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RUDI FUCHS PDF Stampa
Nel momento in cui le arti visive, sotto la spinta di altre culture e dei nuovi media tecnologici, ‘degenerano’, perdendo la loro tradizionale identità all’interno di un sistema dell’arte in profonda trasformazione, ci si interroga su come sarà il futuro delle istituzioni museali ‘costrette’ ad assumere un ruolo più attivo. Per avere una risposta qualificata in merito, abbiamo sollecitato una riflessione ad alta voce di un attento studioso di questi fenomeni: Rudi Fuchs.

Nell’intervento che segue egli analizza, con coerenza e senso di responsabilità, la situazione attuale dimostrando di non voler cedere alle lusinghe delle mode, pur credendo in una certa evoluzione storica del linguaggio pittorico e nell’adeguamento delle strutture pubbliche preposte alla conservazione e alla comunicazione della produzione artistica più attendibile.

 

Fuchs, il suo punto di vista sulle contaminazioni nel campo delle arti visive e sulla ‘profanazione’ dei musei ad opera di esperienze extrartistiche.

Questo secolo è andato avanti con grandi movimenti, caratterizzati da scoperte artistiche rispetto al passato. Nell’Ottocento c’erano i quadri di Delacroix, Gericault, Cézanne, poi è arrivato il modernismo con Picasso e Braque che cominciarono a fare i collages. Con loro si affermava l’idea che nel quadro potessero stare anche cose al di fuori della pittura tradizionale; vi dovesse entrare la vita reale, quella quotidiana, che nella pittura antica stava in modo aneddotico. Un pittore olandese del Seicento dipingeva la strada, la famiglia, la donna nella stanza con il latte e il pane. Questo è durato fino agli impressionisti che la domenica si recavano in campagna per dipingere la gente che faceva il bagno nella Senna.

Duchamp, Picabia, Schwitters e altri hanno introdotto l’extrapittorico dando l’avvio ad altre manifestazioni come la performance e l’installazione. L’immaginazione artistica, lentamente, ha lasciato il quadro inteso come unica forma d’espressione. C’è stata poi un’altra grande scoperta: l’arte astratta di Mondrian, Malevic, Kandinskj come espressione dell’utopia. Queste due idee quasi opposte sono scaturite da una più generale. Dal momento che si sono portati dentro la pittura i frammenti della vita di ogni giorno si è stabilito un rapporto con il vero (successivamente sono venuti fotografia e fotocollage). In questo senso la pittura era immaginaria (vedi Picasso e Matisse), ma c’era la volontà di avvicinarla alla realtà e ciò ha fatto nascere tutto quello che abbiamo adesso. Per fare un esempio, all’ultima Biennale di Venezia (alle Corderie e nella maggior parte dei padiglioni) è emerso il problema di come fare qualcosa che è arte e che, nello stesso tempo, è reale, perché forse si è persa l’antica concezione - che a me piace molto - dell’arte come cosa alta, celeste che non ha niente a che fare con il contingente.

Un altro motivo dominante all’inizio del secolo era che il Novecento fosse forte ed utopico. Dopo la pubblicazione del libro di Freud sull’interpretazione dei sogni e la prima formulazione della teoria della relatività di Einstein, molte cose sono state inventate. Nei primi 10-15 anni del secolo si è avuto un profondo senso del nuovo. Dominava l’idea molto cristiana che tutte le grandi scoperte - a livello filosofico, psicologico, scientifico e anche artistico, così come la cultura e la civilizzazione - fossero state quasi completate. Infatti, da sempre l’obiettivo era la ricostruzione del paradiso sulla terra che l’individuo credeva di aver perso a causa del peccato originale. Il motivo per agire (edificare chiese, ospedali e tutto il resto) è derivato dal fatto che si è voluta migliorare la vita proprio per riappropriarsi del paradiso. È il sogno più antico dell’uomo. I desideri erano due: dell’arte vicina al quotidiano e dell’arte moralista come quella astratta. Quando la pittura non rappresenta  nulla, né un albero né una donna, può essere solo morale. La purezza di un quadro di Mondrian, la sua precisione è un’idealità pressoché irraggiungibile per un uomo normale. Quindi, viviamo il conflitto utopia-quotidianità.

