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VITTORIO MESSINA PDF Stampa

Il dibattito sulla "modernità" è aperto!

All'ordine del giorno alcune tematiche che investono il presente in cerca del futuro.

Interviene Vittorio Messina che conduce una singolare esperienza nel contesto artistico contemporaneo.

 

Domanda. L'artista ha la vocazione di in-seguire la "modernità" per costruire l'avvenire?

Risposta. Così formulata, la domanda sembra suggerita dal presupposto che il lavoro degli artisti possa far parte di una più generale teleologia dove "grazia" e "perdizione" fuori di una specificità religiosa, sarebbero assunte come etica comportamentale nel tentativo di dare forma al destino. Mi sembra un disegno grandioso che dà per scontata la certezza di un qualche sistema fondante - come lo fu, per esempio, l'aristotelismo per la concezione medievale del mondo - ma che la nuova "modernità" ha perduto ed anche rinnegato. Peraltro, nulla vieta di ritenere viva e necessaria una forma di progettualità precaria, che permane nei limiti di una "casualità sistematica", ...

 

Pensi che in questo momento nelle arti visive ci sia l'indicazione di nuove vie espressive?

Per lo più ho l'impressione che viga una diffusa frammentarietà. Ma forse anche questa è una via.

 

L'avanzamento del tuo lavoro attuale è legato alla soluzione di problemi linguistici?

Credo che nel linguaggio dell'arte possa accadere quasi per miracolo ciò che per una serie di circostanze si è negato ai linguaggi naturali. La soluzione di un problema linguistico non è qualcosa che sta prima o dopo un'altra, ma un fatto sostanziale, direi la sostanza stessa intorno a cui per il principio causale, si costruiscono i malintesi e le schizofrenie che hanno separato, per esempio, in modo irreversibile, le parole dalle cose e dai fatti della vita.

 

Entriamo nel cantiere artistico.

Prima di metterti al lavoro elabori mentalmente l'intera opera ed appronti un progetto?

Faccio sempre un progetto grafico di massima, ma veramente molto approssimativo, perché so che la distanza tra questa fase e il lavoro vero è molto grande, e quindi ho bisogno di verificarla il più velocemente possibile. Ma, quando questo non è possibile, sono obbligato a pazientare e ad elaborare un "progetto mimetico" che irrobustisca la mia convinzione prima di passare al momento fattuale.

 

Vuoi valorizzare le tecniche costruttive, l'azione concreta del "lavoro cantieristico" e, a un tempo, il metodo produttivo industriale?

Tra le due cose non trovo una contraddizione, a meno di considerare le forme criminali di speculazione del profitto. Diversamente: il cantiere, come luogo di elaborazione pratica e intellettuale, conserva ancora un legame con la tradizione antica dei "massons" medievali, gotici in particolare. Il cantiere, con le sue casupole provvisorie, custodiva gli arnesi e una parte dei materiali più preziosi, ma anche la conoscenza e il segreto, ed era, come struttura sociale-corporativa, il fondamento di quel miracolo architettonico e urbanistico che sono le città medievali e soprattutto le grandi cattedrali. Per noi che viviamo in questo scorcio di millennio è possibile avvertire la stessa aura visitando un qualsiasi cantiere, dove gli arnesi, gli operatori e i materiali hanno evidentemente l'immagine del nostro tempo, con le sue gru, i prefabbricati e gli ingegneri con cravatta.

 

Se il tuo prodotto artistico non è classificabile "scultura", "opera oggettuale" o "ambientale", "installazione" o "struttura architettonica", come potrebbe essere definito senza ricorrere a termini obsoleti?

Tenderei a sdefinire, più che a pronunciare un termine conclusivo oltre il quale non è possibile andare. Il lavoro dell'arte vive se non è in una situazione, ovvero se imprevedibilmente annuncia e poi d'un tratto smentisce l'enunciato, e non per giocare a rimpiattino, ma perché è questa un'attitudine legittima alla misconoscenza, come alla miscredenza è quella dell'eretico o dell'agnostico.

 

Che tipo di dialettica vuoi instaurare tra opera e luogo in cui essa viene immessa?

È solo in questo spazio che l'opera si realizza totalmente?

Fuori del suo habitat essa si de-costruisce fino ad annullarsi?...

