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L’EMERGENZA REALE E VIRTUALE DI MATTEO BASILÉ PDF Stampa

Entrati prepotentemente nella nostra vita, i media tecnologici sono  utilizzati dagli operatori visuali con significative esperienze di video-arte e video-installazioni o solo per elaborazioni grafiche. Ci stiamo gradualmente abituando ad essi e una siffatta produzione non scandalizza più (vedi l’ufficializzazione a Documenta X di Kassel). Senza dubbio ci troviamo di fronte ad un linguaggio con cui presto dovrà fare i conti l’intero sistema dell’arte, anche se restano da risolvere problemi applicativi, da vincere regole anacronistiche e resistenze di tipo feticistico-mercantile.

Negli ultimi tempi ad accelerare lo sviluppo di questo universo virtuale sono intervenuti alcuni giovani che fanno un uso pressoché integrale di certi mezzi. In tale contesto è emerso il fenomeno Matteo Basilé (23 anni), che si muove con dinamismo creativo e manageriale, portando avanti coraggiose iniziative in una città come Roma spesso condizionata dalla storia. La sua acuta indagine sul rapporto arte-tecnologia-comunicazione, associata ad un metodo progettuale alternativo e alla capacità di relazionarsi con l’esterno allo scopo di finalizzare il lavoro, indica una delle possibili vie da percorrere per rivitalizzare il settore.

Dopo aver assorbito la lezione di Warhol, con la rapidità-spontaneità-radicalità del Graffitismo praticato agli esordi, egli è approdato direttamente all’arte multimediale, carica di potenzialità, per comporre un oggetto virtuale  (inteso come sintesi non statica dei diversi elementi chiamati in gioco) che sconfina in coinvolgenti eventi telematici interattivi.

La sua è un’arte di forti contaminazioni con altre culture - alte e basse - che connotano il quotidiano velocizzato dai consumi. È digitale, ma anche fisica; per molti aspetti scioccante, eppure raffinata e poetica.

Basilé riesce a rifondare con naturalezza i codici tradizionali nel rispetto dei valori permanenti. Non insegue miti; dà spazio agli impulsi interiori e al pensiero razionale strettamente legati alle manifestazioni del vivere in una comunità umana senza più confini territoriali. Con un visionario, lucido e sensibile impiego delle ultime tecnologie, elabora e cataloga icone-istantanee del contemporaneo, che egli stesso abita, con tutte le incertezze e le energie giovanili.

Può essere considerato un creativo tra i più emblematici dell’ultima generazione, quella delle manipolazioni e clonazioni informatiche da cui  deriva un’estetica che sa ancora emozionarci. Non ha importanza se per arrivare a tanto si devono impiegare strumenti espressivi iperartificiali, purché ad azionare il mouse sia l’uomo ansioso di scoprire verità, sacralità e bellezza d’un mondo dal volto antico e sempre nuovo.

L’attendibilità della sua appassionata, innovativa e complessa ricerca - già matura per un confronto più che nazionale - ci ha indotto ad approfondire le sue motivazioni e a conoscere i progetti per l’immediato.

 

Basilé, i tuoi inizi si legano al graffitismo metropolitano. Di quel periodo cosa resta nel lavoro di oggi?

I legami rimangono nei contenuti e nelle immagini che adopero per i miei quadri, nei siti Internet e nei CD-Rom. I soggetti provengono da tutto un ambiente underground. Faccio parte di quella generazione incredibile che ha ripreso la chiave di lettura di Andy Warhol e i suoi scoperti agganci con la vita, senza vedere l’Arte Povera e la Transavanguardia. Io cerco di dare un impatto simile a quello di una grossa scritta, di qualcosa di trovato, di un bombing su un vagone di metropolitana.

 

Chi sono i tuoi modelli ideali?

Non ne ho. Sono stato coinvolto dall’atmosfera di Keith Haring. Adesso, più probabilmente, da registi cinematografici come Spike Lee e Mathieu Kassovitz. Sono motivato dall’iconografia che la generazione dei venticinquenni respira.

 

Sei attratto dall’inedito e dalla sperimentazione multimediale?

Tutto il mio lavoro si basa sulla ricerca tra arte e nuova tecnologia. Vado scoprendo immagini attraverso le reti Internet, i canali televisivi, i video musicali. Ultimamente la mia è più una indagine video-fotografica. Preciso che non sono un fotografo, mi sento più che altro un regista. Lavoro con dei personaggi che apportano immagini utili all’aggiornamento del grande archivio virtuale che ho in mano.

 

Il fascino della tecnologia può far perdere il senso critico e favorire l’esaltazione dello strumento...

