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PAOLO CANEVARI PDF Stampa

Da dove discende la tua voglia di fare arte oggettuale o opere che invadono lo spazio coinvolgendo gli spettatori?

La possibilità di rendere “presente” fisicamente l'opera è, innanzitutto, una scelta ideologica, come nella mostra “Small Medium Large” al Museo di Arte Contemporanea Pecci di Prato dove ho installato “Ombra”: un disegno su carta di metri 12 x 4,50, a penna biro montato come un velario e, al di sotto, l'immagine speculare, tridimensionale, un “volume” fatto di rifili di carta nera. Tutto, quindi, è rimuovibile con facilità in antitesi con l'impatto più violento e imponente dell'immagine iniziale.

 

Perché usi costantemente oggetti “domestici” di diversa provenienza?

C'è una sorta di curiosità, di interesse a trasformare le cose di uso comune, di scommessa sull'accrescimento del significato che può avere un'opera d'arte. Per me la poesia nasce dalla povertà dei mezzi, da un alfabeto che appartiene a tutti. Penso ad oggetti di recupero di materiale povero (la carta pesta, la camera d'aria, un lenzuolo, la carta d'alluminio per avvolgere i cibi...).

 

Cos'altro hanno in comune i vari materiali che nel tempo hai privilegiato?

La semplicità che si riflette in essi, la loro quotidianità. Non credo alla monumentalità e alla “durata” delle opere come espressione di una ideologia retrograda lontana dalla nostra realtà. Cerco di riportare l'opera ad una dimensione più immediata e, volontariamente, più fragile.

 

Hai abbandonato definitivamente l'uso della gomma nera che qualche anno fa aveva caratterizzato la tua produzione?

Recentemente ho fatto una serie di lavori: piccole sculture in carta pesta (una sorta di ex-voto) realizzate con giornali macerati e colla, contenute in ciotole fatte proprio con camere d'aria. Non uso solo un materiale e posso tornare su quelli già utilizzati in precedenza.

 

Quale urgenza ti ha indotto ad usare anche il vetro?

La necessità di unire il disegno come “appunto”, come “idea prima” ad un materiale rigido e fragile. La scelta di operare per sottrazione (dipingo di tempera nera tutta la superficie, poi, velocemente, prima che asciughi, debbo disegnare l'immagine che ho in mente) è un atteggiamento scultoreo.

 

Da che dipende la tua fedeltà al disegno che, praticamente, accompagna quasi tutta la produzione oggettuale?

Direi, dall'”educazione”. Ho sempre disegnato fin da bambino, proprio come prima preparazione di un progetto, e questa “abitudine” che mi è rimasta mi consente anche un'espressione più diretta. Il film, realizzato con “disegno animato”, è nato da tale esigenza.

 

Che relazione vuoi instaurare tra l'opera e lo spazio che la accoglie?

Come ti accennavo, lo spazio non è mai aggredito: mi sento sempre un ospite al suo interno e l'opera deve mantenere quel significato: faccio in modo che entri a far parte di esso, imponendosi e, al tempo stesso, adattandosi.

 

Con l'uso di più tecniche e linguaggi che interagiscono (disegno / colore / oggetti trovati e costruiti / films / opere oggettuali / installazioni), sembra che tu voglia sfuggire ad ogni classificazione...

Credo nell'uomo, nell'artista eclettico, al di fuori di certe classificazioni e dogmatismi di una società e di un sistema che io sento lontani dal mio modo di pensare.

 

Cosa c'è di stabilito quando inizi un'opera?

Penso che un'opera viva già all'interno della nostra più comune esistenza, cresce, matura. In un certo senso, iniziare materialmente un lavoro è un po' decretarne la fine...!

 

Parlami del lavoro in corso sulle “sindoni”?

Le “sindoni” è l'ultima serie di lavori che sto facendo con una tecnica, in realtà, piuttosto banale. Sotto un lenzuolo bianco viene posta una persona o un fantoccio che ha un aspetto antropomorfo. Con una bomboletta spray di colore nero ottengo delle vere e proprie sindoni da cui - una volta riportata l'immagine in piatto - traspare una sorta di ombra, quasi di bruciatura. Queste opere vivono della semplicità dell' esecuzione e dell'amplificazione del significato.

 

Il deterioramento di certi materiali che usi non ti preoccupa?

Credo nella forza delle idee. Tutto ciò che è materiale o legato al concetto di “permanenza” mi sembra molto relativo, soprattutto in questo momento storico.

 

Anche l'utilizzo dei fumetti come supporto rientra in questa logica?

Sì. Su questo supporto ho disegnato delle silhouettes nere;sono incubi che escono dalla fantasia di un ex-bambino, dalla memoria di un adulto a cui tornano in mente le immagini del passato. I fumetti che ho usato, non a caso, sono della Marvel Comics, superamericani: un po' quello che per i bambini rappresentano oggi i cartoni animati dei giapponesi, cioè un tipo di prodotto molto violento e politicizzato, anche se non sembra. Lavorare su quel supporto è stata una decisione concettualmente importante.

 

Secondo te, per far vivere l'opera è sufficiente coinvolgere emotivamente chi la guarda nel presente, senza preoccuparsi della sua durevolezza...?

Sì, l'opera vive prima per l'artista che l'ha realizzata, poi per chi la fruisce in determinati ambienti. Io penso che ci sia un tempo per tutto. Mi interessa il contenuto emozionale che può essere evocato in chi la guarda.

 

Allora, che significato acquista la tua opera plastica in rapporto al tempo e a chi la frequenta?

Il significato deve scaturire dalla riflessione sull'esistenza, per cui il materiale, il concetto rappresentato nell'opera vanno di pari passo.

 

Se tutto è caduco, qual è il tuo concetto di storia?

È quello della memoria. Il lavoro che ho intitolato “Memoria mia”, riflette proprio tale esigenza, l'attenzione per la storia: quella che è dentro di noi, che abbiamo vissuto.

 

La necessità di riscoprire l'infanzia e di comunicare la tua esperienza ti spinge ad usare un linguaggio elementare?

La semplicità della fruibilità dell'opera deve attraversare la tecnica e la maniera di formalizzare un concetto. L'evocazione dell'infanzia comporta questo passaggio. Solo così si può riuscire a dare un'impressione, a trasmettere un senso che è comune, perché è stato vissuto da tutti.

 

Dal dinamismo che caratterizza la produzione sembra che tu dia più rilievo al lavoro inteso come ricerca che all'opera come momento di arrivo...

È così. Nella prima serie di opere con le camere d'aria - che vivevano sulla manipolazione del materiale - il dinamismo era accentuato per cercare di stimolare la ricerca di un senso nelle cose. Il materiale che viene usato, la tecnica tendono a questa identificazione. Invece, il dinamismo “esterno” all'opera rispetto al diverso uso dei materiali mira proprio a ricercare un senso che sia più totalizzante, più generalizzato, più comprensibile; che abbracci possibilità più ampie.

 

Ti sta molto a cuore democratizzare l'opera?

Rispetto al significato politico di fare arte, certamente. Io credo in un'arte fruibile da tutti con le varie differenziazioni dovute ai diversi metri culturali.

 

Nel tuo caso, è corretto parlare di una “coerenza della trasgressione”?

Se l'idea di trasgressione è legata ad un sistema dell'arte come l' attuale, io non mi riconosco nella trasgressione. La coerenza fa parte dell'etica legata all'esperienza personale.

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste) , n. 66, febbraio-marzo 1994, p. 48]