Home arrow Viaggi nell'arte arrow Incontri arrow Bruno Munari (1993)
BRUNO MUNARI PDF Stampa

Dopo aver preso le mosse da esperienze dada-futuriste e astratte, Munari - attraverso una sua libera investigazione - dalla rappresentazione delle cose, arriva all'uso delle stesse e a stabilire un insolito legame costruttivo tra arte e vita. Esce dalle opere bidimensionali, per entrare nello spazio reale, con le “macchine inutili” e le “sculture da viaggio”. Successivamente - per grandi linee - al fine di bilanciare l'aspetto “non funzionale” della sua attività puramente estetica, si dedica al design di ricerca (progetta per una produzione industriale accessibile a tutti), alla grafica editoriale, ai giochi e giocattoli operativi e all'attività pubblicitaria. Poi, “inventa” i multipli: opere aperte dell'Arte programmata di cui è stato il teorico. Dal 1945 realizza libri per l'infanzia e, negli anni ‘60, inizia a pubblicare testi divulgativi e di didattica per diffondere le sue riflessioni sull'arte e sul metodo (certamente non romantico) di operare. Rientrano in questa logica le dimostrazioni teorico-pratiche e le “performances educative” che evidenziano anche la sua capacità di dialogare con le tendenze artistiche di punta, senza però rinunciare al suo catturante linguaggio ironico-didattico. Approda così ai “Laboratori liberatori per la creatività individuale”, “rivoluzionari” per creare la società del futuro .

Negli anni, dal segno e dal colore, il suo lavoro si espande, quindi, all'oggetto a più dimensioni, plurisensoriale e all'azione sociale, facendo uscire l'arte dall'atelier, dalla galleria privata, dal museo per portarla in mezzo alla vita, convinto che essa sia un'attività pubblica, un servizio per la collettività.

Nonostante le continue trasgressioni, il suo lavoro ha una coerenza morale. L'istinto di affrontare campi sempre diversi - sostenuto da una salda base teorica, dall'intelligenza creativa, dal rigore professionale e dal “mestiere” - lo ha portato a sconfinare dall' “arte pura”, non certo per proclamarne la “morte”, ma per allargarne i confini e riaffermarne la centralità, dando uno sbocco concreto alla sua ideologia.

Munari è un artista eclettico, di stampo rinascimentale, che sfugge ad ogni facile inquadramento. Seguendo un indirizzo personale, che lo fa essere sempre “presente”, ha saputo coniugare, con proposte innovative, creatività con produzione, lirismo con razionalità, natura con artificio. Insomma: è “quello” che ha fatto tante cose diverse per praticare un' “arte totale”, spendendo tutta la sua vita per migliorare la qualità di quella degli altri. E, con la “saggezza” dei suoi 86 anni, non ha ancora finito di stupirci...

 

Munari, quanto ha influito sul resto della tua attività il mestiere di designer?

Influisce sempre perché, quando si fa un'opera d'arte, la parte progettuale di realizzazione dell'immagine è tecnica e, quindi, design; mentre l'altra parte - emotiva, sensibile - è arte.

 

L'esasperato interesse per la comunicazione ti viene dalla prima attività di grafico e/o dal bisogno di esternare le tue “trovate” per trasformarle in servizio sociale?

Io non ho la preoccupazione di imporre o di esternare. Sono contento se riesco a fare qualche cosa di utile anche per gli altri. Quando faccio delle scoperte nel campo progettuale, cerco subito di comunicarle perché può essere utile la loro conoscenza.

 

Cosa ti spinge a cambiare sempre campo d'azione pur rimanendo coerente alle tue “regole”?

Quello che succede nella natura, la curiosità di conoscere. Oltre ai normali lavori che si fanno in uno studio di design, ci sono tante altre situazioni in cui ci si trova di fronte ad un oggetto, ad un ambiente, ad un materiale, ad una tecnologia che stimolano a fare ed allora... io vado.

 

La tua modernità sta nell'operare alla maniera dei classici...?

Forse sì. Difatti, anche nel periodo classico, gli artisti non si occupavano solo di pittura o scultura, ma di tante altre cose: architettura, decorazione, abbigliamento, macchine...

