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FRANCESCO IMPELLIZZERI PDF Stampa

Luciano Marucci: Anche se scrivi ancora “pensierini”, la tua diversificata produzione indica che sei alquanto cresciuto dall’anno in cui ti conobbi nello studio romano di Carla Accardi. Quando c’è stato il salto alle appariscenti ‘azioni corporali’?

Francesco Impellizzeri: Nella mia adolescenza ci sono state diverse esperienze musico-teatrali, poi ho scelto di studiare pittura all’Accademia di Roma. Alle prime mostre, in cui segni colorati nati da influenze musicali solcavano le tele, ho avuto la sensazione di non essere ‘esposto’ in tutta la mia completezza. Nel 1989, in occasione di una cena a casa di Lisa Ponti a Milano, presenti Carla Accardi, Luciano Fabro, il gallerista Toselli, Mario e Marisa Merz - incaricato di occuparmi della musica - avevo suscitato la curiosità di quest’ultima mentre commentavo la scarsa qualità vocale di un disco con Lucio Amelio che interpretava canzoni napoletane e degli anni Cinquanta. Mi chiese se sapevo cantare e annunciò la mia esibizione. Di colpo la serata cambiò e Mario, che era stato chinato tutto il tempo sul suo piatto, mi disse: - La canzone è una grande comunicazione… L’episodio è stato il “la” sul pentagramma della mia vita di performer. Fu così che, con un rigurgito delle mie esperienze passate, nel 1990 realizzai Strilli, la prima performance nell’ambito della personale alla Temple Gallery di Roma.

 

Probabilmente privilegi il linguaggio del corpo, dal momento che le tecniche affrontate   (fotografia, video, installazione, tableau vivant, disegno, scrittura...), per certi versi, sono complementari alla performance.

Partendo dal linguaggio pittorico tradizionale, ho cercato una maggiore contemporaneità     fondendo svariate forme d’arte e utilizzando più procedimenti. Il corpo, travestendosi d’ironia, ha preso una posizione predominante e, anche attraverso la voce, ha raccontato quello che accade alle inaugurazioni (Vernice, vernissage) o recitato, in omaggio a Pino Pascali (Larvamento amoroso di Rokkodrillo), ipocrisie e sofferenze amorose. Le altre tecniche, dunque, non sono complementari alla performance, ma essa stessa trova forme e linguaggi diversi a seconda dei momenti e delle urgenze che di volta in volta mi sollecitano.

 

Per te autorappresentazione è sinonimo di interpretazione e di personificazione?

Quando interpreto un personaggio, scelgo quello che meglio esprime il tema che desidero trattare, un aspetto della società che intendo mettere in evidenza, magari ridicolizzandolo. Ad esempio, con l’ “Angelo” ho voluto fare la parodia della purezza, della sessualità e del falso mito della castità, ma tra me e i personaggi che ho creato c’è una distanza abissale. Quelli delle performance non sono altro che ritratti in movimento fermati dagli scatti fotografici, ripresi dalla videocamera o colorati all’acquerello.

 

Nella parte di autore, regista e attore che recita e canta non ti poni limiti?

Vuoi dire che me la canto e me la suono? A parte gli scherzi, nell’assemblare  tendo a trovare un equilibrio, una mia forma di perfezione, cercando di non scadere nel banale o nel volgare. Bisogna usare le pinze, quando si opera sugli slittamenti o capovolgimenti delle cose! Significa utilizzare la forma cabarettistica senza fare del cabaret. La canzone, il travestimento e la parodia sono come strumenti pittorici per una tavolozza che rispecchi quella che per me è oggi l’arte. Per questo motivo la durata delle performance è sempre di 3-15 minuti, il tempo massimo che puoi trascorrere guardando con attenzione un’opera.

 

Il rapporto con il pubblico non ti intimidisce?

Il desiderio, unito all’esigenza di raccontare il proprio lavoro attraverso il corpo, dà un colpo di gomito al timido Francesco, il quale da bambino comunicava solo con i disegni che corredavano i “pensierini” appesi dalla maestra sulle pareti dell’aula. Ancora oggi i minuti precedenti la ‘rappresentazione’ sono pieni d’emozione, ma il bisogno di comunicare per immagini recitate travalica il tutto.

 

Metterti in scena è un atto liberatorio?

