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MAURIZIO ARCANGELI PDF Stampa
Luciano Marucci: Dalle prime esperienze con riferimenti ad alcuni protagonisti della storia dell’arte e del contemporaneo alla punteggiatura e alla scrittura. Quando e come è nata l’idea della parola-immagine?

Maurizio Arcangeli: Nel 1988 e l’anno dopo ho esposto quelle opere allo Studio Marconi in una mostra, a cura di Angela Vettese, intitolata “Punti di vista”. UNQUADRO, dipinto dello stesso colore, aveva ciascuna lettera di un tono diverso. Il suo titolo era “Monotono”.

 

Perché ti sei soffermato su UNQUADRO che dialoga con se stesso… e col fruitore?

Secondo me, dialoga molto più direttamente con il fruitore. Se guardi attentamente, quell’oggetto in forma di scrittura è un quadro fatto di tela, telaio e colore. L’immagine, poi, si costruisce nella tua mente attraverso il titolo, i colori e le forme che hai di fronte.

 

Una sfida per dimostrare che si può fare arte partendo da uno stereotipo,  analizzando gli elementi costitutivi ed evitando retorica e ‘clonazione’.

Sicuramente la “clonazione”. La “retorica” forse no, perché i miei Quadri sono olio su tela.

 

Così il “quadro” si autoespone senza cornice e, pur nella calibrata finitezza, annuncia altre metamorfosi.

Mi si presenta in metamorfosi infinite che io scelgo di volta in volta.

 

Un work in progress che potrebbe durare una vita…

Su questo non saprei rispondere, perché il lavoro dell’artista attuale è molto diverso da quello dei protagonisti delle avanguardie storiche (Marcel Duchamp, Henry Matisse) o della seconda avanguardia europea (Joseph Beuys, Michelangelo Pistoletto) che erano mossi da una forte componente ideologica. Oggi l’artista, come il mondo in cui vive, si modifica alla velocità con cui circola l’informazione, che però non è la stessa della cultura.

 

E ti diverti a s-combinare le lettere dell’alfabeto come puzzles!

…Come i bambini, così assorbiti in un gioco, tanto da dimenticare tutto, persino di  mangiare.

 

Metodo strutturale, progettualità e rigore costruttivo, essenzialità e monocromie indicano che hai saputo finalizzare certi insegnamenti dell’Arte Concettuale e Minimal.

Ti rispondo recitando, con beneficio d’inventario per la mia memoria, qualche verso di una poesia scritta da Fausto Melotti: “Da cosa nasce cosa, da una macchia nasce una rosa. Rosa di macchia”.

 

Ormai da un decennio hai trovato una tua identità affermata con ideazioni con-sequenziali, dove testo e cosa si fondono.

Grazie per aver adoperato il termine “fondersi” che in certo senso fa parte della mia poetica. Il “fondere” può essere inteso come perdita di una forma o di una materia per trasformarsi in altro da sé. Esempio: ghiaccio in acqua; acqua in vapore.

 

La tautologia è solo apparente?

Per me esiste come fatto storico, usata dagli artisti degli anni ‘70. Con il mio lavoro cerco di fondere per rinnovare e non di sovrapporre per mostrare il segno-immagine fine a se stesso, senza dare al fruitore la possibilità di vedere altro.

 

I titoli dei tuoi lavori che funzione hanno?

Quasi sempre suggeriscono una immagine mentale e, quindi, individuale che può completare la visione dell’opera.

 

L’opera viene concepita davanti al computer?

In parte sì. Uso il computer come strumento per la progettazione dei lavori.

 

Il mezzo tecnologico, oltre ad accelerare la ricerca del nuovo, ti aiuta a trovare equilibri formali?

Mi facilita nell’organizzazione e nella visione generale del progetto, ma è pur sempre una macchina! Gli equilibri ed il nuovo bisogna cercarli nella propria testa.

 

Le variabili significative sono infinite?

L’arte ha a che fare con la vita e il pensiero. Questi elementi non possono essere circoscritti e quindi restano liberi. Nel momento in cui uno di essi  mi dà la possibilità di rendere visibile e tangibile un’idea, lo utilizzo.

 

Vuoi disciplinare la componente ludica con il rigore minimale?

Cerco di parlare chiaramente attraverso il linguaggio visivo. Non so se ciò può definirsi “minimale”. D’altra parte mi rendo conto che nella contemporaneità viviamo in una babele di linguaggi, dove la dislettura, soprattutto nel campo delle arti visive, è frequente.

 

Che ruolo assegni all’ironia?

È la cosa più seria o banale della vita. Ti fa pensare, quando è sottile; è gratuita, se ovvia.

 

Nella definizione dell’opera la manualità ha sempre la sua importanza?

