Ormai tutti riconoscono che la stagione della Pittura colta è finita quasi sul nascere ed oggi di quel movimento, come del resto è accaduto per la Transavanguardia e per i diversi “ismi” del passato, è rimasto solo qualche artista di talento che ha una sua poetica. Tra questi vi è certamente Omar Galliani con la sua ricerca molto personale che lo differenzia pure dagli altri anacronisti. Anzi, in questi ultimi tempi, l’interesse per la sua pittura si è andato allargando anche all’estero. Dopo gli inviti ad esporre in Giappone, Spagna e Francia, nel novembre scorso, ha inaugurato un’altra importante mostra negli Stati Uniti. Galliani, quali sono i tuoi rapporti di lavoro con l’America? Non sono iniziati con la mostra inaugurata recentemente alla Galleria Marian Locks di Philadelphia, ma alcuni anni fa. Ancora non ho un rapporto continuativo, ma legato ad esposizioni personali. Dall’ ‘84 ad oggi ne ho tenute 4: la prima a New York, una a Los Angeles nel dicembre scorso e le altre 2 a Philadelphia (nel 1987 e quest’anno).
Puoi parlarmi dell’attuale mostra di Philadelphia? È stata realizzata dipingendo sul posto 10 grandi quadri. Ho lavorato in uno studio messomi a disposizione dalla Galleria con cui ho rapporti di lavoro, all’interno della Royal Academy of Pennsylvania di Philadelphia, la quale ha un dipartimento per le arti, la musica e lo spettacolo. Esiste una collaborazione funzionale tra struttura privata e pubblica. La mostra è legata ad un unico tema: l’oggetto-perla, cioè la perla come luogo di sublimazione della materia. Due grandi opere accentrano nel cuore del blu un mazzo di perle che via via si sfilano e diventano stelle, pianeti, costellazioni, diramandosi negli altri quadri. Sul pavimento ho collocato una grande lastra di ferro, sulla quale impastavo i colori, le materie nuove che ho trovato là. Su questa grande tavolozza metallica ho ricavato un’opera nata dalla casualità che raffigura una rosa a stelo lungo poggiata in mezzo al colore come un’impronta. È una immagine un po’ devozionale e mistica, a me molto cara. Il testo critico per questi ultimi lavori è di Antony Iannacci, un giovane italo-americano, collaboratore di Artforum e di altre riviste americane.In occasione dell’esposizione, ho tenuto una conferenza-dibattito all’Accademia sul tema della pittura, perché in questa struttura ho notato una sorta di polarità interessante: si parte da una situazione tradizionale per arrivare all’avanguardia degli ultimi anni. Con il mio intervento ho compiuto forse un lavoro di mediazione, ponendo la mia pittura come spartiacque della conoscenza, tra la pittura del passato e le arti visive degli ultimi anni (ricerca comportamentale, concettuale e così via). Il mio lavoro è passato di lì e ho dovuto far riferimento anche a questo.
Hai riscontrato un interesse reale per la tua pittura di contenuto? Direi di sì. Questa volta più delle altre mi ha appassionato il fatto che all’apertura della mostra c’è stato un grande afflusso di studenti dell’Accademia che mi ospitava e delle altre due della città. Poi è venuta altra gente e ho constatato un grosso interesse anche da parte dei giovani artisti per un lavoro abbastanza ‘classico’ come, in fondo, è il mio, fatto di quadri con problemi ancora legati a certi materiali. Questo al di là di certi preconcetti sulla pittura tout-court che, a volte, intralciano. Ho notato una grande apertura, una grande curiosità per le mie opere e, in particolare, per il loro aspetto spirituale. Io credo che la pittura abbia ancora la possibilità di stabilire un contatto con il profondo, perché la superficie è bidimensionale...
