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In tempi non sospetti hai sviluppato esperienze poveriste e concettuali con opere oggettuali e installazioni sui generis. Poi hai metabolizzato elementi della Pop-art, del Dada, del Futurismo e perfino del Surrealismo. Anche se potresti essere figlio di tutti e di nessuno, da chi preferisci discendere?

Mi piace usare il magazzino delle arti, senza complessi verso passato e futuro. Discendere da tutti per essere almeno uno.


In breve, cosa ha rappresentato per te il lavoro svolto nell’ambito dell’arte torinese degli anni ‘60?

Un buon inizio, anche se io devo più a Milano la mia formazione. Torino mi ha mostrato subito la grinta  dell’establishment, l’arte per gruppi e precotta.


La scelta di differenziare irrevocabilmente il tuo prodotto da quello dei vicini di casa  fu dovuta solo alla irrefrenabile vocazione o si trattò anche di una decisione ragionata, ideologica?

Si fa ideologia del casuale, a volte. Un senso di insofferenza mi ha fatto guadagnare una posizione autonoma e salutarmente marginale. Su questo tema lavoro a mio agio; ho la possibilità di vedere prospetticamente.


Un indirizzo in un certo senso isolazionista, anche se non sei stato il solo ad azzardare prendendo una via più personale (penso a Gilardi, a Mondino, a Piacentino...)...

Non c’è coraggio nelle proprie attitudini. Questi tre artisti sono così diversi... Gilardi, emarginato dal sistema dell’arte in cui aveva creduto, è divenuto - per forza - un outsider; Mondino è un vero dandy; Piacentino un  isolato, incompreso e trascurato. Io ho ragionato molto sul destino degli isolati ed ho elaborato le mie posizioni critiche.


Vuoi dire che altri artisti della tua generazione sono stati troppo promossi?

Non solo... Quelli dell’Arte Povera , ad esempio, sono morti  per eccesso di benessere. Son diventati gli artisti-pompieri di quel sistemino  spacciato all’inizio per incendiario.


Oggi cosa ti fa essere intransigente nei confronti del loro lavoro?

La noia dell’artificialità che genera la morte della creatività e sbarra il passo ai giovani.


Che rimproveri, in particolare, alla cosiddetta “Arte di guerriglia”?

Di aver fatto, più che altro, guerriglia nei salotti buoni.


La tua è legittima difesa o aggressione?

Il mio temperamento è d’attacco. Non sopporto l’arroganza: quella culturale è violenta come quella fisica, sortisce gli stessi effetti.


Cosa ti è rimasto di allora oltre la voglia di costruire l’opera oggettuale e il piacere di sperimentare?

L’atteggiamento di continuo superamento, l’insofferenza per le formule.


Perché tieni a far rilevare che la superficie nasconde una sua profondità?

È un discorso che ha fatto Guido Allemandi a proposito del mio lavoro e mi pare che, tra l’altro, significhi l’opportunità delle letture multiple, a vari livelli.


Quanto conta per te l’aspetto estetico, decorativo?

Viviamo un’epoca più che barocca (Calabrese), direi con Vattimo, rococò. Il visivo nasconde tutti i drammi del mondo.


La bellezza cosa vuole coprire?

La morte.


L’idea del puzzle, associabile a quella della serialità e alla produzione meccanica, è nata da un’esigenza comunicativa?

Dall’esigenza di una sharp image; dalla voglia di sintesi, di lettura visuale immediata. La tecnica mi permette di cogliere le occasioni più diverse: visive, sociali, psicologiche. Su questi temi costruisco a saltelli    un’immagine unitaria.


A parte l’iconografia facilmente riconoscibile, le opere, pur essendo realizzate con procedimenti manuali e artigianali, per la loro finitezza sembrano impersonali. Ti interessa oggettivare anche il linguaggio tecnico?

Negli ultimi anni mi sono adoperato con strategie varie a personalizzare  il mio linguaggio. L’impersonalità è un’ottima figlia del warholismo, ma è datata.


La qualità è più frutto dell’immediatezza o dell’elaborazione?

In arte l’immediatezza non ha senso; neppure nella pittura d’azione si può parlare d’immediatezza. Fare arte è roba per tempi lunghi, per elaborazioni stratificabili.


La tua prolificità dipende pure dal piacere di lavorare giocando con l’arte?

È anche  il piacere della fatica continua; quella eterna prova a cui ci si sottopone per sentirsi vivi e partecipi.


Concepire il lavoro artistico come hobby giova alla naturalezza del fare e all’aspetto familiare che assume il prodotto finale?

Sì, l’arte tutta deve essere un hobby lungo una vita e da coltivare professionalmente.


Riesce a sottrarti alle angosce del quotidiano?

Per me fare arte non è evasione; è l’invenzione di una sfera parallela che ha tutte le caratteristiche del Mondo intorno; una volontà maniacale di dimostrare (a me stesso) la capacità di dare forma al caos, di dominare le cose, la materia.


