondo: la città dove un’idea può diventare un sogno… Naturalmente ho trovato tutto questo, ma forse in toni più dimessi. È in atto una seria crisi economica e l’arte è la prima a risentirne. Le gallerie non parlano di arte con la A maiuscola, ma di business. Ne ho trovate poche che fanno una vera ricerca su artisti giovani, quelle poche a stento riescono a sopravvivere. Insomma, tutto il mondo è paese, tranne il fatto che nella nostra Italietta, alla fine, ci sono artisti più bravi. A chi mi sente può sembrare che New York non mi sia piaciuta. Questo assolutamente no! Ho capito molti aspetti del mio lavoro che dovranno crescere; cosa vuol dire avere dietro le spalle una galleria che difende e stimola il tuo lavoro. Ho scoperto la città che non dorme mai… New York e la sua energia… che senti arrivare dal granito e dall’acqua che la circonda. Quando ci sei, anche tu incominci a girare, a lavorare, a pensare… senza mai fermarti. È un ritmo che ti dà adrenalina e ti costringe a produrre continuamente…, nel bene e nel male.

 

È sicuramente il luogo dove si ha la maggiore ibridazione delle culture a cui tu sei interessato.

Sì, ho trovato le facce e i suoni che speravo di incontrare… NYC è un serbatoio di razze che a loro volta hanno dato vita ad altre razze. Le bellezze che incontri qui sono rare in qualunque parte del mondo. Ma, come d’incanto, sono immobile di fronte a questi esseri. Anche loro sembrano usciti dall’immaginario collettivo… Molti personaggi erano adatti a diventare soggetti di mie opere, ma l’importante per me era isolarli. Dovevo scollarli dal loro paesaggio, dal contesto che li circondava…  In parte l’ho fatto, anche se è stato più difficile di quello che credevo. Poi mi sono e mi sto nutrendo dei suoni e delle immagini che ogni giorno incontro. NYC è la prima in fatto di club musicali… Ho ascoltato musica e suoni per me nuovi, ho incontrato persone con storie incredibili… A New York c’è chi è fuggito da qualcosa e cerca qui la rinascita…

   

Perciò, l’esperienza si sta rivelando stimolante.

Stimolante e molto significativa per la mia maturazione. Sono per la prima volta in un luogo utile per la mia ricerca di artista e di uomo. In Italia mi è molto più difficile dedicare con flusso continuo tanta attenzione alla raccolta di materiali. E sono in procinto di aprire una porta lavorativa con una galleria, quindi…, incrociamo le dita!

 

…Non soltanto per ‘documentare’ la realtà, ma forse per riflettere su chi siamo e dove stiamo andando.

Questo non spetta a me. Ti ripeto, sono qui come osservatore: registro nella mia testa e nei miei strumenti quello che accade, quello che sento. Poi manipolo quanto raccolto per dare al tutto una forma più simile al mio modo di essere. Da qui a dare dei giudizi ce ne passa… Io metto a disposizione di tutti il mio “diario”, poi ognuno darà una sua interpretazione.

     

Ma ci stai dentro sempre con spirito europeo.

Assolutamente sì. Sento che senza il mio DNA italiano ed europeo non riuscirei a distinguere le forme vere di questa città. Il mio è uno sguardo a 360 gradi su un tessuto urbano, ma anche su una cultura come quella americana.

 

Non senti di poter dare anche dei giudizi sulle situazioni estreme del “sistema Usa” con cui ora sei in contatto?

Non so cosa intendi per “estreme”… La cultura americana è predominatrice. Ha creato la sua forza su questo e sta vivendo il presente con una guerra che poteva essere evitata. L’America è l’impero del consumismo. Ogni cosa viene prodotta e consumata nello spazio di pochi secondi. Quando vivi qui, entri a far parte di questo perverso, e a volte meraviglioso, sistema. Se capisci come funziona, sei vincente, ma se non entri, vieni eliminato immediatamente… O con noi o contro di noi… Così è per un hamburger da McDonald’s o per un quadro da Gagosian.