 

E siamo arrivati alla problematica attuale...

Giunti alla fine del secolo, occorre prendere una decisione. La Biennale di Celant ha dimostrato che si deve sapere dove vogliamo andare: o di qua o di là; con l’arte pura o con quella contaminata. Dico subito che io sono per l’arte pura. La contaminazione è possibile, ma tra le tradizioni nazionali, regionali. Nel secolo attuale noi crediamo (ed anche ciò è un aspetto dell’idealismo del Novecento) che ci sia un’arte internazionale, una grande fraternità fra i popoli. Prima la gente si accontentava della Scuola Fiorentina, di quella Romana, della Francese. In realtà la pittura è diversa dappertutto. Si distingue subito un quadro italiano da uno tedesco, danese, olandese. Ed è giusto che sia così. Le differenze sono interessanti. D’altra parte io credo nell’internazionalismo generale. Gli ingredienti dell’arte del Novecento sono internazionali: Picasso ha inventato il Cubismo, Matisse il Fauvismo, Duchamp il Dadaismo, Mondrian l’Astrattismo. Queste invenzioni non sono di loro proprietà, ma un dono per tutti. Così un artista brasiliano può utilizzare le forme del Cubismo, uno spagnolo quelle dell’Astrattismo. Però un quadro cubista spagnolo è differente rispetto a uno cubista francese. E ciò avviene perché in fondo i caratteri nazionali hanno una memoria lunga. Dagli stessi elementi del Cubismo sono nate correnti diverse: il Futurismo e l’arte astratta  russa e olandese.  Nel Futurismo italiano, per esempio di Boccioni, c’è una grande drammaticità con la predominanza del colore nero; mentre in Picasso e Braque prevalgono il verde, il giallo, il marrone. Il nero non c’è quasi mai. E, utilizzando le formule cubiste internazionali, Boccioni non dimenticava la drammaticità di Caravaggio. Nella chiarezza della pittura astratta di Mondrian con l’orizzonte, l’albero, il verticale, l’orizzontale c’è la memoria della pittura olandese del Seicento con i paesaggi e le nature morte. Nell’astratto enigmatico di Malevic la tradizione delle icone della pittura ortodossa. In questo senso io approvo le contaminazioni. Allo stesso modo la pittura di Mondrian può essere importante per pittori americani come Ryman o Mangolds.

Con le arti extrapittoriche si può arrivare a diverse espressioni e un pittore può fare anche teatro. Allora la domanda da porsi è perché chi fa teatro non fa pittura? Ci sono gli artisti visivi che insistono nel prendere tutto; al contrario, un compositore non dipinge. Ne consegue che all’interno della pittura c’è una grande mancanza di convinzione.

 

Ma questo orientamento potrebbe anche significare che c’è bisogno di entrare nella complessità delle culture.

Il problema fondamentale è capire perché uno, che fa un mestiere antico di duemila anni e anche più, abbia cambiato strada. I pittori hanno sempre fatto quadri, affreschi, ritratti; gli scultori sculture. Nei primi decenni di questo secolo la pittura non è bastata più a se stessa ed è entrata in dialettica col quotidiano. Dal momento che Picasso ha messo un pezzo di giornale in un quadro, è nata l’idea che il pennello e i colori fossero insufficienti. La cosa mi lascia perplesso e vorrei capire meglio. Perché non basta più la grande moralità, la chiarezza astratta di Mondrian? La gente è sentimentale e si deve soddisfare con la cultura? Guernica,  giustamente, è sentimentale. Fa ricordare la realtà. Ma la mia è solamente una constatazione. La fotografia sta prendendo il primo posto. Si può andare avanti con la pittura classica, tradizionale quando siamo convinti di essa; al contrario, possiamo fare letteralmente di tutto. Mi chiedo di nuovo perché un pittore faccia teatro attraverso la performance e un compositore, uno scrittore non facciano pittura. La Abramovic è drammatica, ma è niente in confronto alle tragedie di Shakespeare. Come teatro è debole. Utilizza la staticità della pittura, la musica. Ma il teatro ha le sue regole... Alla fine su questo mi sento molto tradizionale.