Non credo di fare autoanalisi attraverso il lavoro, ma spero la facciano gli spettatori!!! In Videoclippami del 2001 interpreto 16 personaggi in 4 minuti, estrapolati da una ipotetica società che rappresento con pregi e difetti estremizzati in una narrazione che ricorda un po’ la TV in bianco e nero spruzzata di colore. Non ho avuto con ciò problemi di schizofrenia o perdita d’identità... Credo che anche Bosch non si identificasse con la miriade di personaggi che popolano le sue tele.

 

Segui una trama?

Tutte le performance nascono da un’idea, da un flash mentale che ho nel momento in cui sono invitato ad esporre. Immediatamente riporto sulla carta il testo, corredato di tutti i dettagli tecnici, dalle luci alla musica, a coreografia, scenografia, costume... Naturalmente qualcosa viene modificato, come nel normale procedimento pittorico, quando dal bozzetto si arriva all’opera finita, ma cerco di restare fedele alla prima ‘visione’.

 

Sei contro i tabù e i luoghi comuni?

Mi piacerebbe abbattere qualunque tabù o limite che questa società si porta sulle spalle grazie alle costrizioni religiose e politiche. Tratteggiando a colpi di evidenziatore le cose più estreme e assurde di questo tempo, si può richiamare l’attenzione sull’esistenza paradossale che siamo costretti a condurre e far capire che la vita è un bene enorme da gestire in assoluta libertà, tenendo conto dei principi essenziali per una sana convivenza…

 

Dall’insieme dei lavori si intuisce che vuoi attrarre l’attenzione degli spettatori e che hai un irrefrenabile bisogno di comunicare e di dare sfogo alla libertà di espressione. È così?

...L’irrefrenabile esigenza dell’essere!!! Un artista produce per sé o per il pubblico? Ovvio che dona la propria espressività al mondo!

 

L’aspetto estetico è sempre sorretto da una sorta di immaginario ideologico-concettuale?

Senza un concetto ideologico tutto quello che ho fatto sarebbe un mero divertissement, così come, purtroppo, veniva recepito a Roma al mio esordio performatico (solo pochi afferravano le sfumature). Ho dovuto aspettare la prima personale in Spagna, alla Galleria Espacio Minimo (1997), per avere delle recensioni in cui si evidenziava il mio ironico attacco a televisione, religione, mondo dell’arte, ecc.

 

Se non sbaglio, tutto prende avvio dalla voglia di autorappresentarti, di indagare - con l’acutezza del ritrattista e dello psico-sociologo che analizza i comportamenti individuali e collettivi - e di dialogare con il presente.

L’uso del corpo - come ho già detto - è simbolico. Mi do in prestito anche per un’esigenza pratica, per semplificare l’attuazione di un progetto. Ma ho anche fatto performance corali o altre in cui non ero il protagonista. Un esempio chiaro: Margutta Flash – Diva, Divina del 2001, dove un’attrice, per mezzo di un playback perfetto, canta con la mia voce. Nel ricordo abbacinato dal flash della mia memoria, oltre a voler parlare del mito Anita Ekberg, intendevo rimuovere l’idea dell’artista narcisista. Non si tratta, quindi, di un ritratto personale, ma di un modello da analizzare, criticare o sbeffeggiare. Un dialogo attraverso mezzi del presente per dichiarare anche il mio punto di vista.

 

In fondo la tua ironia, che sfocia nel paradosso e nella dimensione ludica, finisce per accentuare la satira e stimolare la riflessione...

...La tanto censurata satira che questo governo ha imbavagliato con un piglio fascista! Certo questa valenza sociale farà ridere molti, ma la componente ludica è uno degli ingredienti del mio lavoro. Adesso con i Pensierini è più rilevante, perché la parola scritta non si presta ad ambiguità. Attraverso la calligrafia infantile, travestendo di ingenuità il messaggio, ho messo in evidenza fatti politici, di costume o riguardanti l’arte, e corredato il tutto con disegni a matita che rivelano una mano abbastanza esperta… I personaggi delle performance, invece, richiedevano dall’osservatore una maggiore attenzione, una lettura più approfondita del gesto, del costume e del testo di una canzone (buona parte scritti da me con musiche composte in collaborazione con musicisti).

 

Si può parlare anche di ‘azione politica’?

Viviamo un presente molto difficile e non possiamo restare chiusi negli studi solo giocando col mondo immaginario. Occorre reagire con i propri mezzi, nel modo più consono al nostro lavoro, dando un apporto critico alla realtà quotidiana del Paese, che non sostiene l’arte contemporanea come anche la ricerca scientifica, il cinema e tutte le altre espressioni che alla fine ne fanno la storia. L’Italia oggi è indirizzata verso un cammino imprenditoriale limitato a prodotti di consumo; non si rende conto che in futuro troverà solo rifiuti da smaltire e che lascerà poche tracce importanti.

