NESPOLO |
In tempi non sospetti hai sviluppato esperienze poveriste e concettuali con opere oggettuali e installazioni sui generis. Poi hai metabolizzato elementi della Pop-art, del Dada, del Futurismo e perfino del Surrealismo. Anche se potresti essere figlio di tutti e di nessuno, da chi preferisci discendere? Mi piace usare il magazzino delle arti, senza complessi verso passato e futuro. Discendere da tutti per essere almeno uno.
Un buon inizio, anche se io devo più a Milano la mia formazione. Torino mi ha mostrato subito la grinta dell’establishment, l’arte per gruppi e precotta.
Si fa ideologia del casuale, a volte. Un senso di insofferenza mi ha fatto guadagnare una posizione autonoma e salutarmente marginale. Su questo tema lavoro a mio agio; ho la possibilità di vedere prospetticamente.
Non c’è coraggio nelle proprie attitudini. Questi tre artisti sono così diversi... Gilardi, emarginato dal sistema dell’arte in cui aveva creduto, è divenuto - per forza - un outsider; Mondino è un vero dandy; Piacentino un isolato, incompreso e trascurato. Io ho ragionato molto sul destino degli isolati ed ho elaborato le mie posizioni critiche.
Non solo... Quelli dell’Arte Povera , ad esempio, sono morti per eccesso di benessere. Son diventati gli artisti-pompieri di quel sistemino spacciato all’inizio per incendiario.
La noia dell’artificialità che genera la morte della creatività e sbarra il passo ai giovani.
Di aver fatto, più che altro, guerriglia nei salotti buoni.
Il mio temperamento è d’attacco. Non sopporto l’arroganza: quella culturale è violenta come quella fisica, sortisce gli stessi effetti.
L’atteggiamento di continuo superamento, l’insofferenza per le formule.
È un discorso che ha fatto Guido Allemandi a proposito del mio lavoro e mi pare che, tra l’altro, significhi l’opportunità delle letture multiple, a vari livelli.
Viviamo un’epoca più che barocca (Calabrese), direi con Vattimo, rococò. Il visivo nasconde tutti i drammi del mondo.
La morte.
Dall’esigenza di una sharp image; dalla voglia di sintesi, di lettura visuale immediata. La tecnica mi permette di cogliere le occasioni più diverse: visive, sociali, psicologiche. Su questi temi costruisco a saltelli un’immagine unitaria.
Negli ultimi anni mi sono adoperato con strategie varie a personalizzare il mio linguaggio. L’impersonalità è un’ottima figlia del warholismo, ma è datata.
In arte l’immediatezza non ha senso; neppure nella pittura d’azione si può parlare d’immediatezza. Fare arte è roba per tempi lunghi, per elaborazioni stratificabili.
È anche il piacere della fatica continua; quella eterna prova a cui ci si sottopone per sentirsi vivi e partecipi.
Sì, l’arte tutta deve essere un hobby lungo una vita e da coltivare professionalmente.
Per me fare arte non è evasione; è l’invenzione di una sfera parallela che ha tutte le caratteristiche del Mondo intorno; una volontà maniacale di dimostrare (a me stesso) la capacità di dare forma al caos, di dominare le cose, la materia.
Un “mondo” meno ipocrita di altri, carico di sfide e privo di tardo romanticismo d’accatto.
Per esigenze compositive; per far dialogare figurazione con astrazione; potenziare l’ironia; abolire il calvinismo; abbracciare la tradizione; puntare dritto al cuore delle cose.
Non mi sono mai chiamato fuori. Esigo solo la mia autonomia. Io sono la mia modernità mentre guardi il resto e gli altri.
È una magnifica sfida in un campo d’azione vasto ed entusiasmante. Posso, cioè, spaziare ed agire in lungo ed in largo, up and down.
Assolutamente no, a patto di evitare il nuovo di massa, quello predisposto per accontentare i palati tasta-consumismo. Evitare il nuovo internazionale e dai sapori indecifrabili come la cucina. Non contesto l’avanguardia, dico solo che non esiste, perché nasce nel museo. È un animale nato in cattività, per questo è prevedibile e docile (troppo docile).
Il mondo è segno e la vita pure. Una riserva enorme a cui attingere. Lì io ricerco afasie, contrapposizioni, stridori, disarmonie.
Dallo spessore del contemporaneo e dalla intellettualità degli eventi. Forse dall’astrazione della/dalla realtà.
