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JENNY HOLZER PDF Stampa

La presenza di Jenny Holzer alla Biennale di Firenze è stata certamente una delle più coinvolgenti. Con i suoi tre interventi congiunti (padiglione di Forte Belvedere, operazione taxi e  proiezioni notturne sull’Arno), che le hanno permesso ancora una volta di cogliere con acutezza le peculiarità dei luoghi per fini comunicativi, ha ribadito, a chiare lettere..., che l’arte pura, nonostante l’invadenza degli stilisti, sa ancora affermare con autorevolezza la sua autonomia espressiva.

Signora Holzer, cosa ha da dire sulla problematica della contaminazione tra il linguaggio dell’Arte e quello della Moda evidenziata dalla manifestazione di Firenze?

Non penso che l’arte sia meno spettacolare della moda e che la moda contamini l’arte. Sono due cose distinte che hanno delle similarità. Vale la pena di averle nello stesso posto e nello stesso tempo in una sorta di cosmopolitizzazione... I fashion designers guardano l’arte e quelli che lavorano nell’ambito dell’arte guardano la moda. Mi sembra abbastanza normale. Non mi pare un rapporto pericoloso (ride).

 

Allora pensa sia giusto che la moda entri nei musei, luoghi sacri dell’arte pura!?

Non ho mai trovato l’arte pura... (ride)

 

Quindi, ritiene che la relazione sia possibile?

Per me l’arte è autosufficiente, però va bene anche il confronto in modo che la gente si chieda perché queste cose sono messe insieme e cerchi di scoprire perché non sono uguali. Porsi queste domande è ragionevole e giusto. Niente paura, l’arte rimarrà arte, la moda rimarrà moda!

 

Ma che significato ha avuto per lei partecipare alla prima Biennale di Firenze?

Non sapevo niente della moda e per me è stata una curiosità. Ho voluto rendermi conto, standoci dentro, perché Celant e gli altri avevano deciso di fare questa mostra. Poi mi interessava conoscere Calvin Klein che è una persona intelligente...

 

Come è nato il lavoro del padiglione del Belvedere con il fashion designer Helmut Lang?

È qualcosa che avevo cominciato a scrivere anni fa quando cercavo di fare soldi per beneficenza. Si chiamava Red-hot and dance. Sono tornata a questi testi perché parlavano di come togliere i vestiti, di quando e perché si mettono di nuovo, delle conseguenze e dell’assenza dell’amore.

 

Perché ha usato come mezzo i taxi?

È stata la buona idea di qualcuno... (ride). Sono contenta quando mi si dà un’idea... Cerco sempre di mettere i miei testi davanti a più persone possibile. Per l’occasione ho scelto dei testi da miei soggetti diversi. Sono andata in giro e ho visto che ci sono guerra, pace, sesso, morte ed ho voluto parlare in giro della vita...

 

Così è finita pure quest’altra esperienza italiana...

Tutto finisce... e diventa decadente...

 

Se non le dispiace rivisitiamo le sue origini... Quanto ha contato per la formazione del suo pensiero e per la scelta linguistica la frequentazione del Whitney Museum per dedicarsi allo Study Program?

Fu proprio per quel programma di studi indipendente che mi presentarono un lunghissimo elenco di libri molto diversi fra loro: trattavano argomenti che spaziavano dalla politica alla filosofia, alla sociologia. Ho letto libri sui temi più svariati e, in virtù di questo, credo di aver cominciato a scrivere le prime cose: la mia produzione di allora si ispirava alle materie che avevo assimilato. Probabilmente avevo voglia di parlare degli argomenti che venivano trattati per farli conoscere anche agli altri. È così che ho dato avvio allo svolgimento di siffatti argomenti, senza più leggere né - cosa assai importante - scrivere. In realtà leggo e scrivo moltissimo, ma questo non significa che lo espliciti automaticamente.

 

Preferisce esprimersi nella sua lingua?

Quando sono fuori, cerco di sfruttare la maggior parte dei testi nella lingua del posto, anziché nel mio, perché mi preoccupa sempre il modo in cui si traducono le parole.

 

In ogni opera resta evidente la sua discendenza dal Minimalismo...

Mi piace che le cose siano essenziali, rigorose.

 

Quanta importanza dà all’aspetto esistenziale?

È fondamentale non distaccarsi da esso.

Una domanda ovvia. In che modo la sua attività creativa è legata alla cultura americana?

Delle volte non è molto legata; altre esprime riconoscenza, dipende...

 

“Riconoscenza”?

A proposito dell’America, ci sono tante cose meravigliose, ma anche altre terribili, come dappertutto.

 

Pensa ci siano paure che toccano solo la donna?