Che giudizio dai del mondo consumistico dove il tuo prodotto nasce e circola?

Un “mondo” meno ipocrita di altri, carico di sfide e privo di tardo romanticismo d’accatto.


Perché ricorri all’estremismo cromatico?

Per esigenze compositive; per far dialogare figurazione con astrazione; potenziare l’ironia; abolire il calvinismo; abbracciare la tradizione; puntare dritto al cuore delle cose.


Ampliando lo sguardo: secondo me, anche nei rapporti col reale, carica ironica di disapprovazione e partecipazione-accettazione, sostanzialmente, convivono. La tua critica al presente, in fondo, è bonaria, tollerante, forse perché senti di appartenere, se non altro linguisticamente, a quello stesso contesto della modernità...

Non mi sono mai chiamato fuori. Esigo solo la mia autonomia. Io sono la mia modernità  mentre guardi  il resto e gli altri.


Parlando della tua produzione piuttosto anomala è d’obbligo fare un raffronto con la situazione artistica dominante. Io direi che insieme con la critica da te espressa attraverso un uso provocatorio delle immagini dell’avanguardia, manifesti la voglia di voler andare oltre ripartendo dall’esistente, cioè da posizioni avanzate. Comunque, non c’è derisione e mostri il piacere di dialogare, di compiere quasi una operazione di strumentalizzazione formale e perfino concettuale; di voler esprimere  un giudizio critico e, a un tempo, essere competitivo, sia pure con travestimenti, sfruttando la parodia e la riformulazione.

È una magnifica sfida   in un campo d’azione vasto ed entusiasmante. Posso, cioè, spaziare ed agire in lungo ed in largo, up and down.


Con i tuoi dubbi sulla modernità - espressi attraverso l’ironia, il gioco e il ritorno all’elementare - vuoi affermare che oggi è impossibile essere veramente nuovi?

Assolutamente no, a patto di evitare il nuovo di massa, quello predisposto per accontentare i palati tasta-consumismo. Evitare il nuovo internazionale  e dai sapori indecifrabili come la cucina. Non contesto l’avanguardia, dico solo che non esiste, perché nasce nel museo. È un animale nato in cattività, per questo è prevedibile e docile (troppo docile).


Chi sono i tuoi principali stimolatori a livello linguistico?

Il mondo è segno  e la vita pure. Una riserva enorme a cui attingere. Lì io ricerco afasie, contrapposizioni, stridori, disarmonie.


Da quali aspetti della realtà sei più attratto?

Dallo spessore del contemporaneo  e dalla intellettualità degli eventi. Forse dall’astrazione della/dalla realtà.


È più difficile afferrare un’immagine oggettiva che sia il vero testimone della realtà o crearne una nuova capace di sottrarsi alla retorica del quotidiano?

È più difficile disporre strumenti estetici in sintonia col mondo che creare sistemi paralleli che s’alimentano di sterile retorica.


In te c’è una voglia scenografica in espansione, di fare arte per tutti invadendo spazi privati e pubblici con le immagini gioiose. Rallegrare la vita, almeno visivamente, è uno degli scopi della tua arte?

Considero la mia arte tragica  e quindi non in grado di addolcire niente. Solo le letture facili si prestano a soluzioni consolatorie.

 

Il successo che il tuo lavoro incontra presso il pubblico è funzionale al tuo discorso?

È indispensabile. La mia arte non potrebbe esistere senza il consenso orizzontale. Se l’opera non ha spettatori è uno spettacolo fallito. Il fallimento, ad esempio, dell’accademia delle presunte neo-avanguardie.


A proposito della moda  del medialismo e di certa figurazione ironica, provi soddisfazione per la propagazione delle tue anticipazioni...?

Medialismo, figurazione ironica, para-futurismo e quant’altro son tendenze dilaganti in anni di sgretolamento dell’idea purista  di arte inaugurata da Clement Greenberg che aveva portato alla noia ed all’impotenza. Mi considero una voce non sospetta per aver dato il via negli anni Sessanta ad una tendenza anticipatrice e difficile  da sostenere.


Ultimamente è subentrato un momento liberatorio da un sistema codificato per dare sfogo ad una diversa fertilità compositiva?

Credo d’aver consolidato la mia figura d’artista con una propria individualità tra le mandrie intorno. Su questo assunto intendo fondare il mio lavoro futuro che  riparlerà di cinema, arte espansa, comunicazione, blando veleno sullo stereotipo del sistema dell’arte.


Hai detto che vuoi riprendere l’attività di filmaker... Perché questo ritorno di fiamma?

Il cinema è stato ed è ancora per me uno dei media sghembi  che mi permette incursioni non commerciali nel mondo dell’immaginario. Ho bisogno di tornare a gesti meno finalizzati, al di sopra di ogni sospetto.


