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PIERO PIZZI CANNELLA PDF Stampa

Pizzi Cannella, la tua scelta di fare “pittura” da cosa è scaturita?

Io non ho mai pensato di fare qualcos'altro. La mia formazione è pittorica, i miei primi amori sono stati i pittori. Ho sempre pensato in termini pittorici. Se, mentre frequentavo l'Accademia, ho “usato”, come estrema propagazione di una formazione culturale, l'installazione e il concettuale, è stato per un processo di maturazione. Ciò, però, ha rappresentato l'occasione di un determinato momento. La pittura è un'altra cosa, la pittura è per sempre, è una questione di vita o di morte; non è un esercizio, una professione, un mestiere. È qualcosa che appartiene a tutti..

 

Non credi che essa, a lungo andare, rispetto alla rapida evoluzione dell'espressione visiva, possa diventare inadeguata alle nuove realtà?

Per considerare inadeguata la pittura dovremmo avere di fronte agli occhi una realtà che si sostituisca ad essa, soltanto in questo frangente io accetterei di rimetterla in discussione. Lo farei subito se domani mattina trovassi una possibilità di espressione superiore. Sarei pronto ad abbandonare tutto da un giorno all'altro e a trasformare il mio istinto di morte e il mio istinto di sopravvivenza in un altro linguaggio. Ma mi accorgo che non ci sono queste condizioni, vedo molta gente che scimmiotta, vedo una sequela di concettuali della domenica che fa dei lavoretti che possono anche avere un senso, ma l'arte è una cosa più seria.

 

Ma se il tuo discorso è intimamente legato alla pittura, a chi affidi l'avanzamento del tuo lavoro?

In questo particolare momento storico l'avanzamento del mio lavoro sono solamente io. Ho dei compagni di strada da quando ero giovanissimo (i maestri del passato). Andando avanti, ogni tanto, ho come dei sussulti più o meno grandi ed essi mi danno la forza, il coraggio e la volontà di continuare. Mi danno, in qualche modo, la certezza di non essere solo, di appartenere al grande disegno della pittura. Io spero intimamente di percorrere questa via maestra.

 

La tua pittura, che si è inserita nel contesto artistico-culturale mediterraneo con una sua fisionomia, ha fatto tesoro anche degli insegnamenti più circoscritti della “Scuola romana”.

Sì, perché la “Scuola romana” nel mio lavoro non è un punto di riferimento di ordine concettuale, ma, in un certo senso, atmosferico. Roma è un luogo misterioso, magico (traffico a parte...). Non è solo una città con un insieme di case, è qualcosa di più: è un pensiero. Quindi, per forza di cose, tu ti nutri di colori, di spazi, di luci e di genti che stanno qui. La “Scuola romana” mi arriva da questa specie di grande serbatoio culturale di immagini, non certo per il riferimento a quel gruppo di artisti sorto nel 1930 o giù di lì.

 

Parliamo dell'opera. I soggetti provengono dal tuo vissuto o appartengono ad una “memoria anonima”?

Strada facendo, mi accorgo che la memoria anonima dalla quale parto rientra nel mio vissuto. Altre volte inizio da elementi che mi appartengono in prima persona, poi, andando avanti, mi rendo conto che non sono realmente miei, ma che un inconscio collettivo ha organizzato questo per me.

 

Perché nell'opera preferisci focalizzare aspetti particolari più che estendere lo sguardo a contesti complessi?

Perché è più semplice per arrivare alla verità, per mettere a fuoco un piccolo problema e cercare da questo, piano piano, con fatica, di tirar fuori quanto di vero, quanto di assoluto e di indispensabile in esso c'è.

 

La tua produzione evidenzia che non ami la trasgressione e il gesto incontrollato. Da cosa nasce l'urgenza di rifrequentare nel tempo gli stessi luoghi della materia pittorica e gli stessi temi?

A volte, ti rendi conto che pochi elementi bastano a raccontare una cosa grande, tutto il mondo possibile. Una volta un maestro mi disse che le cose importanti vanno raccontate in modo semplice. Io gli ho creduto.

