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GIUSEPPE TOMASELLO PDF Stampa

Da quale urgenza nasce la tua ossessiva ricerca?

In origine l’indagine era completamente distaccata da qualsiasi considerazione di tipo intimista. L’umano appariva come figura retrostante alla macchina riproduttrice in un mondo incentrato sulla “produzione di effimeri ed affini”. Poi la ricerca su cui stavo lavorando ha lavorato me. Ad una fredda progettualità a discapito del sentire, il corpo ha risposto con la stessa arma, la stessa ossessione. È riaffiorata così un’urgenza introspettiva che fino ad allora era stata in gran parte trascurata.

 

Ora assume quasi il carattere di un esame psico-medico e di un’operazione scientifico-creativa.

Il lavoro attuale si sviluppa attorno al concetto di malattia vista come elemento di ribellione e di tensione, come colei che ritrova i confini di un corpo lacerato che a protesi si ricompone. La malattia, nel mio caso, è stata risanatrice: mi ha riportato all’interiorità; mi ha messo contro i miei stessi organi, obbligandomi a rendermi conto della loro innegabile esistenza.

 

Il computer con cui manipoli l’immagine del tuo volto è usato come apparecchiatura sanitaria...? come interlocutore per analizzarti!?

Mi permette di esaminare tutti i fotogrammi, compresi quelli non visibili a occhio nudo. Diventa strumento sanitario capace di indagare parti nascoste e ottenere multipli corporei come metaforiche radiografie. La macchina, quindi, assume un comportamento ‘corretto’ caricandosi di umanità. Non raffredda, non esclude; anzi, collabora con l’uomo medico-artista a scoprire anche l’intimità delle cose.

 

Il ‘referto’ che ne deriva subisce altri mal-trattamenti?

Certo. “Mal-trattamento” è il termine più appropriato per descrivere i miei interventi. Ogni passaggio, tecnologico e manuale, lede l’immagine con segni come cicatrici post-operatorie...

 

Parti sempre dalla tua traumatica condizione reale!?

Credo nel trauma che scuote fino a logorare e deformare il corpo; deformazione che diventa automatica-mente verità assoluta. Nella trasformazione il corpo è il ribelle e gli organi - suoi alleati - smettono di stare al gioco diventando autonomi e lanciandosi in caduta libera. Mi aggrappo a questo tormento come a qualcosa di rassicurante, poiché dal male fisico derivano la vera visione delle cose e la direzione che prenderanno le idee.

 

La tua attività come si rapporta con l’esterno?

Attraverso collaborazione, supporto, educazione. La mia produzione vorrebbe affiancarsi al mondo professionale e non rimanere relegata al solo circuito, spesso sterile, dell’arte. Un lavoro legalmente riconosciuto che sia di ausilio alla medicina ufficiale. Se essa punta a placare e annientare la malattia ai fini della ‘guarigione’, all’opposto il mio contributo sarà quello di esaltarla come momento cosciente, fonte di potere ancora inutilizzato.

 

L’opera è un ‘espediente’ terapeutico-liberatorio che riguarda solo te o con gli esiti della ‘diagnosi’ tendi a sensibilizzare l’osservatore, a stimolare una riflessione sui mali dell’uomo?

L’opera non può essere liberatoria, ma terapia sintomatica per combattere malesseri non dichiarati e approfondire. Tendo sì a sensibilizzare l’osservatore, ma esaltando uno stato che è vaccino per evitare l’indifferenza. E. M. Cioran dice: “Una persona sana, non avendo nulla da trasmettere, neutra fino alla rinuncia, si accascia nella salute, stato di perfezione insignificante, di impermeabilità alla morte come a tutto il resto, di disattenzione a sé e al mondo”.

 

Quando finirà il ‘male’ che genera il linguaggio del corpo, fare arte non avrà più senso?

Sarà una necessità ancora e più che mai primaria. È la coscienza della malattia che ha reso gli uomini tali e distinguibili dal resto degli animali, poiché più esposto e ricettivo al malanno e, di conseguenza, al tormento e alla colpa.

 

Le motivazioni vitali e quelle artistiche sono un tutt’uno?

Dovrebbero esserlo, ma spesso non accade. Bisognerebbe che l’arte fosse nei circuiti sociali e non relegata agli angoli come un’aggiunta o, all’opposto, come qualcosa da erigere su un piedistallo per pochi eletti. In fondo è come chiedersi se la testa e il corpo siano due entità separate o se l’una giovi all’altra.

 

Sembra che l’opera con i reiterati autoritratti rappresenti un’azione per affermare il primato dell’esistenziale sull’estetico.

L’autoaffermazione, incurante di generici rapporti armoniosi, si manifesta con dissonanze pittoriche. Mi interessa sviluppare un martellante monologo di teste in cui la pittura, come un bisturi, recide il corpo.

 

Un contagio reciproco, un evento pittorico-performantico...

La contaminazione è inevitabile. Il rischio è l’epidemia collettiva...

 

Stai tentando di eludere i tradizionali codici artistici?

Purtroppo la battaglia più dura è quella di gestirsi e combattere in contemporanea su due fronti: da un lato quello personale-espressivo; dall’altro quello esteriore di un ‘fuori’ fatto di vecchi codici ormai inadeguati alle esigenze della realtà artistica. Gallerie, musei, critici decidono l’arte da proporre e non il giusto contrario.

 

Nel tuo caso quale significato acquista la metafora?

Di ‘veste medica’; di parodia dell’operatore che, incapace di vincere i propri mali, li coltiva e ne trae piacere, giovamento... Si veste di professionalità e simula attendibilità scientifica, tanto da conferire all’opera la funzione di cura.

 

L’aspetto poetico è complementare?

La poesia è una in-consapevole finalità artistica, inscindibile dall’opera stessa.

 

Quale oggetto fisico traduce meglio le tue intenzioni?

Non sono legato a nessun oggetto in particolare, piuttosto all’idea di ‘fotogramma’ che scruta e scandaglia le parti più nascoste sotto molteplici punti di vista e svariate forme. Per questo motivo qualunque oggetto, usato sia come mezzo sia come risultante del lavoro, mi è congeniale.

 

Vuoi creare una specie di ibrido manuale-tecnologico, un’opera-documento?

Sì. Immagino una ‘cartella-documento’ che si trasforma in un quadro di 400x200 cm. Con certi termini per un momento mi illudo che il lavoro sia entrato a far parte di un ambito più vasto. Mi piacerebbe avere un laboratorio nell’ospedale centrale della mia provincia con la scritta: “Ambulatorio-ibrido manuale-tecnologico”. E sentir dire da un paziente ad un altro: “Mi ha fatto un’opera-documento”.

 

Un luogo ideale per ‘socializzare’ i risultati delle tue personali investigazioni?

Non credo che all’arte basti agire nei suoi circuiti ufficializzati; ha bisogno di allargarsi, di poter contare su altre strutture, soprattutto quelle della realtà quotidiana.

 

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 88, giugno 1998, p. 52]