È più difficile disporre strumenti estetici in sintonia col mondo che creare sistemi paralleli che s’alimentano di sterile retorica.
Considero la mia arte tragica e quindi non in grado di addolcire niente. Solo le letture facili si prestano a soluzioni consolatorie. Il successo che il tuo lavoro incontra presso il pubblico è funzionale al tuo discorso? È indispensabile. La mia arte non potrebbe esistere senza il consenso orizzontale. Se l’opera non ha spettatori è uno spettacolo fallito. Il fallimento, ad esempio, dell’accademia delle presunte neo-avanguardie.
Medialismo, figurazione ironica, para-futurismo e quant’altro son tendenze dilaganti in anni di sgretolamento dell’idea purista di arte inaugurata da Clement Greenberg che aveva portato alla noia ed all’impotenza. Mi considero una voce non sospetta per aver dato il via negli anni Sessanta ad una tendenza anticipatrice e difficile da sostenere.
Credo d’aver consolidato la mia figura d’artista con una propria individualità tra le mandrie intorno. Su questo assunto intendo fondare il mio lavoro futuro che riparlerà di cinema, arte espansa, comunicazione, blando veleno sullo stereotipo del sistema dell’arte.
Il cinema è stato ed è ancora per me uno dei media sghembi che mi permette incursioni non commerciali nel mondo dell’immaginario. Ho bisogno di tornare a gesti meno finalizzati, al di sopra di ogni sospetto.
Odio le ipocrisie e la reticenza che invece regnano sovrane, anzi alimentano il sistema dell’arte. Io scrivo (come pochi altri artisti) per evidenziare intanto che l’Artista può anche non essere analfabeta e poi perché mi pare doveroso intervenire nel merito delle cose dell’arte dal momento che è il terreno che da tanti anni tento di esplorare.
Il sogno delle avanguardie storiche era, forse, quello di portare l’arte nella vita. Oggi lo si può davvero fare, ma si deve andare allo scoperto, rischiare, uscire dallo specifico.
L’inizio in chiave pop però era di non esaltazione del consumismo d’oltreoceano o nostrano. Con l’andare del tempo quel linguaggio si è reso autonomo nel senso che è divenuto alfabeto e grammatica capace di dotarmi di un sistema intellettuale vero e proprio. Ho coniugato, dunque, narrazione di traverso con maggiore o minore elaborazione. Rimpiango solo di non aver sempre posto in atto la strategia più direttamente agguerrita e di confronto come avrei voluto fare. Le prossime mosse saranno in questa direzione.
Per poter sopravvivere materialmente nell’attuale organizzazione del sistema dell’arte ho dovuto crearmi delle strutture personali. Non volendo far parte di distribuzioni preconfezionate, ho reinventato un po’ tutto. Ho volto la mia arte ad essere più circolare, ad uscire da una torre di avorio ormai noiosissima; da un ghetto in cui era impossibile restare, perché era inutile macinare sempre con la stessa acqua. Allora, da una parte ho portato avanti il mio lavoro dei quadri; dall’altra ho cercato di sviluppare delle operazioni intellettuali: di scrittura (non di teorizzazione, ma di provocazione sui mezzi di informazione) e di cinema indipendente. Quindi, come tu stesso hai evidenziato, ho attuato degli interventi che espandono il concetto di arte anche in territori diversi.
Anzi, direi il contrario. È “poco rispettosa” solo del modo di fare arte oggi, perché non seguo ciò che ci ha insegnato il neo-romanticismo dagli anni Sessanta in avanti... il quale ripropone ancora la figura dell’artista genio e sregolatezza che crea una cosa unica, irripetibile...
Dopo il pensiero, il fare con le mani.
Perché non è allineato. Perché pare facile. Perché si fa i fatti suoi e non sottostà agli obblighi imposti dal sistema dell’arte. Perché pensa ed agisce di conseguenza.
Assolutamente no. Lo trovo doveroso.
È naturale, ma gli schieramenti sono già fatti. Le reazioni sono salutari, alimentano la voglia di procedere, di proiettarsi. A cura di Luciano Marucci [«Juliet» (Trieste), n. 70, dicembre 1994-gennaio 1995, pp. 38-39; in parte anche in «Hortus» (Grottammare), n. 25, 2002, pp. 133-278, 279-296 e 297-298]
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