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PIERO GILARDI E LO SPAZIO VIRTUALE PDF Stampa

Gilardi, quando ti sei posto il problema del nuovo linguaggio tecnologico?

Nell' ‘85 ho affrontato il problema delle nuove tecnologie e dei nuovi media con delle motivazioni sostanzialmente politico-ideologiche, perché si cominciava a capire - in ritardo - che la società stava cambiando sotto la spinta della cosiddetta “rivoluzione informatica” e che gli strumenti tradizionali dell'opposizione politica e culturale diventavano obsoleti. Dall'altra parte la problematica delle nuove tecnologie riaccendeva un mio giovanile interesse per l'artificialità espresso nella mostra “Macchine per il futuro” del 1963 alla galleria L'Immagine di Torino. Questa mostra, composta di modelli e grafici pseudoscientifici, era la prefigurazione certo ingenua, ma indubbiamente profetica, di una società cibernetica, non dissimile da quella che si sta oggi sviluppando con l'informatizzazione, la virtualizzazione e i nuovi media.

 

Quali sono le tue riflessioni di oggi sulla virtualità?

Un paio di anni or sono è scoppiata la moda delle Realtà Virtuali, ma per chi lavorava dagli anni ‘80 sull'immagine sintetica e sulla simulazione informatica non si tratta di una grande novità. Ad esempio, nel mio progetto IXIANA, nella versione del 1989, c'era già una postazione di RV, con tanto di data glove nel percorso dei sensi creativi informatizzati. Al di là della moda , che è praticamente già esaurita, le RV si stanno sviluppando tutto intorno a noi, pervadono gradualmente non solo il mondo dell'entertainement, ma anche campi di attività come la medicina e la progettazione e, quindi, tendono a ridefinire i nostri modi di pensare, agire e relazionarsi. L'informazione scientifica dà oggi conto di tutto un pattern di ricerche avanzate che stanno lavorando alle basi di una nuova forma di pensiero che si può definire “bionica”. Da una parte si lavora allo scopo di collegare direttamente i circuiti neuronali del nostro cervello a dei tracciati elettronici, saltando quindi gli interfaccia odierni; dall'altra si elaborano dei sistemi informatici di collegamento tra più persone all'interno di un ambiente virtuale. L'obbiettivo è di costituire dei dispositivi che permettano di creare all'istante dei nuovi oggetti con la sola forza del pensiero e attraverso la sinergia di più persone. Se immaginiamo questo dispositivo, la cui realizzazione non è lontana, proiettato nel sistema delle reti telematiche (come Internet) già in funzione, si può prefigurare una estensione virtuale delle nostre menti sull'intero pianeta, cioè una sorta di inconscio collettivo artificiale analogo a quello che connetteva i nostri antenati preistorici. Credo che questo esempio sia sufficiente a misurare la portata del cambiamento indotte alle RV e più in generale dalla simbiosi tra essere umano e macchina informatica, tra pensiero umano e software cibernetico.

 

Nella virtual reality che posto occupa la metafora?

Se ripensiamo all'esempio che ho fatto prima, quello della creazione di oggetti della sola forza del pensiero, mi pare evidente che si tratta di un processo che estroflette anche le dinamiche psicologiche interiori e che quindi può generare metafore. Nelle odierne opere d'arte virtuali c'è sovente una porta di accesso ai mondi inconsci. Ad esempio, nell'opera “Handsight” dell'ungherese Agnes Hegëdus c'è la possibilità di esplorare una memoria retinica navigando, nelle tre dimensioni, in una sorta di scenografia onirica originata da determinate sensazioni dell'autrice. Tuttavia il paradosso è che la RV non può essere considerata in se stessa una metafora in quanto si tratta di una modellizzazione esatta e computazionale di un determinato ambiente o di un determinato fenomeno; è sufficiente pensare agli interventi chirurgici assistiti da RV per comprenderne il paradigmatico realismo. Più in generale, tutta la simulazione informatica non è mai una simbolizzazione metaforica; è famoso l'esempio di un archetipo dell'infografia: il paesaggio marino “Carla's island” di Nelson Max, nel quale il gioco delle onde è ricreato non in base alle sue apparenze ottiche, ma sulla scorta delle leggi fisiche della dinamica dei fluidi.