Sì, nel momento in cui  l’artista gli dà tale valenza. Ad esempio, scattare una foto in bianco e nero e poi farla stampare ad un altro non ridarà certo al fruitore le stesse sensazioni che ha avuto e voluto cogliere il fotografo quando ha scelto quella determinata luce. Invece, se la stampa è eseguita dall’autore, la trasposizione attraverso il media della carta sensibile darà una trascrizione il più vicino possibile alla sensazione ricevuta dal suo occhio.

 

Nel tuo caso si può ancora parlare di “pittura” e “scultura”?

Uso questi termini proprio perché il confine è stabilito dal linguaggio e non dalla visione.

 

Il colore che legame ha con segno-forma-immagine?

Anch’esso è un segno. Ce lo insegna la natura che sul nostro pianeta lo adopera per creare armonia fra le diverse forme di vita.

 

Studi le cromie delle opere tridimensionali anche in relazione al luogo che le accoglie?

Nella maggior parte dei casi.

 

Nel passare dal soggetto digitale all’oggetto artistico cosa aggiungi?

Potrei risponderti: il corpo. Ma forse non basta. Per tentare di chiarire questa affermazione, aggiungerei: la differenza che passa tra una stanza con le pareti affrescate, attraversata al buio da una persona, e la stessa dove al posto degli affreschi vengano collocate alcune sculture. Cosa può succedere di diverso? Tu mi dirai: - Dipende dal materiale delle sculture.

 

È una fase delegabile?

Nella misura in cui, come ti dicevo, il delegato sia in sintonia di sensibilità nella trasmissione del messaggio.

 

Insomma, preferisci giocare da solo fino in fondo…

Quando mi è possibile, sì!

 

A un certo punto del percorso sulla parola hai avvertito il bisogno di uscire più frequentemente dalla virtualità del supporto-quadro per invadere lo spazio reale della parete e dell’ambiente.

Come ci dice Pierre Levy, la parola “virtuale” proviene dal latino medievale virualis, derivato, a sua volta, da virtus:  forza, potenza. Nella filosofia scolastica, virtuale è ciò che esiste in potenza e non in atto. Il virtuale tende  ad attualizzarsi, senza essere tuttavia passato ad una concretizzazione effettiva o formale. L’albero è virtualmente presente nel seme. Volendosi attenere rigorosamente al ragionamento filosofico, il virtuale non si contrappone al reale ma all’attuale: virtualità e attualità sono solo due diversi modi di essere.

 

“Fisicità” e “spazialità” sono costanti del tuo lavoro?

La “spazialità” sì, la “fisicità” non necessariamente.

 

Nel mutare il corpo del soggetto originario superando i codici tradizionali dell’opera pittorica e plastica, in un certo senso fai anti-design...

Credo di sì. Il design implica il progetto di un oggetto d’uso che ha una funzione, una ergonomia e deve essere prodotto in milioni di pezzi, magari con una forma poco riconoscile per la sua funzione, ma in realtà molto più funzionale dell’oggetto riconoscibile. L’opera nasce certamente per altre esigenze ed ha altre finalità.

 

Ovviamente sei interessato alla comunicazione oggettiva.

Anche qui non saprei se chiamarla così; penso meglio a una sorta di pensiero tangibile.

 

Le parole che liberano le lettere tras-formandosi, cosa mettono in scena…?

Mah!  Forse una specie di archetipo.

 

Intendi stabilire una dialettica tra linguaggio visivo e letterario per accrescere la leggibilità… dell’opera?

Assolutamente no. Ognuno di essi possiede una specificità che è impossibile trasferire da un ambito all’altro.

 

Che rapporto hai con la Poesia?

Di rispetto. Infatti, le scrivono i poeti e solitamente non i pittori. Spero che la cosa sia reciproca. Proprio per la predetta specificità, i poeti usano la parola come immagine mentale che, detto in maniera semplicistica, verte alla letteratura. Gli artisti visuali usano i materiali in funzione della visione.

 

L’aspetto ‘didattico’ o l’ordine compositivo sono voluti per favorire una percezione più immediata?

No. Alcune volte è un ordine apparente perché la logica di lettura dell’opera non segue le regole del codice usato. Esempio:  scendere le scale che portano alla metro dalla parte sinistra.

 

Se non sbaglio, nel promuovere con chiarezza espositiva un ‘immaginario razionale’, la tua produzione acquista anche una valenza pedagogica…

Mi sento in questa dimensione per il rispetto delle regole e la distruzione di esse come allenamento per la costruzione di un possibile nuovo.

 

Ora in quale territorio ti stai muovendo?

In quello dell’espressione verbale, che sarà poi tradotta in testo e diverrà un momento letterario che non potrà appartenere al mio lavoro in quanto visivo.

 

A cura di Luciano Marucci

[«Juliet» (Trieste) , n. 100, dicembre 2000-gennaio 2001, pp. 38-39; anche nel catalogo della mostra personale Un quadro, Museo d’Arte Contemporanea “Su logu de s’iscultura”, Tortolì (NU), 2003]

 

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