 

“Glocal” è il termine… del tuo campo d’azione…

Come ti dicevo, “Glocal” è quello che ti circonda: il tuo spazio vitale, il territorio che difendi con i tuoi riti, i tuoi suoni, i tuoi oggetti. Glocale contrario di Globale… New York, città globale, raccontata nel suo glocale… Sto cercando di descriverne l’atmosfera partendo da chi la vive o da chi l’ha vissuta.

 

In pratica sintetizza la tua ideologia.

Direi di sì. Il mio glocal è una delle cose essenziali da proteggere, ma anche da condividere. È il luogo fisico e immaginario dove prendono forma tutte le mie idee, le mie paure, i miei amori per cose e persone. Non deve essere necessariamente un luogo reale…

 

Al fascino derivante dall’avanzamento tecnologico e dalla diffusione delle indifferenziate icone della modernità associ i valori atemporali del passato di determinate identità territoriali?

Penso sempre a quello che si è succeduto nei luoghi e ai segni che il tempo ha lasciato sul territorio. Per esempio, mi ero ripromesso di dedicare l’ultimo giorno della mia permanenza ad andare a vedere Ground Zero. Sorte ha voluto che, per sbaglio, mi ci sono ritrovato andando in taxi. Sono sceso e ho passeggiato per mezz’ora attorno a quel buco nella città. Il non-luogo da cui l’America e il mondo occidentale hanno dato il via alla guerra al terrorismo. Una guerra contro un’intera cultura che si è ribellata all’impero. Non ho catturato alcuna immagine, ma ho osservato migliaia di persone che, come me, erano lì per vedere cos’era davvero successo. Affacciandoti nel vuoto polveroso, uno spettacolo surreale ti trasporta altrove. Migliaia di uomini con immense macchine stanno ricostruendo le radici del nuovo simbolo americano: le nuove torri come segno di rinascita e di monito verso il nemico. Ecco la cosa magica che contraddistingue un americano da qualunque altro cittadino del mondo: il patriottismo. Un patriottismo che va oltre tutto…, ma che non farà mai morire questa città.

 

Cerchi pure di integrare-stemperare la spregiudicatezza linguistica con l’interiorità e la sacralità; di far interagire la precarietà della cronaca del quotidiano con l’attendibilità della storia?

Per caso sono qui durante una guerra… E quello che racconto è una sorta di attesa… Non ho utilizzato, né campionato immagini di guerra, ma ho cercato di descrivere il presente nella New York terrorizzata da un attacco terroristico. Ho utilizzato i miei linguaggi, i miei segni e soprattutto ho avuto l’opportunità di lavorare molto con l’audio che fa da colonna sonora a ogni sequenza, a ogni giorno. La sacralità è forse ritrovata nel costruire questa scatola nel web dove ho raccolto una memoria che appartiene a tutti.

 

Se non sbaglio, la produzione di oggi, per alcuni versi, discende dalle prime opere di forte impatto visivo (esistenziale e multimediale), caratterizzate da fredde immagini fotografiche su supporto metallico, scelte con spontaneità giovanile…