 

C'è un legame tra l'artificialità dei tappeti-natura e quella delle altre opere realizzate con la tecnoscienza?

Direi che c'è una consustanzialità profonda, ma al tempo stesso una grande differenza. L'idea dei tappeti-natura l'ho maturata nel 1964 quasi come una deduzione dal progetto delle macchine per il futuro ; infatti nella cellula abitativa individuale dovevano esserci dei quadri ghestaltici con una funzione psicoterapeutica; quando tentai di concretizzare sperimentalmente quei quadri, sentii l'esigenza di attualizzarli con il vissuto della natura artificiale tipico degli anni ‘60, pur mantenendo il dato del funzionalismo del progetto iniziale, tradotto nella utilitarietà del tappeto. Penso che l'elemento di continuità che collega i tappeti-natura alle mie odierne installazioni computerizzate sia il bisogno di artificialità che è un bisogno profondamente umano-biologico nel senso che l'uomo, come tutti gli organismi viventi, ricrea artificialmente il proprio ambiente nella ricerca di una migliore ergonomia esistenziale. Superato il punto di vista antropocentrico della vecchia epistemologia, cade la tradizionale opposizione tra naturale ed artificiale, tra natura e cultura. La differenza sta invece nel fatto che i tappeti-natura appartenevano, per le loro caratteristiche linguistiche e concettuali, all' “era della riproducibilità tecnica dell'opera d'arte” teorizzata da Walter Benjamin ed ora superata nella nuova era della produzione informatica immateriale. Nella odierna società postindustriale la produttività sociale ha al proprio centro non più l'oggetto di grande serie, ma l'informazione e quindi il senso che ne deriva; le tecnoscienze sono decisamente trainanti in questa produzione del senso ed è per questo che oggi l'arte ha la necessità di ibridarsi con esse, superando l'ambivalenza amore-odio vissuta durante la modernità del ‘900 nei confronti della tecnica.

 

Siete contro le “macchine celibi” di Duchamp?

Diciamo che non sussistono più le ragioni che hanno motivato le macchine celibi: la fase della modernità alla quale si riferiva il loro gran rifiuto è storicamente esaurita e se Duchamp aveva preconizzato la svolta postcartesiana del pensiero, oggi il caos è già una teoria applicata diffusamente; uno scienziato come Francisco Varela annota tranquillamente, con tanto di verifiche neurofisiologiche: “quello che chiamiamo tradizionalmente irrazionale e il non-conscio non contraddice ciò che appare razionale ed intenzionale: costituisce le sue vere fondamenta”. Le nostre opere possono quindi essere delle “macchine coniugate”, cioè macchine realmente funzionanti; di questo funzionamento gli artisti colgono ed evidenziano la valenza linguistica e relazionale. Queste macchine sistemiche sono realmente dei partners - e non meramente degli strumenti - nello sviluppo di un flusso creativo che ha origine dall'artista-programmatore, che si espande attraverso il software e che si evolve nella navigazione interattiva del pubblico.

 

In fondo, con i nuovi media interattivi viene esasperato il concetto di opera aperta .

Direi di più. Direi che l'opera tecnologico-interattiva è intrinsecamente un'opera aperta, nel senso che essa non esiste se qualcuno non l'attiva e non la fa evolvere. Ti faccio un esempio: immagina di trovarti in compagnia di “Animatrix”, un danzatore virtuale opera di una giovane artista olandese che si chiama Akke Wagenaar; di fronte hai un grande schermo dal quale Animatrix ti guarda immobile e silente; hai sottomano un duttile joystick con il quale dai l'avvio alla danza. Animatrix comincia a danzare con le sue sei braccia, seguendo gli impulsi della tua mano, ma con delle evoluzioni imprevedibili dovute ad una percentuale di casualità random integrata nel programma; nello stesso modo Animatrix crea anche la musica sottesa ai suoi gesti coreutici.

 

Ci si può vedere pure una discendenza dall'arte ambientale, concettuale e comportamentale...

In parte sì; questi filoni artistici del passato avevano sviluppato, in modi diversi la dematerializzazione dell'opera ed evidenziato una nuova natura relazionale dell'atto artistico che oggi si possono cogliere compiutamente nell'arte virtuale o di network.

 

Vuoi dire che anche la macchina ha un'autonomia?

