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ALFREDO PIRRI PDF Stampa

Pensi che gli artisti debbano dare indicazioni sulla gestione dell’industria culturale?

Quando si dice “industria” si pensa ad un’attività che produce oggetti utili alla comunità e da essa stessa, in un certo modo, “commissionati” per soddisfare i bisogni e le aspirazioni estetico-funzionali. Nel caso della cultura, e in particolare delle arti visive, non sono certo che si possa parlare di “industria”, in quanto non c’è rapporto esplicito fra “commissione” sociale e opera d’arte. Anzi, spesso, l’opera non coincide con il desiderio e le aspirazioni estetiche collettive. Capisco che si possa (e forse si debba) pensare all’arte come ad un investimento di lunga durata e con benefici generali. Mi pare che, quando si parla di questi temi, si tenda ad accomunare l’arte con l’informazione; si tenti cioè di ridurre l’arte ad un aspetto estetico-funzionale dove per “estetico” si deve intendere “gradevole” (anche nella sua versione “sgradevole” qualora la moda lo imponga) e per “funzionale” corrispondente al gusto gradevole (o a volte, come dicevo, sgradevole). Credo che l’arte rimanga estranea a ciò o ne sia addirittura avversaria perché non riconosce come proprie le regole estetico-funzionali. Il gradevole e lo sgradevole continuano a manifestarsi in maniera esagerata, individuale e incostante. Tutti parametri difficilmente utilizzabili da qualsiasi ragionamento industriale o comunicazione sociale.

 

L’arte ha la capacità di cambiare il gusto estetico della gente e la percezione del mondo?

Sì, profondamente. È il motore del cambiamento della realtà. Fermando questo motore, la realtà diventa immobile, anzi svanisce del tutto. L’arte opera ad un livello occulto, quasi terroristico. Diciamo che essa sta alla comunicazione come il terrorismo sta alla politica. Il problema è che questo “motore” non gira a ritmi industriali (per tornare al tema di prima) e ci è ignoto il suo sistema di trasmissione che rimane misterioso nel  funzionamento. Tutto sarebbe diverso se si accettasse tale condizione. I problemi nascono quando certi ambienti sociali o economici, che pretendono di rappresentare LA REALTA (ultimamente si pensa alla moda, in anni passati allo stalinismo), hanno la necessità di rendersi dinamici e si rivolgono all’arte saccheggiandone le immagini. Alcuni artisti sfiduciati sono convinti che in questo frangente ci si debba raccordare col sistema. Io lo considero un modo per tirare bruscamente il freno e rompere il motore.

 

Ma l’arte può assolvere a una funzione socio-politica?

A volte si dice “il problema è che l’influenza dell’arte andrebbe misurata con parametri diversi”. Cosa significa questa frase? Che c’è qualcuno o qualcosa che ha il privilegio di possedere questi parametri? Non credo. Io penso che si voglia sottolineare, con un luogo comune, la dismisura caratteristica dell’arte. Dire “parametri diversi” è un controsenso, perché nella realtà non esistono “costanti differenti”, eppure l’arte è allo stesso tempo costante (non solo nel tempo, ma nell’azione) e differente (non solo nella varietà, ma nella percezione). Allora, se la consideriamo come un sodalizio mutevole di azione e percezione, capiamo meglio la sua natura politica. Io, quindi, sono portato a comprendere l’aspetto intrinsecamente politico dell’arte più che il suo lato “funzionale”. Infatti, quando forzatamente si marca l’aspetto di “competenza”, l’azione diviene propaganda e la percezione soliloquio, perdendo così quell’essenza politica che è sempre qualcosa di dinamico (azione) e di eccessivo (percezione). Eppoi bisogna evitare che l’arte “assolva” il suo debito col mondo e la politica; che in un certo senso rimanga un soggetto debitorio, perché tutti noi possiamo sentirci in società con essa, sempre con un piede nel fallimento.

 

Secondo te, in quali campi del reale fa sentire maggiormente la sua voce?

Negli affetti, che sono a fondamento del reale. Mi riferisco al modo di rapportarsi con gli altri (i vicini, i familiari, oppure persone più distanti). Attraverso l’arte riusciamo a condividere con loro un mistero, a renderci conto di quanto la realtà rimanga disponibile al cambiamento.

 

È stato detto che l’arte visiva fa da battistrada agli altri linguaggi...