 

Mi pare di aver capito che si schiera contro le forti contaminazioni come quelle, ad esempio, registrate a Firenze con la moda e la spettacolarità.

Io sono per la pittura intesa in senso ampio. Merz, Kounellis per me sono pittori. La moda non mi interessa; la cultura le è sempre stata contro. La mostra di Germano Celant sulla moda è stata uno scherzo cinico, una forzatura e non  voglio neanche parlarne.

 

Allora parliamo del Museo come istituzione che oggi dovrebbe assumere un ruolo più adeguato alla realtà.

Attualmente si va registrando lo sviluppo di nuovi media che stanno diventando sempre più importanti. Per parlare ancora dell’ultima Biennale di Venezia, alle Corderie ogni trenta metri si doveva entrare in un piccolo spazio nero dove c’era una proiezione. Certi artisti sono anche bravi, aggressivi. La crisi dei musei di cui si sente parlare esiste solo perché media diversi come il cinema e Internet vogliono entrare nei musei tradizionali concepiti per la luce naturale, con pareti che danno protezione e mostrano la pittura in modo normale. Fin dall’inizio essi sono stati luoghi in cui l’architettura dava luce attraverso finestre e soffitti di vetro. Adesso le finestre si devono chiudere per fare buio. Io direi che per la nuova arte occorre progettare altri spazi, idonei ad ospitare una produzione diversa. La musica rock, che ha bisogno di un certo tipo di acustica, non si fa alla Scala di Milano. In un periodo anche i film cominciarono ad essere proiettati nei teatri. poi si è scoperto che era meglio realizzare altre sale. Ogni forma di arte deve trovare il suo spazio.

 

Non solo, mentre gli spazi espositivi delle gallerie private si vanno restringendo, le istituzioni museali dovrebbero assumere un ruolo più che conservativo, informativo e propositivo relazionandosi in modo vivo con l’esterno.

Viviamo nell’epoca delle grandi mostre. Si pubblicano per lo più cataloghi, riviste con interviste come questa.  È l’epoca dell’informazione quotidiana: l’artista prende le foto del reale, fa il video e lo presenta al pubblico. Allo stesso modo il critico va da uno, pone le domande e l’altro parla. È la medesima forma di ripresa. Io mi auguro che i critici comincino di nuovo a criticare, che i musei siano veramente musei e che si smetta con le grandi mostre-evento. Purtroppo, il museo in Italia non esiste. Un po’ Rivoli, un po’ Prato, un po’ Bologna e basta. Per un Paese di 60 milioni di abitanti, con una cultura favolosa e una tradizione impegnativa, è un po’ poco. L’Italia deve entrare realmente nella modernità. Si fanno mostre dappertutto e poi si arriva a quella della moda per dire che l’arte è un’invenzione che cambia di stagione in stagione come i vestiti. Una mostra sulla moda nella stessa città dove dipingeva Masaccio non si può prendere sul serio. Questo mi rattrista. Il museo è tutt’altra cosa. Dà al quadro, alla scultura tranquillità e continuità. Ci si può andare, guardare, tornare a riguardare. Le opere sono lì. Le mostre fanno passare le opere velocemente come la moda. La Biennale di Venezia diventa come un festival rock, bello da vedere, ma fugace, mentre la pittura è una riflessione continua, ossessiva.

 

Secondo lei, i musei devono essere concentrati per vincere la concorrenza internazionale o devono essere diffusi?

Io sono per i musei dappertutto.

 

Non crede che così si possa degenerare verso forme poco serie? Non è meglio creare  un numero limitato di strutture efficienti e organizzare, ad esempio, mostre itineranti anche al fine di risparmiare risorse?