Questa mostra ti ha aperto altre possibilità? Le possibilità stanno nascendo. Mi hanno chiesto di realizzare un grande affresco sulle pareti di una piscina di una residenza sull’oceano. Contemporaneamente David Salle dipingerà i soffitti della villa. Realizzerò il lavoro nel gennaio ‘91.Un’altra cosa importante è l’offerta della Royal Academy of Pennsylvania per uno stage di alcuni mesi durante il quale organizzerò anche una mostra di disegni su grandi carte nel Museo d’Arte Moderna del luogo.
In questi tuoi giri negli States hai avuto modo di registrare qualche nuovo, significativo orientamento artistico? Al di là degli interessi personali strettamente connessi col mio lavoro, ho colto degli aspetti significativi. L’America, a differenza di quanto si dice normalmente in Italia, non è solo New York dove l’attenzione alle cose è molto fuggevole e i ricordi delle mostre si consumano più rapidamente. Lavorando, invece, in una città come Philadelphia, che ha un tessuto di gallerie e di artisti meno articolato e più limitato, ho visto che ci sono delle pause di riflessione (lo dico pensando anche ai collezionisti e all’attenzione del pubblico di fronte alle opere). Andando per gallerie, ho visto che è cambiato qualcosa, rispetto a sei mesi fa: sta cadendo l’inespressività di questi ultimi anni legata al post-mini mal e al post-concettuale. Contrariamente a quanto si dice in Europa, penso che in America non ci sia la crisi artistica: il già detto è stato superato. Poi ho notato un ridimensionamento dei linguaggi. L’America è stata sicuramente una grande fucina di ricerca per le esperienze recenti. Basti pensare alla grande Scuola di New York, alla Pop art, all’Arte concettuale, alla Minimal. C’è sempre una sorta di avvicendamento, di ricerca della novità. Andandoci più volte in pochi mesi, ho rilevato la sopravvivenza della pittura anche in spazi molto consacrati alla ricerca della cosiddetta avanguardia dove, appunto, sta riaffiorando un’arte intimistica: il piccolo disegno, il quadretto, il piccolo oggetto... Tutto un lavorare attorno a delle autobiografie d’artista che, spesse volte, hanno come supporto il mezzo grafico-pittorico tradizionale. Ora può capitare di trovare un pittore americano di paesaggi cartolineschi che espone in una galleria underground. Anche il cinema americano parla di queste cose. Indubbiamente, è un fenomeno legato anche al terrore, all’angoscia di questi ultimi anni per i problemi connessi con le malattie che stanno un po’ devastando il mondo e, in primo luogo, l’America. E questo porta al bisogno di stringersi di nuovo attorno al tavolo per lavorare sulle necessità fortemente individuali. Credo non si possa parlare di gruppi in America, ma di individualità secche e distaccate che operano nelle più diverse fisionomie di poetica. E mi pare giusto che si possa abbracciare tutto pur riconoscendo i valori della ricerca. In America, poi, non è mai esistita la figura egemone del critico come da noi. Credo che in Italia ci siano stati grossi talenti depistati, perché gestiti da una critica che non li ha saputi valorizzare.
In definitiva, andresti a vivere in America? Per lavorare, sì. In Italia non c’è un grande fermento. Sento che depongono le armi pure gli artisti che erano miti. Anche in Europa è così: dopo la scomparsa di Beuys, con l’affermarsi sul mercato di artisti che erano trainanti, la situazione si è appiattita. Del resto, anche lì ci si può isolare benissimo per trovare concentrazione (l’artista giovane che si incontra per le vie della grande città, spesso, sceglie di stare in campagna). New Jork non è più la metropoli esasperata del Graffitismo degli anni Ottanta: c’è una sorta di autoriflessione. Quel mondo non mi fa paura. Anche i quadri che sto facendo sono anticonsumistici, talmente grandi da essere invendibili... Andrei in America perché è un luogo dove la pittura ha ancora un suo status, una sua collocazione. In Italia non c’è molta buona pittura. Dico “pittura”, ma il linguaggio può comprendere tante altre cose...
A cura di Luciano Marucci [«Juliet» (Trieste), n. 51, febbraio-marzo 1991, p. 50]
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