Ci sono tematiche universali che hanno a che fare con l’essere umano in genere. Ce ne sono altre particolari che toccano solo le donne. Sul sesso c’è tutta una gamma di insulti che sono riservati solo a loro.

 

Allora le parole che escono dal suo corpo di artista sono quelle di una donna e sono rivolte...

No, spero che siano anche per l’uomo, ma sono sicura che certe volte riflettono il mio sesso. Tante altre, invece, sono riferite a qualsiasi cosa nel mondo, perché credo che le donne debbano parlare di tutto ciò che le ossessiona e le possiede.

 

Crede di poter vincere le sue “paure” esternandole in questo modo?

“Vincere” probabilmente è un termine troppo forte, però lavoro con esse  dove posso. E poi cerco anche di far paura agli altri...

 

Ciò conferma una sincera connessione tra il suo lavoro e la sua biografia...

È inevitabile...

 

Quali mezzi preferisce usare per esprimersi e finalizzare il suo discorso?

I più svariati: dalle pietre ai poster, agli adesivi, alle magliette, alle luci, passando per l’elettronica, chiaramente utile dal momento che è gravida di informazioni le quali, una volta codificate al computer, possono essere facilmente cambiate. La gente vi si rivolge spontaneamente ed è questo l’uso che ne faccio. L’informatica, la televisione e gli altri mezzi tecnologici, se sono ben sfruttati, possono svolgere un ruolo enorme nella società.

 

Secondo lei, in prospettiva, magari su sollecitazioni della virtualità, può esistere il pericolo che ci si orienti verso il mutamento delle istanze espressive per soddisfare prevalentemente esigenze di mercato?

Questo mi sembra piuttosto sedizioso. Comunque, credo che sia possibile una situazione del genere in quanto è facile passare dalla moderazione del singolo agli eccessi del mercato e agli esuberi di fare e di proporre le cose. Ma mi auguro che l’arte futura riesca a svincolarsi da questo nodo capzioso.

 

Come giustifica la sua scelta creativa nell’attuale contesto culturale e sociale?

Probabilmente inizio da ciò che mi spaventa, da ciò che potrebbe succedere non solo a me ma a tutti: è questa la base del mio lavoro, perché credo che le cose belle della vita si salvaguardino da sole e non ci sia quindi bisogno di parlarne. Sono convinta che siano i lati negativi a meritare l’attenzione sia mia che degli altri. Parlo delle guerre, delle morti inutili... Tratto, insomma, argomenti come questi e per me è fondamentale scrivere. Comincio dalla scrittura e solo in un secondo tempo mi arrovello per cercare un mezzo per trasmettere il mio pensiero alla gente tentando, allo stesso tempo, di coinvolgere il più vasto numero di persone. Non miro ai giovani o ad un pubblico particolare, intendo far partecipi tutti e questo spiega la ragione delle proiezioni sull’Arno, perché molti lì vanno a passeggiare o a sedersi. Ho voluto far leggere loro i testi che avevo scritto sull’epidemia dell’AIDS. Con l’happening ho sottolineato idee che hanno a che fare con il sesso, con l’amore, con le aperture e le chiusure esistenziali, con aspetti di questo tipo della vita umana.

 

Dal personale all’universale, dal materiale allo spirituale... Nei suoi messaggi ci sono anche componenti sensibili che non sempre gli altri riescono pienamente a penetrare...

A volte penso di essere troppo raggiungibile, troppo aperta, così lascio spazio a coloro che guardano e leggono; uno spazio da riempire sperando che possano partecipare e completare il lavoro, perché ho fiducia negli altri. Mi piace non comparire, l’alone di mistero che la gente sente quando si chiede chi ha scritto ciò che compare sui taxi, mi piace il fatto che la mia firma non ci sia. Voglio che la gente si chieda chi è l’autore. Mi piace essere invisibile, al di là delle apparenze, ma nello stesso tempo, amo far capire i messaggi. E spero che ciò che ho scritto non sia incomprensibile, inaccessibile. È questa la ragione per cui scrivo e non mi do, per esempio, alla pittura astratta. La presentazione può essere avvolta da un po’ di enigma, vedi il modo con cui le parole compaiono sull’acqua del fiume o il fatto che i segni appaiono e scompaiono repentinamente.

 

Parlando con la Holzer si capisce che ha un gran bisogno di trasmettere le ansie derivanti dal suo vissuto e dalle riflessioni sul destino del mondo per provocare una reazione salutare. Fin dal primo impatto si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un’artista dai caratteri contrapposti (forte e vulnerabile, razionale e romantica, confessionale e oggettiva, chiara e allusiva, riservata e socievole) come del resto si legge dai suoi messaggi lapidari, fuggevoli, inquietanti.

A cura di Pier Paolo Castellucci e Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 81, febbraio-marzo 1997, pp. 36-37]