Uso il multimedia come mezzo espressivo; non mi faccio usare. Opero in équipe ed ho costituito, insieme con Rafael Pareja, “Cromosoma” (un gruppo nato da due anni e concretizzatosi da due mesi) che privilegia la ricerca dell’immagine. In una parte del nostro studio ci occupiamo di tecnologia. Noi forniamo l’idea, il materiale visivo; i tecnici costruiscono il prodotto che viaggia in Internet e nelle gallerie. Mi sembra significativo che questa iniziativa  abbia preso avvio a Roma che ha sempre stentato a rinnovarsi. Con il mio lavoro e quello di altri, spero che la capitale riemerga come tale.

 

Gli oggetti-soggetti preferiti.

La mia produzione ultima, in cui unisco spazio reale e virtuale, è sui ritratti e sugli oggetti che appartengono alle persone ‘indagate’. Sono quelle che gravitano nella mia sfera, contaminano la mia vita, aiutano la mia politica tecnologica di veicolare pensieri attraverso immagini. A volte associo dei titoli che aprono a una seconda lettura. Mi interessa anche Ganesh, la divinità indiana che, in questa fine di millennio, protegge la casa e gli individui da chi sa quali forze sovrumane, misteriose. Uso un mezzo diverso dal solito, non la fotografia ma la plotter painting che dall’hard disk viene passata da grosse stampanti direttamente su lamine. Tutto è molto chimico, sintetico. Questo è il suo fascino.

 

I ritratti di cui parli quali caratteri vogliono evidenziare?

Manipolando graficamente al computer, faccio la radiografia di ognuno per ricercare non la bellezza del corpo, bensì il codice interiore di un’anima già catalogata, presa d’assalto dai media, da milioni di informazioni che la devastano. Essa è delineata da me,  ma può essere letta  da chiunque.

 

Ti interessa più la cronaca che la storia? più la cultura di strada che quella alta riservata a pochi?

Traggo sollecitazioni da tutto. È fondamentale conoscere la propria storia, ma è utile stare con i piedi ben fissati a terra. Bisogna avere uno sguardo a 360 gradi, capire le informazioni, essere curiosi e avere il senso dell’humour.

 

Per realizzare i quadri digitali - singoli o in sequenza - parti sempre da un’immagine preesistente?

Di solito sì. ...La mia è una rilettura della realtà esistente, sia che usi l’immagine di una cellula vista al microscopio elettronico, sia che scatti un ritratto con una macchina digitale o che metta un oggetto sotto lo scanner. È una continua ricerca dell’oggetto/icona che, rielaborato, torna alla sua antica sacralità.

 

Ti poni davanti al computer con un progetto mentale?

Certamente. Vado costruendo degli archivi dell’anima dove ognuno  riconosce una parte di se stesso. La mia idea è di lavorare  sulla fisionomia del personaggio e sulla sua storia. Raccolgo materiali di ogni genere che gli appartengono, per poi immetterli nell’opera interattiva.

 

Il prodotto attuale come si connota?

Il termine “prodotto” mi piace, si addice alla mia opera, perché essa è volutamente simile e vicina ai prodotti industriali. È una sorta di Cavallo di Troia, una bomba nel cioccolatino; sfugge all’occhio superficiale avendo assunto il mimetismo di tipo militare: è un soldato camuffato da pianta. Ora sto lavorando su monitor al plasma che sono la nuova frontiera del video. Supersottili, con uno spessore di 10 centimetri come i quadri. Oltre ad essere televisori, diventano opere di Matteo Basilé. Vi appaiono dei personaggi che, sfiorati per esempio sulla bocca, fanno scattare l’interattività. Parlano e mostrano delle immagini che ho manipolato con il computer. Raccontano la loro vita, sempre secondo una mia lettura, nel senso che contamino la storia con i miei codici. Il progetto prevede di costruirne almeno dieci e di montarli l’uno di fronte all’altro. Anche questi ritratti interattivi che diventano icone fanno parte della cultura italiana. Contemporaneamente sto conducendo la ricerca sul rapporto uomo-macchina, da Leonardo a Sterlac. Lo faccio sotto l’aspetto virtuale, per cui l’uomo non entra in contatto con la macchina, ma è essa a prendere l’iniziativa: fa i numeri di telefono, ti parla...

 

Il tuo sguardo è rivolto prevalentemente al presente-futuro?

Il presente lo sto vivendo, il futuro lo sto costruendo, però é importante avere grosse e lunghe radici affondate nel passato che insegna moltissimo.

Si pensi all’insieme della nostra arte! Essendo italiano ed usando un mezzo che non lo è, ho tutta una cultura dell’immagine di cui vado orgoglioso. Cercherò di tenere alto il messaggio che la distingue.

 

Vuoi anche esprimere il contrasto tra il vecchio e il nuovo mondo, tra naturale e iperartificiale?