Non solo apre “universi sconosciuti” - come oggi si usa dire grazie al successo della fantascienza - ma alcune opere continuano per molto tempo, a volte per secoli, ad essere un modello, una traccia che non scompare. Ci sono artisti, provenienti da un passato ormai remoto, destinati ad un futuro altrettanto remoto, perché la loro azione è continua,  permanente. Le loro tracce arrivano da un deserto lontano, attraversano le nostre città per trascinarci in un altro deserto, magari di natura differente. Percorrendo le vie dell’arte, le tracce non sono sempre riconoscibili come qualcosa di esplicito e perseguibile. Ecco che, se siamo impreparati, potremmo continuare a cercarle all’infinito. Io non so se gli altri linguaggi abbiano la capacità di tenersi al passo. Spesso sbandano, pretendono di mettere i piedi sull’impronta dell’artista, e sono patetici. Naturalmente  non alludo ai poeti e ai musicisti, le cui tracce frequentemente si confondono con quelle dei pittori, ma a tutti gli innumerevoli linguaggi “creativi” di cui siamo attorniati.

 

Riconosci all’opera un prioritario ruolo poetico e metafisico?

“Poetico” senz’altro, proprio nel senso originario di “poiesis”, cioè del realizzare una forma che ci metta in relazione con gli altri ad un livello meno privato. Non so, invece, se il termine “metafisico” sia giusto. Nella tradizione filosofica con questa parola si indica quel progressivo e violento allontanamento dalle cose che trova il suo compimento nella realtà Occidentale. Un allontanamento che impone un punto di vista tanto elevato quanto autoritario. Perciò l’arte non dovrebbe essere definita metafisica. Sono per un’arte che da una parte evapora dalle cose e dall’altra riprecipita sulla terra come una pioggia battesimale.

 

Sei per il rigore della specificità?

Sì, anche se non considero la specificità come un rigore, ma come un premio. Il “rigore” fa immaginare due cose: una di carattere sportivo, la punizione per un atto violento compiuto in campo; l’altra di natura meteorologica legata al freddo, a qualcosa da patire. Ambedue i significati riportano alla mente la colpa, la sofferenza. Io sono per una specificità intesa come atto di gioia e di salute, come qualità espansiva.

 

La spettacolarizzazione e tutto ciò che mira al largo consenso sono aberrazioni?

Sarebbe facile rispondere con un sì secco. Mi salverei l’anima e guadagnerei punti agli occhi di chi pensa o fa finta di pensare che l’arte non debba avere altre implicazioni. La “spettacolarizzazione” distrae ed è negativa quando il critico introduce brutalmente elementi distanti dal desiderio dell’artista, quando ci trascina in luoghi tanto distanti dall’opera da farcela dimenticare, quando serve a “facilitare” il dialogo col pubblico, con la realtà, etc. Ma se con questo termine si esprime un’enfasi affettiva, l’indicazione di uno sfondo dove collocare le cose (che pure rimangono esposte nella loro solitudine), la coralità di un’esperienza che assume anche un aspetto formale, allora la “spettacolarità” non mi dispiace. Credo che faccia parte della nostra tradizione culturale, quella della messa in scena di un’opera che crea un coinvolgimento ed evoca la sua natura drammatica che potremmo chiamare “teatrale”. Il problema è di mantenere in vita la visibilità dell’opera, pur avendo a che fare con qualcosa di spazialmente complesso che non sia la semplice raffigurazione visiva di una superficie dipinta, seppure a quella superficie dobbiamo in definitiva fare riferimento.

 

Ne consegue che l’arte non deve affrancarsi dalle contaminazioni di altre discipline.

L’arte vive di un rapporto molto stretto con discipline diverse pur tenendosene distante. Ma queste sono solo considerazioni “culturali”; ogni riflessione sulle contaminazioni possibili è di natura squisitamente antropologica. La questione centrale oggi è un’altra: deve l’arte esprimersi attraverso linguaggi dominanti come la comunicazione espansa, la sociologia catalogatoria, l’intimismo privo di soggettività, etc.? Deve mitizzarsi in essi perdendo così il ruolo fondativo di consegnarci una forma originale? Io credo di no. Sono certo che, rinunciando alla forma, l’arte perda lo strumento principale di indipendenza e di dialogo col reale che ne fa qualcosa di irriducibile a regole e ad ogni tentativo di annichilimento.

 

D’altra parte l’opera troppo chiusa in sé non tiene conto della complessità della realtà e rischia di accentuare il suo isolamento.

La mia esperienza di artista e di osservatore del lavoro altrui mi fa pensare che, quando l’opera si mostra chiusa in sé, quando lo è realmente insieme a tutte le problematiche che l’hanno mossa, allora è ben risolta e, allo stesso tempo, altamente comunicativa.

 

La tua radicalità di pensiero è indotta da un sistema che giudichi degradato e dalla perdita di identità dell’opera?

