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LE SORPRESE DI ALDO MONDINO PDF Stampa

È ormai scontato...: da Aldo Mondino c’è da aspettarsi di tutto... meno il deja vu. Fa parte del suo carattere, del suo modo di essere nell’arte come nella vita. Ce lo ha provato fin dagli esordi nella Torino e nella Roma degli anni Sessanta, quando, stimolato da quel clima di rinnovamento, cercava con determinazione di rendersi indipendente dai gruppi governati da regole comuni... Una tendenza all’individualità che è andata crescendo fino a raggiungere l’orgogliosa posizione che lo tiene fuori dalle esperienze troppo alla moda... che inseguono il facile consenso. Un percorso all’insegna dell’alta in-fedeltà, caratterizzato dall’instancabile ricerca di nuovi mezzi espressivi e di nuovi motivi connessi ai suoi interessi culturali ed esistenziali, senza tuttavia dimenticare il linguaggio pittorico e plastico della gloriosa tradizione per attualizzarlo. In tanti anni di trasgressiva attività prodotto opere differenti dal punto di vista formale e sostanziale, più o meno complesse, ma sempre riconoscibili per sensibilità pittorica e poetica. Ovviamente anche le mostre personali, che gli danno modo di presentare nuovi cicli di opere, riservano sorprese. Ed ha stupito perfino l’esposizione antologica che la Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Trento ha avuto il merito di concretizzare. Mondino, con la complicità di Vittoria Coen, ha riscoperto i pezzi più emblematici del suo imprevedibile cammino e, per non farsi storicizzare o, peggio, mummificare, si è confrontato con il suo passato rimettendosi in discussione. Ha reinventato opere effimere, installato quadri, arredato la Galleria con opere-tenda,  opere-lampadari. L’ha invasa con la “Torre di torrone”, con l’imponente “Dino Jarre”, la dolcificata con quadri e mosaici di zucchero e cioccolatini, con la “Scultura un corno” al cioccolato; la aromatizzata con un tappeto ri-costruito con chicchi di caffé e con i recenti dipinti indiani completati da fiori sparsi sul pavimento. Infine ha disseminato nelle principali vie della città le sue sculture in metallo, finalmente valorizzate in pieno; mentre all’inaugurazione il pubblico è stato coinvolto con musiche e danze esotiche. Dunque, un’altra mostra av-vincente di Mondino che ha dimostrato di saper ancora attrarre lo sguardo in tempi in cui prevale la sonnolenza. Aldo, infatti, non ha perso la grinta giovanile. Anzi, da occasioni espositive come questa riesce a trarre nuove energie per rigenerarsi e compiere scatti in avanti. Così riesce a trasmettere nell’opera tutto il suo autentico amore per l’arte, le sue incontenibili passioni, la religiosa dedizione alla manualità pittorica, la profonda partecipazione intellettuale, filosofica e spirituale alle tematiche affrontate, il gusto per il paradosso e l’invenzione, la divertita disinvoltura. In altre parole, riesce a rappresentare la sua vitalità e quella dei luoghi visitati con l’abilità di un ritrattista di identità, di misteri e magie di individui e comunità esotiche: caratteri di un mondo in via di estinzione sotto l’azione massificante della civiltà post-industriale. Al di là delle valenze estetiche e lirico-magico-mistiche, l’incontro-scontro di culture mette in luce il suo inconfessato bisogno di individuare un patrimonio storico-antropologico da salvare, distante dal nostro quotidiano. A ben guardare, la sua ironia giocosa assume addirittura toni drammatici. Per Mondino non ha senso lavorare senza tendere a meravigliarsi e a meravigliare. Da qui il bisogno di ricercare continuamente mezzi e situazioni affascinanti e spiazzanti. Potrebbe sembrare che il dinamismo creativo e l’immediatezza siano improvvisazioni; in verità le sue scelte sono frutto di studi e di meditazioni; appartengono al suo ben motivato universo, alla sua radicata idea di arte dove tradizione e modernità convivono armonicamente dando attendibile continuità alla storia dell’arte.

 

L’antologica viene riservata a un maestro, a uno “arrivato”; storicizza. Per te cosa ha significato l’occasione espositiva alla Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Trento?

La mostra di Trento è stata una rara occasione per riavere “lavori” che non vedevo da oltre trent’anni ed accostarli ai quadri recenti per poterne constatare ancora la loro attualità.

 

La scelta dei lavori, attentamente curata da Vittoria Coen, oltre che sui pezzi inediti, senza perdere di vista la qualità, era basata sull’uso di materiali diversi.