È vero, sono tornato al primissimo piano. Ricordi? Sei stato uno dei primi a vedere e a parlare dei miei ritratti, dei personaggi usciti da video clip, da gang di Los Angeles o monaci tibetani… Il tutto era stato ‘rubato’ da immagini televisive, da internet… Ero affascinato dal bloccare, ritagliare questi frammenti di realtà che provenivano da altri mondi per farli miei attraverso un lavoro successivo di decontestualizzazione e manipolazione. I tempi sono cambiati: la tecnologia si è evoluta e le immagini ora provengono da miei scatti fotografici. A NYC ho ritrovato i volti che avevo lasciato sulle mie prime opere… molti personaggi sono catturati e conservati nell’HD del mio computer. Avrò bisogno di lasciar correre un po’ di tempo prima di adoperare queste immagini. Devo allontanarmi da questo ambiente per vedere con occhio lucido quello che davvero ho registrato. Invece, i lavori che ho presentato a Genova nella Galleria Guidi & Schoen sono frutto di una ricerca sul ritratto per me completamente nuova. ‘Conserving’ è una serie di circa venti opere dove, appunto, ho giocato sulla specularità del volto di persone esistenti che, attraverso il gioco del ribaltamento della metà del volto sull’altra e un attento intervento di ricostruzione digitale, diventano creature completamente artificiali. La trasformazione così operata nella rappresentazione che il soggetto è abituato a riconoscere come appartenente al proprio schema fisionomico è tale che questi stenta ad identificarvisi, mentre lo spettatore comune percepisce comunque in questi ritratti un’anomalia che ostacola lievemente la loro immediata riconducibilità a persone realmente esistenti, come se un granello di polvere inceppasse il meccanismo percettivo. In altre parole, questi ritratti - pur nella loro apparente e innocua normalità - finiscono per suonare ai nostri occhi come falsi.

 

La tua pittura digitale di oggi spesso rimanda ai generi consacrati dalla storia dell’arte (dal ritratto al ready-made), anche se il colore non è usato manualmente e il segno è ‘graffio elettronico’.

Forse il mio è un ready-made digitale… Rispondo con alcune frasi di Marcel Duchamp: «Tengo a precisare che la scelta di questi ready-mades non mi fu mai dettata dal piacere estetico. La scelta era basata su una reazione d’ “indifferenza visiva” interamente scevra, di gusto, buono o cattivo […]. In effetti, un’anestesia completa […]. Poiché i tubetti di pittura usati da un artista sono dei prodotti manufatti e “già pronti”, bisogna concludere che tutti i quadri del mondo sono dei ready-mades assistiti».

 

Sei sempre attento alle culture alternative.

Non so cosa intendi con questa espressione. Credo di essere curioso e di non stancarmi mai di conoscere e imparare cose nuove. “Alternativo” è quello che arriva per primo sulla realtà: una cosa, una persona, un’idea, un ristorante, un disco, un artista…

 

In definitiva, nonostante i ‘materiali iconografici’ assunti e i procedimenti innovativi, la tua opera non è irriverente…

“Irriverente” e blasfemo… sono due parole che vedo lontane dal mio modo di concepire l’opera. Utilizzo feticci, immagini che ricordano quelle adoperate in molte religioni. Sono affascinato dal sacro e, pur se con graffi digitali sfregio questi simboli, è solo per dialogare con loro. La mia è una grafia in più che si lega all’icona stessa. Non sono credente, ma sono affascinato dall’energia che l’ ‘oggetto sacro’ emana intorno a sé.

 

Indubbiamente dai tuoi lavori emergono delle costanti. C’è anche la ‘casualità’ o l’imprevedibilità della libertà creativa?

Fortunatamente sono un artista libero di pensare e di fare quello che meglio credo. La “casualità” è un elemento rilevante, ma forse non nel mio lavoro. Adopero uno strumento che mi permette di calibrare ogni tocco, ogni ‘pennellata’ e in qualunque momento posso decidere di cambiare con pochi click l’espressione del soggetto, il colore della sua pelle e del suo vestito. Anche questo ha qualcosa di divino, di magico, ma non di casuale… Ritrovo la casualità negli incontri con le persone, nell’amore, nella vita. Fa parte dell’essere uomini e non macchine.

 

Resta qualche distanza tra intenzione e realizzazione o ritieni di essere già riuscito ad identificarti in pieno con l’opera?

I progetti sono tanti, anche se in tutto questo tempo ho realizzato molte cose di cui sono orgoglioso. Ma il lavoro deve procedere, non ci si deve mai fermare troppo su un’idea. Il bello è andare oltre, superare la paura di sbagliare, fare ricerca e soprattutto confrontarsi. Chi si ferma è perso! Quello che faccio oggi appartiene già al mio immediato passato…; ho un’irrefrenabile voglia di pensare e creare… Sono quello che vedi!

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 113, giugno 2003, pp. 40-41]

 

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