Mi sembra inevitabile che tra l'opera e il suo ambiente spaziale vi sia una relazione speciale. Direi che l'ambiente che ospita la "pièce" è come una cassa di risonanza degli umori di questa e come tale è evidente che può essere più o meno efficace. Con ciò voglio anche dire che in ogni caso permane addosso all'opera una sorta di opacità resistente che la fa sopravvivere anche in condizioni, per così dire, non ideali. Ma mi sembra che questi stessi argomenti li potremmo applicare ad ambiti di discorso molto diversi.

 

Col lavoro mostri di essere dentro e fuori il nostro tempo e che partecipi al mondo materiale con una visione spirituale.

Nella ricerca dell'unità attraverso la fusione dell'elemento personale con quello oggettivo c'è anche il desiderio di elevazione cosmica e di affermazione di una idealità che non è solo tua?

Poter entrare e uscire dal tempo è un'idea molto curiosa. Forse solo una grandissima nostalgia, quasi mortale, può in qualche modo procurare un'uscita dal tempo. Ma io detesto la nostalgia. Ho orrore del desiderio di evasione, e di tutti quelli che pensano che l'arte è un battello dentro cui saltare per salpare verso i lidi della piacevolezza edonistica, e perché no, anche della nostalgia.

 

Mi pare di capire che nell'opera vivi due momenti: quello "arcaico-organico", quasi inconsapevole, insito nei caratteri genetici dell'uomo, e quello di un "presente" che guarda in avanti, che indica una certa partecipazione razionale al mondo.

Nelle tue intenzioni c'è l'omologazione o la celebrazione dell'artificiale?

Penso al lavoro dell'arte come ad una cosa assolutamente artificiale, una pazzia rispetto a secoli di naturalismo ancora del resto perfettamente in linea con i pregiudizi diffusi, anche tra gli specialisti, che l'arte abbia da vedere con la natura. Non che la pittura o la musica, o la scultura, non possano "celebrare" di volta in volta la natura, la storia o altro; è che nel suo farsi, essa è totalmente artificiale. Già gli antichi lo avevano capito quando sapientemente dissertavano di "artifizio".

 

Ma vagheggi un nuovo mondo!?

Non si può impedire al sogno di esistere. In ogni modo sono convinto che l'arte, o meglio, il lavoro degli artisti produce il mondo, e non viceversa. Il sogno dell'arte è l'utopia più concreta, la più fattibile, ma è nascosta, come una noce nel suo guscio...

 

Il tuo legame col passato è più di ordine antropologico che umanistico?

Diffido molto del passato come categoria storica, non mi interessa conoscere la versione degli eventi che particolari circostanze hanno favorito fino a tramandarne una memoria. Tra noi e quei fatti c'è un abisso incolmabile. Invece l'osservazione dei segni di un tempo e di uno spazio inattuali si può realizzare senza null'altro che il loro semplice esserci fenomenico, e ciò sembra più vicino al vero, quindi in qualche misura più rassicurante.

 

Cosa c'è di tradizionale nella tua produzione?

Se fai proprio riferimento al "produrre" direi che c'è molto. Tecniche e sistemi sono tradizionali, nel senso che appartengono ad un bagaglio minimo di conoscenze elementari e diffuse. Il lavoro dell'arte si attua in parte dentro un sistema necessariamente tradizionale. In ogni caso, il "rivoluzionario" per parlar d'altro è tale solo per un istante, l'istante in cui per così dire "esplode"...

 

In che senso le tue macrostrutture sono legate al principio di indeterminazione di Heisenberg?

Tu che con il "biologico" cerchi di vincere i limiti naturali... del "tecnologico" compiendo un'operazione di "ingegneria... artistica", che rapporto intrattieni con la scienza?

A partire dal 1984-'85 in diverse occasioni ho fatto riferimento a questo famoso principio in modo specifico negli "Spostamenti sulla banda del rosso", e in generale per quanto riguarda la realtà, pur sempre rappresentata dalle tecniche astratte e sofisticate, della moderna ricerca scientifica delle particelle elementari. L'aspetto che ritengo fecondo per il mio interesse individuale di artista, riguarda una particolarissima teoria della conoscenza (l'indeterminismo) che sconfina ampiamente in territori indifferenziati, dove l'approccio estetico alla rappresentazione ritrova io credo una discreta probabilità.

 

In questo contesto, che ruolo assegni al simbolo?

Il simbolo? È abbastanza forte per fare a meno del posto che gli possiamo assegnare.

 

È possibile fare un'arte senza "mistero"?

Sarebbe la fine, la fine anche di questa conversazione.

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste) , n. 58, giugno 1992, p. 53]