Le due entità si uniscono nei nuovi media non più intesi solo come televisione o radio. Il digitale è tutta un’altra cosa; è figlio degli elettrodomestici che servono a farci vivere nei nostri giorni.  C’è il silicio; l’etere è colore che in realtà non esiste; manca il gesto pittorico. L’operatore manipola, modifica, cambia indirizzo Internet e, quindi, automaticamente si sviluppa una naturale artificialità.

 

Ibridismo, mutazioni, clonazioni sono i termini del tuo vocabolario?

Sono in ogni vocabolario aggiornato e fanno parte anche del mio. Non mi interessa andare dietro l’ultima tendenza, le notizie dell’ultima ora. La cosa curiosa è che sto lavorando con dei software e le mie realizzazioni crescono insieme alla casa che li produce. Questo è misterioso. Di solito lavoro con Photoshop 3.0. È bello che tutto sia legato alle macchine! Mi piace pensare che, grazie ad esse, riusciamo a creare qualche altra cosa.

 

Tra te e il mezzo c’è un’alleanza o le tue esigenze espressive ti spingono ad un conflitto con la tecnoscienza?

L’odio per il computer nasce quando non si riesce ad usarlo e, quindi, a capirlo. Per me c’è un’alleanza, un continuo dare e avere. Piano piano lo conosci, si apre e puoi intraprendere un viaggio in una costellazione fatta di numeri, lettere, alfabeti di varie lingue.

 

L’immagine multipla e radicalmente virtuale che elabori è anche provocatoria?

Certo, perché metto in discussione un tipo di arte che sento morta e sepolta. L’opera deve provocare per instaurare uno scambio con il fruitore. Senza provocazione non c’è arte!

 

Con la tua scultopittura digitale il rapporto arte-vita si fa più difficile?

Non lo so. Sono un viaggiatore che sta tenendo un grande diario di bordo. Vado costruendo il mio erbario senza preoccupazioni e spero di non fermarmi prima di molti anni. Allora rifletterò su quanto raccolto nell’archivio digitale, nella mia scatola dell’inventore. Penso a un libro molto bello in cui un ragazzo, attraverso gli oggetti ritrovati in una scatola, ricostruisce la storia di un inventore di tempi andati.

 

Quali contaminazioni insegui?

Vado dalle arti visive, alla musica, alla letteratura, a tutte le altre arti che mi stanno intorno. Mi è indispensabile avere una colonna sonora ideale per ogni quadro. Sto sperimentando di unire ai miei lavori un pezzo musicale che faccia da immagine portante, come si fa per i films. Il multimedia me ne dà la possibilità.

 

Mi pare che le immagini veicolino la tua ansia di far capire  quale tempo stiamo vivendo.

Io sono agitatissimo, scattante, lucido. Questo stare sempre su di giri è la mia linfa vitale. La mia generazione è stata alimentata col pane delle immagini veloci. Io voglio comunicare la parte pensante che prescelgo.

 

Nel tuo caso, il rapporto rapido col fruitore non vuole escludere la ricerca di significati più profondi.

La mia è un’arte ad assimilazione veloce. Haring faceva lo stesso discorso. Io lascio una firma e me ne vado. Il mio quadro è una bomba ad orologeria. Se deve esplodere, esploderà in qualche punto o situazione. Il messaggio c’è e sono certo che chi ascolta, chi viaggia su certe onde, sentirà l’esplosione.

 

Ti proponi un’estetica dell’etica.

Inconsciamente c’è un’etica in tutto quello che si fa, un ordine compositivo. L’etica è implicita all’opera, c’è per nascita, ma il mio lavoro non ha questo intento. Non è ora il mio problema. L’arte con il computer si trova ad un bivio, probabilmente lo stesso in cui si è trovato il fumetto. Sei un fumettista o un artista? Un grafico o un pittore? Un musicista o qualcos’altro? Penso che l’artista contemporaneo debba essere tutto questo. Io unisco le cose che servono a fare un’opera che parla, con cui si può dialogare e che si può modificare.

 

La tua opera, allora, sottende una rivolta verso i linguaggi tradizionali.

Il mio è un linguaggio nuovo, ma non è “rivolta”, non è negazione della nostra storia. Io non mi sono mai posto il problema della pittura. L’ apprezzo in giovani come Colazzo, Galliano, Pintaldi, Salvino  che sono riusciti a trovare la strada giusta.

 

La dimensione spirituale è un fattore conservativo che appartiene ad un mondo superato o va ricercata per bilanciare il diffuso materialismo?

Serve ad affinare il pensiero, ad evitare che la tecnologia ci divori. I miei quadri hanno una doppia anima: fredda, che si riallaccia al digitale; poetica, che presuppone una lettura più approfondita.

 

Sento che citi spesso l’anima. La identifichi con la sacralità che traspare dai tuoi lavori?