Certamente, ma non è il caso di stupirsi più di tanto. Il software delle opere di questo genere ha talvolta la facoltà di mettere in atto un deuteroapprendimento - quando si basa ad esempio su una rete neuronale - che delinea un comportamento e quindi una identità autonoma della macchina. Nell'esempio di Animatrix il comportamento imprevedibile è generato da una funzione matematica random, ma esistono sistemi che generano comportamenti intelligenti ed evolutivi grazie a degli algoritmi genetici che contengono la logica della teoria darwiniana; tuttavia l'intelligenza autonoma della macchina non va riscontrata nella sua somiglianza con la nostra, come erroneamente si è sempre fatto, ma nelle sue peculiari attitudini, ad esempio quella di saper analizzare la complessità.

 

Ma come si attua il progetto? Qual è il momento individuale?

In genere l'autore progetta l'opera sviluppando l'immaginazione attorno ad un determinato processo tecnoscientifico sul quale si è concentrato. Questo avviene nel corso della sperimentazione operativa: l'artista naviga in un determinato software oppure lo modifica e talvolta lo inventa, fino a quando ne individua delle potenzialità espressive in cui si identifica ; quindi passa a progettare l'interfaccia più consono per permettere al pubblico di accedere a quelle potenzialità, di svilupparne l'attuazione e di manipolarne gli effetti. Oggi gli artisti cercano ed elaborano degli interfaccia sempre più diretti ed immediati; così si è passati dalle tastiere e dai joystick a sistemi di eye tracing (il percorso dello sguardo) e di misurazione magnetica; ad esempio nell'opera “Interactive growing plants” di Christa Sommerer e Laurent Mignonneau l'interazione del pubblico consiste nell'accarezzare una piantina vegetale: le perturbazioni dei campi magnetici della piantina così generate forniscono gli imputs al sistema che li traduce nella crescita della piantina stessa, visualizzata su grande schermo, sulla base di precisi parametri fitogenetici.

 

Fra gli operatori artistici c'è la tendenza ad impadronirsi dei nuovi media elettronici o a delegare l'applicazione del progetto?

La tendenza prevalente è a impadronirsi personalmente del medium elettronico, proprio perché gli spunti creativi nascono fisiologicamente in laboratorio, sul campo operativo.

 

Il tuo lavoro di oggi in questo ambito ha delle costanti riconoscibili?

Guardando alle mie installazioni computerizzate degli ultimi cinque anni - mi riferisco a “Inverosimile”, “Nord versus Sud” e “Survival” - mi sembra di poter dire che ce ne sono almeno due: la scelta di sistemi che elaborano e combinano imputs interattivi di più persone contemporaneamente e la scelta di interfaccia molto corporei cioè che coinvolgono anche le facoltà senso-motorie delle persone del pubblico. Personalmente non amo gli interfaccia che costringono ad isolarsi dagli altri indossando un caschetto head mounted display per RV anche se permettono una oggi ineguagliabile esperienza immersiva.

 

A parte le tue tendenze pedagogiche e la sensibilità sociale, la scelta di teorizzare per gli altri è dovuta alla necessità di far conoscere e progredire questa nuova dimensione artistica?

Senza dubbio, ma tengo a precisare che si tratta di teorizzare con gli altri, ad esempio in senso transculturale e interdisciplinare; questo non solo perché è finito il tempo delle avanguardie profetiche, ma anche perché questa mia area culturale ha succhiato dalla scienza la consapevolezza della soggettività della conoscenza e quindi del pluralismo dei suoi percorsi. Il nostro è insomma un lavoro di rete e la mia rete è l'associazione Ars Technica, con sede centrale a Parigi nel Parc de la Villette. Gli aderenti sono in maggioranza artisti, come Piotr
Kowalski o Chaterine Ikam, ma ci sono anche scienziati come i fisici Jean-Marc Levy-Leblond e Paul Caro, tecnologi creativi come Oliver Aubert, critici delle arti elettroniche come Frank Popper, Franco Torriani ed Edmond Couchot. Si tratta di un ambiente vitale per me come per gli altri, nell'ottica di un confronto sulla operatività artistica e di una riflessione larga sulle dinamiche teoriche e gli addentellati sociali della nostra ricerca artistica.