Se non dai al termine “radicalità” quel significato melenso e politico che spesso si sente circolare, bensì di radicamento in un luogo (quello dell’arte) grazie al quale è possibile spaziare maggiormente, accetto volentieri il termine. In tal senso ci tengo che il mio pensiero e la mia opera abbiano una radice. Da questo punto di vista non credo che il tema della centralità dell’opera abbia perso di identità e di impellenza, anzi sono ottimista perché vedo il bisogno emergere fortemente anche in comportamenti distanti dal mio, così come nella maggioranza di quegli “altri linguaggi” che spesso si invocano per salvare l’arte dalle pretese difficoltà comunicative.

 

Mi riferisco, soprattutto, alla soggettività della tua poetica e a come difendi la tua idea.

L’opera deve trovare una sua radice nell’idea, nella poetica e nel corpo di chi la realizza. In questo modo si crea una corrispondenza fra l’identità dell’autore e qualcosa di collettivo che egli riesce a cogliere per primo. Seguendo questa strada si consegna all’atto creativo un suo valore che non si esaurisce nella comunicazione sociale, ma è un vero atto fondativo, imprescindibile, senza il quale la realtà perde senso.

 

Le tue opere contengono i concetti che cerchi di esporre verbalmente?

Le idee sono contenute nelle opere o, meglio, sono incarnate in esse. Non bisogna immaginare le opere come scatole da riempire. Anzi, di frequente rifiutano e rigettano le idee come un trapianto mal riuscito. Le opere sono connaturate alle idee e le esprimono in maniera diretta. Forse in modo più semplice e più immediato di quanto non si faccia con le parole perché, a differenza del linguaggio, che spesso eccede in un verso o nell’altro, l’arte è sempre sintetica e, allo stesso tempo, espressiva.

 

Tendi a provocare anche una reazione all’interno del sistema imperante?

Non è nelle mie finalità o intenzioni, non saprei chi provocare e perché, visto che non c’è una classe sociale da aggredire, ma solo dei sistemi comunicativi che hanno fatto della provocazione e dello scandalo un linguaggio corrente. In mancanza di un’etica è impossibile avere un’estetica, ma solo un frullato di perbenismo e cattivismo.

La tua attiva partecipazione al dibattito sulla sorte dell’arte compensa il silenzio dell’opera...?

Penso che il mio lavoro sia più taciturno di me, che sono una persona a cui piace anche parlare.

 

È importante che l’artista oggi faccia conoscere il proprio pensiero fuori dell’opera?

Come dicevo, le idee di un artista sono depositate nell’opera, fuori di essa non vi sono idee trasmettibili. A me interessa scrivere, ma ci sono artisti che realizzano opere eccezionali e si rifiutano di scrivere o di parlare e, a volte, in questo modo le idee circolano meglio perché non debbono sopportare il peso della scrittura. Io sono interessato alla scrittura innanzitutto come dimensione formale.

 

È il momento di reagire alla caduta di potere dell’arte e della cultura in genere?

Potrei rispondere sì o no; le risposte avrebbero lo stesso valore. Molti artisti hanno smesso di cullarsi sull’idea che il loro lavoro, le loro preoccupazioni ideali e pratiche possano essere risolte da altri: galleristi, direttori di musei, critici, etc. Ma non guarderei a questo come a un gesto disperato o di reazione, piuttosto come a un gesto di chi decide semplicemente di appropriarsi di un’identità che gli appartiene da sempre; che in tempi recenti molti hanno cercato di rubare con il solito sistema: prima provocare il fallimento e poi entrare in possesso del patrimonio.

 

La militanza teorica può contribuire a sottrarre l’arte dalla sua emarginazione per ridarle la funzione sociale a cui segretamente aspira?

Se per “militanza teorica” intendi la partecipazione a quell’industria culturale da cui siamo partiti, penso di no. L’arte ha un bisogno relativo di essere conosciuta attraverso altri canali comunicativi. Anzi, dentro questi canali rischia di essere fraintesa e di perdere quell’aspetto popolare (più che di funzione sociale) al quale - come dici - giustamente  aspira in segreto. Ma come ogni segreto, se viene reso esplicito, perde fascino e  potere. La finalità delle parole degli artisti, a differenza di tutte le altre parole, non è di togliere l’arte dall’emarginazione; semplicemente perché l’arte non è mai emarginata, messa in un ghetto, ma sempre centrale. A volte riporta al centro la cultura del ghetto, ma questo solo per una sua scelta. Allora le parole degli artisti sono i mattoni con cui si costruiscono gli spazi nei quali si possa lavorare finalmente in pace.

La grande committenza può aiutarla a rapportarsi con la realtà?

Sono convinto che l’arte debba riaffermare la sua dimensione monumentale. Conosco bene le critiche a questo principio; all’autoritarismo, alla verticalità, all’autorialità, al celebrazionismo insiti in ogni monumento.