 

Allora, ci vogliono molti anni per diventare moderni...!?

Eh, sì, bisogna liberarsi da tutti gli stereotipi e da tutti i preconcetti.

 

Ci può essere un'opera che ha valore in ogni tempo e in ogni luogo?

Certo, quando si arriva alla essenzialità, l'opera va fuori dalle mode, dal tempo. Ci sono anche degli oggetti di design a questo livello. Anzi, a Bologna, qualche anno fa avevo organizzato una mostra intitolata “Compasso d'oro a ignoti” con oggetti che sono in produzione da sempre, ma non si sa chi li abbia disegnati. Essi si vendono in ogni tempo perché sono “giusti”. Per esempio, la sedia a sdraio da spiaggia non si può fare più semplice di così, lo stesso il leggio a tre piedi dell'orchestrale e tante altre cose...

 

Cosa ti fa essere sempre attuale?

È nella mia natura. Io non saprei spiegarlo...

 

La tua attività è costantemente legata agli aspetti culturali del presente?

Anche, ma di una cultura più internazionale.

 

Ritieni che, in genere, il modo di operare degli artisti di oggi sia antiquato?

Non “antiquato”, è limitato, perché chiuso in un solo settore della comunicazione. Il designer ha un'apertura progettuale vastissima, perché può fare qualunque cosa con qualunque materia. L'artista, invece, è pittore oppure scultore o, al massimo, tutte e due, ma non designer o grafico. Raramente si trovano degli artisti, magari anche bravi, che hanno tutti questi interessi insieme.

 

L'idea di oggettivare la realizzazione di certe opere d'arte delegandone l'esecuzione come è nata?

Dal fatto che certe forme d'arte non esigono il segno della mano o la pennellata. Allora, a questo punto, si può benissimo progettare un'opera e farla realizzare dando istruzioni precise: non c'è nessuna differenza tra l'esecuzione di chi ha ideato l'opera e quella di un bravissimo assistente o artigiano che la fa come si deve. Anche gli artisti classici si servivano di collaboratori. Mi pare che Raffaello ne avesse una trentina...

 

Cosa ha rappresentato per te Duchamp?

È un modello sempre vivo, perché è il Pitagora dell'arte.

 

Negli anni passati avevi mostrato di voler privilegiare l'opera moltiplicata e seriale sul prototipo e il pezzo unico per promuovere un'arte fruibile dai più, ma poi hai dovuto cambiare strategia. Cosa si opponeva a questo progetto di concezione moderna?

Tante cose e, prima di tutto, il mercato. Quando sono venuti fuori i multipli, io ho cercato di precisare su un quotidiano e anche nei libri che cosa fossero, come si facevano, ma, a quanto pare, non è stata ben capita la differenza tra il multiplo e la copia.

 

L'opera aperta è stata il tuo primo tentativo di trasformare concretamente lo spettatore in protagonista?

C'è una regola cinese che dice: quando l'immagine è presente, è inutile che l'artista la finisca. Questo vuol dire che nelle opere d'arte visiva è meglio se lo spettatore in qualche modo partecipa alla identificazione della immagine, per cui io, tante volte, sono per le diverse possibilità di comunicazione. In una pittura definita in tutti i particolari, come quella del trompe l'oeil, l'osservatore non può far altro che approvare l'abilità dell'artista, ma l'opera in sé non gli dice niente di poetico, niente che lo possa aiutare a capire tante altre cose.

 

Oggi si può dire che il tuo bisogno di conquistare spazi vitali, non solo per ragioni comunicative ma etico-sociali, sia partito dal momento in cui iniziasti ad uscire dallo specifico pittorico, sia pure per le esigenze di ordine estetico di allora?

Può essere così, perché io sono sempre interessato a qualunque possibilità tecnica di costruzione di immagini, quindi, a “materie” di vario tipo. Lo strumento può essere semplicissimo come il pennello, ma anche complicato come il computer. Ciò non vuol dire che, di fronte al nuovo, si debba buttare via tutto il resto.