 

Il prodotto della virtual-art di ora può essere definito puro ? meraviglia ancora l'artista? va in cerca di identità?

Se per “puro” intendi “chiarito” e quindi senza le scorie feticistiche dello sperimentalismo tecnico, direi che da una parte ci sono già molte opere virtuali pienamente poetiche , come “The legible city” di Jeffrey Shaw a “Interactive growing plants” di Sommerer S. Mignonneau, dall'altra tieni presente che le RV, come medium, sono appena all'inizio del loro sviluppo e quindi una compiuta identità linguistica verrà raggiunta in futuro.

 

Il risultato deve annullare la traccia sperimentale e razionale? visualizza la ricerca scientifica?

In genere cerchiamo di rendere l'opera trasparente , in modo cioè che il sotteso processo cognitivo e logico sia chiaro, ma sarebbe insensato farlo percorrere all'osservatore punto per punto perché abbiamo appunto il vantaggio di poter fruire delle procedure complesse ed automatiche della macchina informazionale.

 

Le riserve di chi entrando nelle immersioni artificiali si preoccupa della biologia dell'uomo sono ingiustificate?

Le immersioni nell'artificiale possono preoccupare solo nell'ottica delle applicazioni manipolative che i centri di potere dei new media possono fare. Non è dunque il caso degli artisti che anzi evidenziano l'artificiale anche come strategia evolutiva biologica: le simulazioni di certi anuri che assumono per difesa forme terrifiche non appartengono forse all'artificiale?

 

Questa produzione pone in termini nuovi il problema della comunicazione e della diffusione dell'opera.

Hai toccato un punto dolente. Questo problema è stato affrontato finora con soluzioni ancora insoddisfacenti; passiamole in rassegna: ci sono delle manifestazioni periodiche come ad esempio “Ars Elettronica” di Linz, le biennali “Artec” di Nagoya e le sezioni artistiche del “Siggraph” in U. S. A. e di “Imagina” a Montecarlo; ci sono dei Centri scientifici e dei Musei di divulgazione scientifica che accolgono nei loro percorsi opere d'arte elettronica come l'Exploratorium di S. Francisco o la Citè des Sciences et de l'Industrie di Parigi; ci sono infine alcuni, rari, musei d'arte contemporanea o altre istituzioni artistiche pubbliche e private che espongono periodicamente il nostro lavoro, ad esempio il Guggenheim di Soho (che ha accolto una RV di Jenny Holzer o la fondazione ICC di Tokyo. Tuttavia la speranza che circola nella nostra area è che in futuro siano le reti telematiche, digitalizzate e integrate con le TV, a dare un impulso ampio e coerente alla diffusione del nostro lavoro, fermo restante che i luoghi dell'arte , opportunamente svecchiati , resteranno comunque un circuito per noi significativo.

 

La RV per essere goduta-vissuta, richiede cultura visiva?

Direi proprio di no. La RV è un linguaggio intrinsecamente corporeo e polisensoriale anche se, per ora, i dispositivi tecnologici implicano solo il tatto e l'udito, oltre alla vista.

 

Ci sono anche difficoltà di inserimento nel sistema dell'arte.

Ci saranno fino a quando la sua base materiale resterà ancorata a valori quali l'unicità dell'opera e la sua entità artigianale o industriale. Penso comunque che anche il sistema dell'arte non tarderà molto ad adeguarsi alla logica della produzione immateriale che pervade il mercato neocapitalistico e forse sarà allora che gli artisti correranno i rischi più consistenti rispetto alla nuova libertà ed autonomia aperte dai medium tecnologici.

 

Attualmente disapprovi le tecniche e i metodi operativi dell' arte tradizionale ?

Veramente sono io a sentirmi disapprovato da tutto l'ambiente artistico e sociale che continua a enfatizzare i metodi dell'arte tradizionale, vedi la Biennale di Venezia e quella del Whitney Museum a New York. I metodi espressivi tradizionali, in sé, credo siano formativi per le persone e per gli artisti e d'altra parte l'esperienza storica ci ha insegnato che ogni nuovo medium, non vanifica completamente quelli precedenti, ma si propone come mezzo concettuale e linguistico coerente per interpretare la nuova complessità raggiunta dalla cultura.

 

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 74, ottobre-novembre 1995, pp. 34-37]

 

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