 

La componente teatrale è necessaria?

Come una base preparatoria sul supporto tela…

 

Con i travestimenti cosa esibisci?

Non mi ha mai interessato il travestimento fine a se stesso. Voglio ‘dipingere’ momenti felici o disperati, l’orgoglio dell’Angelo Candito che ha perso il suo candore dopo l’autoinseminazione; la disperazione di Rinkoboy, giovane modaiolo frustrato da condizionamenti sociali, il cui ego si ribella rompendo gli schemi; lo strisciare subdolo di Tangentart, l’uomo pitone dell’arte contemporanea. Mi travesto anche per poter meglio parlare a un mondo di travestiti, a quella gente che quotidianamente fa finta di essere qualcun altro e recita tristemente parti che non le appartengono. In realtà, quando rivedo le foto dei miei personaggi, non riesco a riconoscere Francesco.

 

Disapprovi la cultura promossa dai media e l’omologazione?

...La parola cultura è ormai confusa con coltura, visti i prezzi che oggi hanno raggiunto gli ortaggi!!!

 

Il tuo disinvolto approccio all’arte, la molteplicità della ricerca e l’ibridismo sottendono pure l’intenzione di dissacrare i canoni tradizionali e perfino le esperienze attuali?

Si tratta semplicemente di raccontare le cose che si pensano… In alcuni casi ritengo necessario mettere in discussione le ‘tradizioni’, ma in modo ironico, ludico e non definitivo. Altre volte le metto in risalto riconoscendo in esse valenze positive.

 

Ma cosa c’è di veramente nuovo nel tuo percorso creativo?

 “C’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria…” - recitava il celebre poeta - e ai posteri l’ardua sentenza!

 

Il primo approdo all’immagine pop è stato in qualche modo indotto da Warhol?

Warhol ha iniziato la sua carriera come illustratore su riviste di moda e costume. La sua scelta pop è stata la logica conseguenza del lavoro iniziale. Il mio percorso è diverso: ho guardato, piuttosto, all’esperienza di Duchamp. Il mio “pop” è una risposta al bombardamento quotidiano dei media, un’interpretazione ironica di “un’arte per il popolo” di Lenin. Se vogliamo trovare un collegamento tra me e Warhol, è per contrasto. Lui elevava il personaggio divo a nuovo mito; io abbasso il mito deridendolo. La mostra Unpopop del 1993 era una dichiarazione esplicita dell’utilizzo del pop nelle sue espressioni: 200 dischi di vinile serigrafati e la performance di Lady Muk che canta Mmuuuoviti!

 

All’autocitazione narcisistica sei stato incoraggiato da Ontani?

Luigi Ontani ha sempre assistito alle mie performance e una volta mi ha detto che gli spettatori avrebbero potuto fraintendere il nostro lavoro e confonderlo. Com’è noto, egli vuole esaltare le figure mitologiche attraverso una raffinata e colta interpretazione narcisistica; io demistifico e parlo del trash, del martellamento mediatico, delle problematiche odierne. Ogni tanto in un’immagine fotografica ci può essere un riferimento storico, come in o0O!!! (dove Madame’700 ricalca la posa di una novella “Leda e il cigno” stando sdraiata su un letto di riviste d’arte e moda) o un rimando caravaggesco nella composizione della S.P.Q.R. Family. Quindi, l’icona interpretata come mezzo, non è fine a se stessa.

 

Dal rapporto di amicizia e di lavoro con Carla Accardi, cosa hai derivato?

Ho conosciuto una grande artista e il sistema dell’arte contemporanea che le ruota attorno.

 

Oggi cosa ti lega a lei?

L’affetto e la stima per una persona che conosco da più di vent’anni e alla quale ne ho dedicati dieci.

        

Credi di aver già trovato la strada indipendente?

Si può conoscere la propria strada fin da piccoli. La mia è quella di un bambino timido che si è sempre raccontato storie che non rispecchiavano la società che gli stava intorno, con la limpidezza di un’anima pulita, chiara, dallo sguardo brillante; che aveva capito presto di possedere qualcosa di bello da comunicare agli altri.

A cura di Luciano Marucci

 [«Juliet» » (Trieste), n. 126, febbraio-marzo 2006, pp. 61]