L’anima di cui parlo - mia e degli altri - è ricca di cultura e di poesia che non deve morire; una poesia molto appuntita che colpisca tutto un sistema. Io penso ad una sacralità della tecnologia. La mia generazione non ha miti o leader ed ideologie. Per quelle passate c’erano Che Guevara, la guerra del Vietnam, il Sessantotto... Noi ascoltiamo musica e ci nutriamo di immagini, ma siamo la generazione che più tenacemente cerca l’anima.

 

Qual è la sede per mostrare correttamente il tuo oggetto virtuale ?

Si può stare a casa propria, collegarsi col mio sito Internet e guardare le opere. Io sono per l’arte nomade, che deve essere veicolata in qualunque modo. È essenziale portare l’opera in luoghi giusti e con i tempi sincronizzati alla propria politica. Ancora non si è compreso che siamo cittadini del mondo. A me non crea alcun problema andare a fare una mostra in un centro sociale occupato di Caserta o nella galleria più in di New York.

 

... E lo spazio per la tua migliore esposizione?

Ho un progetto molto ambizioso: realizzare, tramite la realtà virtuale, dei non-luoghi dove esporre. Come tutti gli artisti, amo gli spazi grandi. Mi piacerebbe un museo o un hangar di aeroporto. Deve essere, comunque, un luogo che si leghi all’high-tech, a un’idea di teletrasporto.

 

Ma fuori del loro habitat puramente virtuale le opere si oggettualizzano, appaiono inanimate.

Spero proprio di no, perché alla fine l’immagine viene fermata, montata sull’alluminio, anche se non in maniera finita e pulita. Le opere diventano pezzi di una grossa collezione virtuale.

 

Se si diffondesse il tuo metodo operativo, si scombinerebbe il sistema dell’arte...

Eh sì, deve essere messo in gioco anche quello. L’arte è un bellissimo pensiero, ma poi degli artisti piace l’oggetto. Così, le gallerie, oltre all’operazione culturale, ne fanno una mercantile. Ma l’opera non deve rimanere confinata in esse, fruita da una ristretta élite, ma frequentare altri ambiti culturali. È necessario che i galleristi modifichino atteggiamento aggiornandosi, stabiliscano una relazione tra economia e tecnologia.

 

Si può sfuggire alle sue regole più consolidate?

Il sistema è un gioco che sta cambiando. Le gallerie non contano quasi più nulla se il committente è un industriale a cui interessa il lavoro di un artista e, per imporre il prodotto, si serve del suo pensiero.

 

Parlami dell’operazione Fendi.

La casa FENDI ha visto il mio lavoro e lo ha scelto per diffondere il proprio marchio. D’altra parte a me sembrava che, come potenza economica italiana (la quarta nel mondo nel campo dell’abbigliamento), potesse fare al mio caso visto che l’arte dovrebbe coinvolgere più persone, spettacolarizzarsi, dare vita a degli eventi. Così ho ideato gli ologrammi di fine millennio con il titolo “Il mio nome è Nessuno, il mio numero è zero”. Ulisse che va verso l’isola misteriosa della tecnologia. Il mio numero è zero, perché il computer si basa su uno e zero. Ho esposto il quadro più grosso che abbia mai fatto (300 metri quadrati) con tre ovuli sul cambiamento di generazione, per la nascita della nuova visione di Fendi per l’arte e di non so che altro... Era una stampa digitale ottenuta con una tecnica che in Italia non esiste ancora. E poi c’erano le cinque vetrine che con un effetto olografico sono diventate delle scatole magiche. Accarezzando il vetro, manipolavi delle borse enormi, molto pop.  Il risultato c’è stato: 3500 persone che facevano la fila davanti alle vetrine; ascoltavano la colonna sonora dei Chemical Brothers. Era molto coinvolgente. Sembrava di stare ad un rave. Ti giravi intorno e vedevi la gioventù gomito a gomito con le signore bene di una certa età. Anche per Fendi è stata una situazione diversa dal solito...

 

Il tuo linguaggio si presta alla committenza?

Molto. Amo le committenze per far funzionare la mia creatività in parallelo e in simbiosi con altre realtà. Mi piace lavorare con la Diesel (che fa vestiti), le sorelle Fendi, la Sony o un’asettica industria farmaceutica. Si ritorna al 1500, quando Sangallo e Company erano protetti da principi e duchi e progettavano palazzi, dipingevano quadri, affrescavano stanze e organizzavano feste con coreografie. Funziona un po’ così con gli industriali. Del resto da solo non ce la farei a produrre certe opere dalle tecnologie costose.

A cura di Luciano Marucci

 [«Juliet» (Trieste), n. 87, aprile-maggio 1998, pp. 34-35]

 

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