Naturalmente parlo di un’aspirazione più grande alla quale ogni opera,  anche la più piccola, deve riferirsi. Non so se la committenza è disponibile ad assecondare questo discorso. E’ interessata per lo più a promuovere un lavoro antimonumentale, anonimo, frammentato, proprio perché questo è il significato che i poteri forti vogliono celebrare. Io appartengo ad una generazione che ha nutrito un grande interesse per l’architettura, eppure oggi non c’è nulla di peggio che avere rapporti con gli architetti i quali hanno quasi del tutto smarrito la dimensione intellettuale e si comportano come i maggiori avversari dell’arte e degli artisti. In altri casi si chiamano gli artisti per affidare loro un compito di decoratori. L’artista non dovrebbe mai mettersi in condizione di far pensare agli altri che potrebbe accettare simili proposte. Credo sia meglio continuare in quell’atteggiamento di autocommittenza che finora ci ha permesso di essere soggetti liberi di fare e, nel contempo, persone pubbliche.

 

Dentro quale sfera ideale dovrebbe vivere l’arte?

Credo che debba spaziare all’interno di due poli: l’affetto per l’opera che porta ad essere comunicativi e vivi nella realtà; l’odio rivolto agli aspetti più brutali di essa, che tendono continuamente a cancellarla.

 

Passiamo ad altro. Come giudichi la produzione scultorea e oggettuale di questi anni?

Non sono molto entusiasta della scultura intesa come oggetto. Non credo che possiamo pensare all’aspetto oggettuale scollegandolo dagli ultimi esiti della scultura di Oldenburg e quindi della cultura americana, oppure al lavoro delle “vetrine” di Beuys, che ha influenzato molta scultura europea, dove l’oggetto viene usato in modo quasi rituale. Personalmente  mi sento distante da tutto ciò perché sono portato ad immaginare la forma come qualcosa di più autonomo, da ricercare di volta in volta, che non si sposa con quel credo magico dell’oggetto usato come feticcio, sia esso di natura pop o terzomondista. Per me la scultura dovrebbe uscire da questi due indirizzi (che pesano come blocchi) perché possa trovare nuovamente uno sviluppo.

 

Tu come affronti la dialettica tra pittura e scultura?

Anche questo è un problema abbastanza interessante che però non si può risolvere - come spesso è stato - semplicemente accostando forme tridimensionali a superfici piane. Negli ultimi tempi ho realizzato delle sculture in senso quasi classico. E’ una cosa a cui non avrei mai pensato prima, ma ora mi interessa la forma che si orienta nello spazio e che offre allo spettatore la possibilità di cogliere più punti di vista. Nello stesso tempo immagino la pittura come qualcosa che si espande invadendo il circostante. In questo modo essa assume una dimensione ambientale, quasi spaziale, che la rende simile alla scultura. Quindi, vedo l’importanza di sovrapporre a questa espansione una forma che ha il compito di operare una pressione nei confronti della parete e il ruolo di richiamare a sé, in maniera quasi magnetica, questo moto espansivo.

 

Cerchi di offrire visioni simultanee o sempre diverse?

Simultanee e sempre diverse. Se devo fare un paragone, mi piace pensare al rapporto tra tempo complessivo e immagine singola in un film. Direi che la mia scultura è fatta di fotogrammi fermi. Nella mutevolezza della forma  la separazione di ogni fotogramma è netta ed evidente.

 

Che relazione vuoi instaurare con la parete?

La considero un fondale e uno schermo; un fondale immenso, avvolgente come quello che in teatro si chiama infinito. Appena vi si inchioda qualcosa, quest’infinitezza viene chiamata alla presenza, si mostra con la sua nudità, però continua a parlarci di quello spazio anonimo che è tale per noi solo perché non abbiamo gli strumenti per coglierne l’ampiezza. L’arte invade di sé la realtà circostante, non tanto nella grandezza, quanto per il tentativo (incomprensibile) di ridurre tutto a neutralità.

 

Non sei invogliato ad esplorare le possibilità dei nuovi media tecnologici?

Non ho un grande desiderio di utilizzare certi strumenti, che peraltro conosco bene. Li trovo arretrati e noiosi perché spesso sono al servizio di dinamiche non creative. Chi dice di poter usare il “pennello elettronico” con la stessa libertà e le stesse possibilità creative di un pennello tradizionale, sa di dire una bugia. Non credo che con il digitale e la  comunicazione estesa di Internet si possano risolvere i problemi estetici.

 

Sono strumenti troppo autoritari?

“Autoritari” perché, nonostante le apparenze, sono nelle mani di pochissime persone. Il fenomeno si collega fortemente con la democrazia che oggi è in crisi e lo sarà sempre di più. Bisogna trovare una soluzione alla crisi della democrazia politica senza preoccuparsi troppo dell’aspetto tecnologico che è solo uno fra i tanti.

A cura di Luciano Marucci

 [«Juliet» (Trieste), n. 92, aprile-maggio 1999, pp. 44-45]