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STEFANO DI STASIO PDF Stampa

Di Stasio, da dove proviene la tua pittura di oggi?
Da un viaggio artistico iniziato tra il ‘77 e il ‘78, dopo una serie di esperienze di avvicinamento all’arte extrapittorica che allora era al centro dell’interesse. La mia pittura è una conseguenza di varie considerazioni sul destino dell’arte che in questo secolo è arrivata ad una con­clusione a cui solo l’artista-eroe si può opporre, evi­denziando la sua inattualità con la riproposta di un linguaggio alto che l’arte contemporanea aveva necessariamente, storicamente liquidato


Perché parli solo di linguaggio e non di contenuti?
Linguaggio in quanto tramite. I contenuti sono l’eterna figurazione degli uomini e delle cose. Secondo me, oggi la pittura può dare l’illusione di una rappresenta­zione del visibile del mondo.


La tua “pittura” è nata solo da riflessioni personali?

Si, ma contemporaneamente a quella di altri artisti, anche se la mia ri­presa della  pittura figurativa ha caratteristiche particolari. Più di 10 anni fa,  tentando la rivisitazione del linguaggio tradizionale della pittura, avevo compiuto quasi un gesto con la voglia di scandalizzare. Da lì poi è iniziato il cammino che mi ha portato alla consapevolezza della serietà di questa scelta sulla pittura, che ora coltivo con la massima dedizione, come necessità assoluta della mia vita, nel ten­tativo di ritrovare il grande mestiere.


Più precisamente, quali sono le motivazioni di fondo del tuo operare nello specifico pittorico?

Se consideriamo che in questi ultimi 20-30 anni sono state esplorate le più incredibili possibilità, il mio era un tentativo di dare ancora un senso all’arte figurativa. È il ritorno a quello che essa era prima dell’avanguardia, quando si sapeva quale era la sua funzione: rappresen­tare, dare l’illusione plastica, cromatica, ecc. delle apparenze del mondo. Io considero l’avanguardia un errare, necessario e storicamente conse­quenziale a quello che c’era prima, ma era una uscita dalla strada mae­stra. Una caduta, ripeto, hegelianamente necessaria, come segno della fine della centralità e della funzione storica dell’arte. Io sono rientrato in quella strada da me in una scelta prospettica metastorica, senza essere auto­rizzato dal mondo. In questo senso quella scelta, forse, continua ad es­sere un gesto di rottura. E, per poter frequentare questa grande strada, bisognava entrare anche nel mestiere, perché si deve fare una pittura ad alto livello, di qualità come è stata nei secoli d’oro. Solo a queste condizioni per me è possibile ridipingere. E non sono d’accordo neanche con tutta la pittura che s’è fatta in questi anni (neo-espressionista, neo-qua e neo-là), perché già c’era stato tutto.


Questo atteggiamento anti-conformista si lega alla tua ideologia politica?
In un certo senso, sì. Oggi c’è un’anarchia di valori e l’artista dovrebbe ristabilire le regole del gioco, invece, in arte la trasgressione è diventata solo formale, autorizzata dal contesto. E non c’è luogo comune più diffuso del termine “trasgressivo” da unire all’altro di “nuovo”.


Mi sembra di capire che contesti l’avanguardia.
Non è che io non rispetti certa avanguardia, ma oggi molte cose appar­tengono ad un manierismo internazionale. Il nemico da combattere è l’estetismo diffuso nella realtà tanto da renderla irreale. Penso che l’arte debba ritirarsi in se stessa, ristabilire i propri confini e le proprie regole del gioco.


Vagheggi un “ritorno all’ordine”?

È un voler tornare ad un ordine che non coincide con quello sociale dove si vive nel caos; un abitare il proprio mondo con un diverso ordine mo­rale. Purtroppo, l’uomo non è mai all’altezza delle sue idee e so già che l’arte da sola non può cambiare il mondo. Però l’adeguamento della gente alla realtà così com’è mi fa paura. Forse l’utopia “privata” che puoi leggere nella mia pittura, invoca l’altra grande utopia di palingenesi sociale che nessun pensiero debole può cacciare dal mio cuore.


Ritieni di poter sviluppare una ricerca personale anche attra­verso una iconografia che oggi può apparire retorica?

In quello che dipingo non c’è mai una simbologia fissa. Io cerco di registrare le immagini che affollano il mio inconscio, dove però è sedimentata la memoria che abbiamo della pittura già fatta nel passato, per cui se a volte sembra d’aver già visto qualcosa, è per­ché non siamo all’inizio della storia della pittura.


Il linguaggio pittorico è ancora competitivo?

Ritengo di sì, ma di questa cosa, purtroppo, non si parla mai. Si accet­tano le immagini senza pensare a come sono dipinte.


Ti infastidisce essere classificato un artista della Pittura colta?

Sì, perché tutte le definizioni sono buone e nessuna lo è. Ogni etichetta mi va stretta. La mia è una “pittura colta” nel senso che si rifà ad una tradizione raffinata, cioè non è selvaggia, arcaica. “Anacronismo” sembrava un termine più adatto, ma anch’esso portatore di equivoci. È stato interpretato in senso regressivo.


Allora, in cosa si differenzia la tua pittura da quella degli anacronisti?

Io dipingo davvero, mentre gli altri che tu definisci anacronisti, dipin­gono tra virgolette. Questa è la sfida più grossa che mi fa sentire anche l’isolamento. La ricerca di ricchezza, di qualità e di preziosità, può indicare una differenza con quanto si fa oggi. Poi, mi pare che la mia immaginazione sia più libera dai condizionamenti programmatici.


Ma, a parte il medium pittorico “conosciuto”, l’immagine è ca­rica di citazioni.

Un altro grande equivoco da chiarire è quello del citazionismo, dove, molto spesso, mi hanno inserito. “Nuovo” e “arte” sono due termini che devono essere separati per sempre. Comunque, io la citazione non l’ho mai praticata, perché quello che dipingo lo derivo da me stesso, lo invento. Se c’è una memoria, una vicinanza alla morfologia del passato, è perché la pit­tura non appartiene ad un nuovo progetto. Io, semmai, guardo il passato per umilmente studiare, non per citare.


Il tuo lavoro, perciò, tende a porsi fuori del tempo?

Per parlare del presente, ha bisogno di mettersi fuori del tempo. Il mondo dei mass-media che ci circonda, dal punto di vista del linguaggio, è talmente progredito che toglie senso alla ricerca avanguardistica ed autorizza, in qualche modo, un atteggiamento difensivo dell’artista. Porsi al di fuori della storia e del tempo è una risposta al com­portamento del quotidiano che ci circonda. Una difesa dell’arte figurativa può trovarsi in questo aspetto dell’arte che ritorna su se stessa. La vera “morte dell’arte” si ha quando avviene la fusione perfetta tra arte e vita, ma siccome il mondo è ancora carico di ingiustizie, esso non è affatto pacificato. Se tale fusione fosse realizzata veramente, io non avrei nessun bisogno di dipingere.

A cura di Luciano Marucci

 [«Juliet » (Trieste), n. 53, giugno 1991, p. 41]