È uno sbaglio pensare che il museo costi più di una mostra. Con quello che ogni due anni si spende a Venezia, si può tenere aperto senza problemi un museo d’arte moderna. Basta con le rassegne occasionali! Questo tipo di manifestazioni, ormai diventate una sorta di olimpiadi, devono essere fermate. Il museo riesce ad assumere un ruolo vero solo in Inghilterra, Olanda, Francia dove non ci sono grandi mostre. Lì si organizzano esposizioni di arte giovane con singoli nomi o collettive. Dipende dalla volontà del curatore. Le grandi mostre creano confusione, anche all’artista il per tali occasioni non riesce quasi mai a realizzare un lavoro di ottima qualità. Di solito opera meglio nella tranquillità dello studio o del museo. La concorrenza con gli altri lo distrae, non gli permette la concentrazione.

 

I suoi rapporti con l’Italia come sono attualmente? Ha nostalgia di Rivoli?

Rivoli è stato pensato come un museo. Ha una collezione che spero vada avanti. Ho nostalgia della cultura italiana che è enorme con Dante, Masaccio, Michelangelo, Burri, Kounellis dove non c’è posto per Armani e compagni: stilisti bravi, ma che nulla hanno a che vedere con la vera cultura.

 

Come si sta muovendo lo Stedelijk?

Con mostre di artisti che ci interessano e siamo collegati con la Christie’s per incrementare la collezione. È un’operazione complessa. Ripeto, a me interessa il museo soprattutto come fonte di storia. Desidero lasciare quello di Amsterdam con una dotazione di lavori importanti e solo per questo motivo organizzo mostre. Voglio conoscere meglio il lavoro di certi autori per scegliere con più sicurezza l’opera da collocare nel museo.

 

Le sembra che nei diversi paesi la ricerca artistica si sviluppi anche in relazione all’attività espositiva?

Non posso dirlo. È diversa dappertutto. Adesso i giovani più bravi sembrano gli inglesi; tra due anni, forse, non sarà così. Trovo interessanti gli Olandesi che lavorano con serietà, ma non voglio essere un arbitro. Ci può essere un bravo pittore in Italia oppure da un’altra parte. Non è giusto parlare di un paese, ma di fenomeni isolati. In Olanda e in Inghilterra, dove i musei garantiscono un certo tipo di ricerca, lo sviluppo è più calmo. In Italia più frenetico, in America c’è la motivazione del mercato. Io però non penso mai in questi termini.

 

Rudi Fuchs è nato ad Eindhoven nel 1942. Ha studiato storia dell’arte alla Rijksuniversiteit di Leiden dove si è diplomato nel 1966. È stato membro del personale accademico dell’Istituto di Storia dell’Arte di quella città. Direttore dello Stedelijk Van Abbemuseum di Eindhoven dal 1975 al 1987, nello stesso anno è passato a dirigere l’Haags Gemeentemuseum. Nel 1982 è stato direttore artistico di Documenta 7 a Kassel. Ha diretto il Museo d’Arte Contemporanea al Castello di Rivoli dal 1984 al 1990. Nel 1992 ha curato la mostra internazionale di scultura “Platzverfunrung” a Stoccarda. Dal ‘93 dirige lo Stedilijk Museum di Amsterdam. È presidente del CIMAM (Comitato Internazionale dei Musei di Arte Moderna) e membro della Chinati Foundation. Ha pubblicato molti scritti su argomenti di arte moderna e contemporanea; suoi testi sono apparsi su numerosi cataloghi e riviste. Altre sue pubblicazioni: “Rembrandt in Amsterdam” (1968), “Dutch Painting” (1976), “Richard Long” (1986), “Edvard Munch” (1991). Ampia la sua attività come critico su quotidiani e riviste.

 

A cura di Luciano Marucci

 [«Juliet» (Trieste), n. 86, febbraio-marzo 1998, pp. 38-39]