Forse è questo il filo conduttore della mostra. Non dimenticando che i quadri recenti sono dipinti su linoleum; al caffé, alle cozze, ai pesci, allo zucchero, al torrone e ai recentissimi cioccolatini si sono aggiunti, dopo l’esperienza indiana, i fiori.

 

Nell’excursus dagli esordi all’attualità è stato dato il rilievo che meritava anche alla “scultura”, pure se praticata con discontinuità. E si è visto che non è secondaria all’opera pittorica, la quale spesso gli va incontro oggettualizzandosi e installandosi...

La scultura meriterebbe un discorso a parte. La faccio molto saltuariamente e solo quando proprio ho una idea che ritengo non possa essere espressa con la pittura. La pittura e il disegno, anche per ragioni economiche, rappresentano invece il mio lavoro quotidiano con grande gioia, sempre. Mi piace molto dipingere, lo posso fare ovunque con costi molto limitati e senza dover ricorrere a formatori, marmisti, fonditori, ecc. ecc. Praticamente non dipendo da altri.

 

Nel tuo lungo percorso artistico che rapporto si è instaurato tra immagini e materiali?

Alcuni materiali aggiungono al quadro dei ricordi, dei profumi, dei gusti che altrimenti forse non riuscirei ad esprimere. Penso ai fiori accostati agli ultimi quadri indiani. Mi ricordano il Flower Market di Calcutta, sono profumati e colorati e apportano ai lavori anche una “sacralità” che non sarebbe altrimenti esprimibile.

 

Un’altra caratteristica del tuo lavoro è l’impiego ironico-tautologico della parola che spesso dà l’input e a volte emerge addirittura come soggetto.

È vero, anche se negli ultimi tempi lo è stato un po’ meno e la “pittura” ha preso il sopravvento.

 

Ti è rimasta addosso l’ ‘irrequietezza’ della seconda metà degli anni Sessanta, quando si cercava di dare al quadro altre dimensioni: formali, concettuali e vitali.

Quella che tu chiami “irrequietezza” è probabilmente una caratteristica del mio essere artista. Io non mi sento affatto irrequieto.

 

Più esattamente, da dove proviene la tua carica che rigenera e rende la produzione sempre attraente e fuori serie?

Questa mostra di Trento con un quadro del ‘62 e ad alcuni lavori del ‘64 e via via sino a quelli di oggi, mi pare dimostri che non ci sia un prima e un dopo e tutto possa ben coesistere. Forse il trucco è che ho preso la patente di guida a sessant’anni, farò la Bar Mitvzah a sessantatré, cinquant’anni dopo l’età canonica che è quella dei tredici per i ragazzi ebrei, e mi auguro di fidanzarmi ufficialmente a settanta, per poi spossarmi, aver figli, metter su famiglia e, come si dice, la testa a posto.

 

In sostanza, istintivamente ti tieni fuori dagli schematismi per essere te stesso.

Non direi, come vedi, patente, Bar Mitvzah e fidanzamento ufficiale sono progetti comuni a tutti e rientrano negli schemi...

 

Per evitare la ripetitività e la noia è indispensabile essere intellettualmente curiosi senza badare all’apparente coerenza?

Non conosco la noia, né tanto meno la ripetitività. Dicevo prima che mi piace dipingere. Ogni quadro è una novità e comporta rischi che sono molto emozionanti.

 

Quanto conta la tua dichiarata megalomania nel raggiungimento del risultato?

Più il risultato dell’impegno che io metto nel dipingere è riconosciuto più la mia megalomania può essere appagata. Siamo ancora molto, molto distanti dall’obiettivo e purtroppo la megalomania è insoddisfatta.

 

Quindi, il tuo “vocabolario dalla A alla Z” resta aperto a nuove voci!?

Sono una specie di Enciclopedia Britannica.

 

A proposito della tua in-costanza innovativa, ho notato che dall’Ebraismo legato alle tue origini ti sei Orientato... verso altri mondi. Cosa ti sollecita ad estendere l’esotismo che connota la tua attività?

Mi interessano, come sai, i riti che ti permettono di raggiungere altre dimensioni. Non importa che sia il quotidiano contatto con D. dell’ebreo osservante, la danza dei dervisci, lo yoga dei Sadhu, la pittura dei pittori, la musica per i musicisti.

 

Nel recente viaggio in India cosa hai scoperto?

Un po’ di cose.

 

Sei sempre attratto dall’identità e dai misteri di comunità distanti dalla nostra cultura?

Sì.

 

In fondo, questa tendenza rientra nella divertita natura nomadica e un po’ dadaistica che ti fa rimettere in discussione tutto, tranne la ricerca di soggettività profonde (compresa la tua), di religiosità e vitalità, poesia e leggerezza...

Anche.

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste), n. 99, ottobre-novembre 2000, pp. 34-35]

 

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