Come mai hai deciso di parlare... pubblicando articoli critici... sulla situazione del sistema dell’arte?

Odio le ipocrisie e la reticenza che invece regnano sovrane, anzi alimentano il sistema dell’arte. Io scrivo (come pochi altri artisti) per evidenziare intanto che l’Artista può anche non essere analfabeta e poi perché mi pare doveroso intervenire nel merito delle cose dell’arte dal momento che è il terreno che da tanti anni tento di esplorare.


Riguardo alla tua strategia operativa noto la tendenza a compiere incursioni in territori extrapittorici con l’uso di tecniche diversificate e di stabilire un rapporto culturale di alleanza con scrittori, filosofi ed altri intellettuali di primo piano. Senti il bisogno di arricchire l’opera con una lettura diversa ?

Il sogno delle avanguardie storiche era, forse, quello di portare l’arte nella vita. Oggi lo si può davvero fare, ma si deve andare allo scoperto, rischiare, uscire dallo specifico.


Diamo uno sguardo al tuo attuale indirizzo. Nei lavori degli anni scorsi ti vedevo piuttosto vicino alla posizione di alcuni pop-artisti americani anche se avevi una visione più critica del mondo. Nelle opere recenti, invece, hai seguito una strada linguisticamente più indipendente, quasi per rivendicare una tua più chiara posizione rispetto all’assunto. L’appropriazione di forme note come citazione, se non sbaglio, è diventata ancor più strumentale, mentre l’opera è maggiormente al servizio dell’immaginario, anche se non è stata privata delle intenzioni culturali e sociali a tuo modo contestative. Voglio dire che ora dai più importanza all’elaborazione delle composizioni. Mi sembra, cioè, che sia subentrata una tua maggiore interferenza sul soggetto prelevato dall’esterno. Ti sei maturato; il gioco delle figurine  è cambiato; il bambino che è in te si diverte meno a guardare l’esistente, pur sentendo un travolgente desiderio di decorare  il mondo, di teatralizzare la vita...

L’inizio in chiave pop però era di non esaltazione del consumismo d’oltreoceano o nostrano. Con l’andare del tempo quel linguaggio si è reso autonomo nel senso che è divenuto alfabeto e grammatica capace di dotarmi di un sistema intellettuale vero e proprio. Ho coniugato, dunque, narrazione di traverso con maggiore o minore elaborazione. Rimpiango solo di non aver sempre posto in atto la strategia più direttamente agguerrita e di confronto come avrei voluto fare. Le prossime mosse saranno in questa direzione.


Qual è ora il tuo orientamento in rapporto anche al sistema dell’arte a cui accennavi polemicamente?

Per poter sopravvivere materialmente nell’attuale organizzazione del sistema dell’arte ho dovuto crearmi delle strutture personali. Non volendo far parte di distribuzioni preconfezionate, ho reinventato un po’ tutto. Ho volto la mia arte ad essere più circolare, ad uscire da una torre di avorio ormai noiosissima; da un ghetto in cui era impossibile restare, perché era inutile macinare sempre con la stessa acqua. Allora, da una parte ho portato avanti il mio lavoro dei quadri; dall’altra ho cercato di sviluppare delle operazioni intellettuali: di scrittura (non di teorizzazione, ma di provocazione sui mezzi di informazione) e di cinema indipendente. Quindi, come tu stesso hai evidenziato, ho attuato degli interventi che espandono il concetto di arte anche in territori diversi.


Questa tua posizione può sembrare poco rispettosa dei canoni estetici tradizionali...

Anzi, direi il contrario. È “poco rispettosa” solo del modo di fare arte oggi, perché non seguo ciò che ci ha insegnato il neo-romanticismo dagli anni Sessanta in avanti... il quale ripropone ancora la figura dell’artista genio e sregolatezza che crea una cosa unica, irripetibile...


Ma quanta tradizione resiste nella tua attività?

Dopo il pensiero, il fare con le mani.


Nonostante i vari libri-cataloghi pubblicati, perché il tuo lavoro in certi ambienti trova ancora resistenze?

Perché non è allineato. Perché pare facile. Perché si fa i fatti suoi e non sottostà agli obblighi imposti dal sistema dell’arte. Perché pensa ed agisce di conseguenza.


Ti infastidisce dover difendere, ancora oggi, la tua posizione anomala nel contesto contemporaneo?

Assolutamente no. Lo trovo doveroso.


Più il tuo prodotto si espande... e più rischi e crei reazioni...

È naturale, ma gli schieramenti sono già fatti. Le reazioni sono salutari, alimentano la voglia di procedere, di proiettarsi.

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 70, dicembre 1994-gennaio 1995, pp. 38-39; in parte anche in «Hortus» (Grottammare), n. 25, 2002, pp. 133-278, 279-296 e 297-298]

 

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