 

Negli anni Trenta hai realizzato le “macchine inutili” (diventate “utili” ad altri artisti che le hanno ingigantite...), poi sei stato il teorico dell'Arte programmata e dell'opera aperta (da cui è sorto un diverso rapporto con il destinatario ed è derivata una certa indifferenza per l'opera-feticcio); hai attuato il progetto dei “Laboratori” per creare la società del futuro (più realistico di quello di Beuys che voleva plasmare la “scultura sociale”). Inoltre, hai adottato un metodo operativo non romantico e allargato il concetto di arte praticando l'interdisciplinarità e l'arte applicata. E, secondo me, hai un po' anticipato perfino il linguaggio del corpo che, in tempi non sospetti, era già nelle tue “dimostrazioni teorico-pratiche”. Tutte queste “invenzioni” e le altre che non ti elenco perché le conosci..., sono nate da felici intuizioni del momento o sono “maturate” dalla tua formazione di tipo razionale?

Questa è una domanda a grappolo, ci vorrebbe un mese per parlare di tutto. Comunque, molto brevemente, posso dire che la mia curiosità mi spinge a sperimentare e a conoscere i vari modi di comunicare. Io cerco di seguire il mio istinto, la mia natura...

 

Le esperienze degli altri artisti del “contemporaneo” non hanno avuto alcuna influenza sul tuo lavoro di questi anni?

Tutti gli artisti si influenzano a vicenda. Se uno scopre qualcosa, gli altri possono riprendere la scoperta e acquistano valore solo se vanno un po' più avanti, non se fanno solo delle varianti.

 

Per la voglia di conoscere e di sperimentare, non ti sei mai soffermato più di tanto sulle tue ideazioni per sfruttarne il successo, anzi, giocando con l'arte e semplificando per finalizzarle socialmente, in un certo senso, hai demitizzato anche la tua immagine di artista-geniale... Questa operazione estetica allargata a dimensione sociale vuole affermare che ci può ancora essere un legame costruttivo tra arte e vita?

Il legame ci deve sempre essere. Fa parte della natura dell'artista. Comunque, io non mi sono mai preoccupato di questa regola. Cerco di essere quello che sono.

 

Perché ora i tuoi “laboratori” sono rivolti anche agli adulti?

È un tentativo per cercare di liberare gli adulti dai preconcetti e dai limiti che loro stessi si impongono. In quello del Museo Pecci di Prato - che è stato il primo del genere e che io ho intitolato “Laboratorio liberatorio” - gli adulti sono invitati a guardare come reagiscono i bambini di fronte a certi stimoli, per provare anche loro ad agire senza prima pensare, perché, se uno riflette troppo, fa una cosa che sapeva già e non riesce a scoprire qualcosa a cui non avrebbe mai pensato.

 

La convinzione di dedicare molte energie per migliorare la società con i tuoi insegnamenti, rinunciando a produrre solo pezzi unici per pochi e alla speculazione mercantile, scaturisce anche da una ideologia di tipo altruistico?

Noi ci lamentiamo che la società è corrotta, ma non possiamo, come dice Piaget, modificare la mentalità degli adulti. Ci dobbiamo occupare dei bambini che sono la società nuova, che è già qui adesso, per prepararli in modo creativo, efficace a comunicare.

 

Quando l'arte pura sconfina nell'arte applicata per collegarsi al mondo pratico o diventa azione sociale, si deve parlare di morte dell'arte o di rinascita?

Certe volte l'arte è applicata... al commercio. Se io fossi costretto dal mio mercante (per fortuna non ho legami stretti con nessun gallerista), dietro un contratto molto vantaggioso, a produrre lo stesso tipo di opera in continuazione, farei, appunto, arte applicata al commercio; mentre, se le opere d'arte vengono fuori spontaneamente dalle mie considerazioni e dalle mie osservazioni sulla realtà sia interiore che esteriore, faccio dell'arte, cosiddetta, “pura”. Comunque, quando io realizzo degli oggetti di design, metto lo stesso impegno che in un'opera d'arte. Anche lì è questione di metodo.

 

Dall'opera pittorica e plastica agli sconfinamenti nello spazio reale e sociale. Sei giunto al traguardo desiderato? Senti di avere potenzialità inespresse?

Non ancora. Sono sempre ansioso di poter fare qualcosa che non ho mai fatto. Ho tanti progetti, ma mi manca il tempo per realizzarli tutti.