 

In questi ultimi anni cosa ti ha spinto ad abbandonare il concetto di tempo per entrare, più decisamente, in quello di spazio?

Mi sono accorto che il tempo è già contenuto nel racconto - per me fondamentale - che io faccio dello spazio. Non c'è un prima e un poi, c'è soltanto un qui ed ora e lo spazio è l'unico testimone del racconto.

 

La residua tensione romantica che si legge dalle tue opere da quale esigenza nasce?

La tensione romantica è già un'esigenza, un'urgenza.

 

È un sentimento che vorresti si espandesse nel presente?

Nel presente di tutti? ...Sì!

 

Preso atto che sei un pittore figurativo..., negli anni, il soggetto riconoscibile è diventato sempre meno “presente”?

Come vedi, nei lavori che ho finito quest'anno ci sono cose molto riconoscibili, non credo di aver abbandonato la referenza con la realtà. Quando feci una mostra che si chiamava “Le porte d'Oriente”, con quadri che avevano grandi grate nere su fondo bianco, qualcuno, fraintendendo tutto, parlò di perdita di rapporto col reale, senza sapere che io dipingevo veramente dei cancelli che dividevano l'una e l'altra parte. Non bisogna mai fermarsi alla superficie...

 

Comunque, la tua lotta contro il superfluo - che forse ha contribuito anche ad allontanare la citazione - è riuscita a farti conquistare l'essenzialità desiderata?

Io dipingo “ciò che resiste ad ogni sottrazione”.

 

Pur essendo interessato alla traslazione di senso, perché eviti di supportare il tuo racconto con il simbolo e l'ironia?

Perché questi sono dei mascheramenti. Io credo di essere un pittore che nasconde, ma preferisco un faccia a faccia come due amanti.

 

Forse sei più intenzionato ad entrare in un altro tipo di ambiguità metaforica e ad indirizzare la percezione verso il cosmico...

Io voglio pensare in termini cosmici. Quando parlo della strada maestra, mi riferisco a questo concetto; voglio dialogare con chi conosce realmente le cose, non perdermi in mille rivoli, in mille contingenze che mi annoiano un po'. Voglio fare qualcosa che accada per sempre, tutti i giorni.

 

Continuiamo con la genesi dell'opera: il tuo è un percorso dal visibile all'invisibile o viceversa?

Per me tutto è visibile. C'è stato spiegato che tutto è possibile, tutto è qui. Anche Dio ormai è qui, se è vero, come qualcuno ha detto, che è morto.

 

Sembra che tu voglia mettere l'immagine in posizione di alterità e di differenza rispetto alla realtà fino all'estraneità anche perché tendi a promuovere il passaggio dal corpo all'anima delle cose assunte.

Io dico che l'arte è la vita e viceversa. Non c'è diversità. Non voglio che l'arte rifletta su se stessa e si racconti, come non posso supporre che la vita sia solo una riflessione sulla vita. Sono per una attesa senza però vivere di nostalgia. Non voglio pensare alla vita come a qualcosa di già accaduto, o all'arte come a qualcosa che già esiste e che io racconto.

 

Il rifugiarti nel sacro dell'arte o, comunque, in un'area distante dal presente indica che c'è un dissidio col quotidiano e la necessità di ritrovare un ordine morale?

L'ordine morale non si trova. C'è o non c'è. Credo che l'artista debba avere una moralità, non perché egli è migliore degli altri o vuole più degli altri, ma perché si avverte nell'opera.

 

Credi che oggi l'artista abbia una sua responsabilità etica?

A questo non ho mai creduto. Un conto è la moralità, un conto è l'etica.

 

È bene che egli dia al suo lavoro una base teorico-critica?

C'è, se noi riteniamo necessario spiegare l'opera. Credo che ogni artista vero ce l'abbia.

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 62, aprile-maggio 1993, pp. 34-35]

 

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