 

Col passare degli anni cosa hai scoperto...?

Ho accumulato tante esperienze in ogni campo, ma ce ne sono tanti altri da esplorare. È più quello che non si sa di quello che si sa.

 

Come artista-designer razionale che opera per l'esterno, sei portato ad analizzare anche i fenomeni sociali?

Non si può essere al di fuori dei fatti sociali, ne sei coinvolto. Se essi non ti sembrano giusti, puoi anche cercare di correggerli, oppure se credi di scoprire qualcosa che non va, sarebbe bene comunicarlo, di modo che anche gli altri possano capire. In questa società ci sono delle contraddizioni, dei modi di lavaggio del cervello e di preparazione del pensiero sociale. Per esempio, qualche giorno fa sono dovuto andare in chiesa per un funerale ed ho ascoltato il prete. Non so se la gente si rende conto di quello che dice: “San Giuseppe intercedi per noi; Sant'Antonio...”. Faceva l'elenco di tutti i santi e chiedeva aiuto a tutti. Questo mette nella mente delle persone l'idea che da sole non potranno mai fare niente e che c'è sempre bisogno dell'aiuto di qualcuno. Difatti, dalla gente normale si sente dire: “Io non ho nessun santo in Paradiso che mi aiuti...”.

 

Il dissenso dell'artista si deve manifestare solo all'interno del sistema dell'arte?

Non credo. L'artista, se ha un pensiero che può aiutare lo sviluppo sociale, deve intervenire nella società come faccio io, solo che lo deve fare nel modo giusto, pensando ai tempi lunghi e, quindi, alle nuove generazioni. Con i miei collaboratori, abbiamo verificato che i bambini hanno capito come devono guardare la natura, disegnare, comunicare. Degli operatori ne hanno seguiti certi dalla scuola materna alle medie ed hanno visto che le metodologie acquisite restano nel tempo e servono per capire meglio la realtà.

 

Sono veramente tramontati gli ideali di socialismo?

Non credo che l'ideologia in genere possa tramontare... È come l'utopia. È una realtà ideale che tutti cercano di raggiungere, però, a volte, ci sono i politici che strumentalizzano le ideologie a proprio vantaggio, invece che a vantaggio del pubblico. Può sembrare che esse finiscano; al contrario, finiscono i malfattori che le usano.

 

Il capitalismo conquisterà il mondo?

È come chiedere al direttore della banca d'Italia come sarà l'arte del futuro...

 

Ma avrai pure una tua idea al riguardo!?

Mi viene in mente quel famoso libro di Fromm “Essere o avere”. In esso c'è già una bella considerazione su come si dovrebbe concepire il futuro. Però, la spinta capitalistica è talmente potente e, oltre tutto, influisce sulle persone ignoranti che sono tante... L'Essere invece dell ‘Avere è difficile da capire per un persona che non ha cultura, perché dice: “Ma per essere bisogna avere!”. Io penso che nella vita, quando uno fa un lavoro che gli piace, non ha bisogno più di niente; nemmeno di essere ricco, perché è soddisfatto di se stesso. Ci sono tanti che accumulano denaro, ma non si realizzano, perché il denaro porta solo delle preoccupazioni: “Se ne ho tanto, devo investirlo, se no lo perdo”, oppure, “Ho paura che me lo rubino”. Ci sono un'infinità di aspetti negativi. Io dico sempre: “Quando si ha una lira in più di quello che serve per essere liberi, dovrebbe bastare”. E, invece, il principio dell'avere è molto diffuso...

 

Allora, qual è la vera saggezza dell'uomo?

Di Essere e non quella di Avere, anzi, un'altra cosa che ho imparato dal pensiero giapponese è questa: “Una persona vale per quello che dà e non per quello che prende”.

 

E quand'è che un artista può considerarsi libero?

Quando può fare quello che gli viene in mente anche contro il mercato dell'arte, contro le tendenze del momento.

 

Tu sei un uomo libero?

Credo di esserlo, salvo gli impegni... Però sono libero di scegliere gli impegni...

 

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste) , n. 64, ottobre-novembre 1993, pp. 44-45]