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MAURIZIO MERCURI PDF Stampa

Il tuo lavoro spazia dal segno alla pittura, dalla combinazione di oggetti all’installazione, dalla performance al video. E dimostra di non subire condizionamenti di stile. Anche se traspaiono affinità di fondo con alcuni movimenti delle neoavanguardie, nelle modalità formative dell’opera prevale un’indipendenza dai canoni convenzionali.

Sfuggire alle classificazioni critiche non è semplice (e neanche necessario), dal momento che anche outsider è comunque una categoria. Il mio lavoro è un’idea dove la mente e la realtà costruiscono immagini per riflettere su qualche cosa che si conosce già. Mi piace combinare diversi media in relazione alle esigenze del progetto o alle mie attitudini. Lo spunto per un’opera può trovarsi in un elemento apparentemente banale. Un materiale nuovo è già un punto di partenza. Adesso, per esempio, sto allestendo un lavoro per il web, un mezzo stimolante, con l’impiego di sussidi audiovisivi. Sarà on line tra pochissimo.

 

Vedo che pratichi l’arte con la stessa libertà del gioco, con il piacere di chi impiega con passione il tempo libero, facendo dell’hobby un mestiere non professionale.

La realizzazione di un’opera è frutto di un connubio fra tensione e passatempo. Per esempio, il video in cui mi “spello” le mani dopo averle spalmate di Vinavil, rimanda alle cose che si fanno a scuola quando sei all’ultima ora, all’ultimo banco…, ma l’idea del corpo rende la cosa un po’ più drammatica.

 

Invece di sfruttare la formazione accademica, ti ‘abbandoni’ alla spontaneità dell’atto creativo, sia pure associandolo all’analisi…

Applico il principio dell’osservazione partecipante: essere decostruttivo nei confronti dei meccanismi comunicativi, confrontare le parole e le cose fino a perdere le tracce del significato.

 

Spesso aleggia anche lo spirito impertinente del comic…

L’ironia dà le possibilità di essere creativo e ricreativo. Quando ho realizzato con l’immagine della mia faccia il light box a raggi ultravioletti che abbronza gli spettatori, ho pensato ad un oggetto che potesse avere il controllo del territorio, permeare lo spazio in maniera fredda, ma con una percentuale di ambiguità che desse un clock umano al lavoro.

 

L’elemento di partenza è sempre la realtà, il vissuto.

Be’, naturalmente. Dice infatti Ejgenstein (1964): “L’organicità dell’opera e il sentimento di organicità prodotto dall’opera insorgono quando la legge di costruzione dell’opera corrisponde alle leggi di strutturazione dei fenomeni della natura”. È un pensiero che condivido. Cerco di costruire un mondo parallelo in cui si compenetrino naturale e artificiale.

 

Le opere in cui c’è il recupero del banale e obsoleto oggetto di consumo potrebbero mascherare una sottile critica all’omologazione e alla ritualità dell’usa e getta. …Un’ecologia della mente.

La cultura consumistica o la mancanza di spazio impongono di liberarsi degli oggetti che ci appartengono facendoci gettare con loro anche una tranche del nostro passato. Gli oggetti abbandonati dai proprietari sono segni di qualcos’altro e rimandano ai vissuti come frammenti di un altro universo. Il riscatto dell’oggetto spetta all’artista, non solo come generatore di senso, ma soprattutto come detentore di potere.

 

Da un lato l’utilizzazione di certi materiali industriali legati alla funzione reale e di altre icone del quotidiano favorisce la comunicazione; dall’altro la soggettivazione di essi crea una trasformazione di senso e uno spiazzamento. Questo cortocircuito percettivo è voluto?

Voluto e ricercato, con l’adozione a distanza di funzionalità distorte, mascheramento dei contenuti e altri effetti speciali. Il risveglio della percezione è garantito.

 

A giudicare da certi lavori digitali, a volte la provocazione si tramuta in un coinvolgimento interattivo di tipo comportamentale.

L’opera propone una teoria e lo spettatore, che da semplice fruitore diviene interprete protagonista, partecipa ad un processo di analisi inconsapevole. L’interattività o la provocazione non mi interessano in sé, ma come additivi che evidenziano il linguaggio di differenti ambiti della comunicazione.

 

Le opere tridimensionali richiedono una progettualità e una perizia tecnica propria del costruttore di sofisticati congegni elettronici, cioè procedimenti artistici non codificati.

I miei lavori sono spesso ispirati da conoscenze extra-artistiche. Progettare opere che connotano ambiti disparati, come “Bar di liquori mignon” con doppio fondo o quella con delle lampadine immerse nel Vicks Vaporub che lo fanno evaporare…, è un modo per indagare sull’essenza e sull’esistenza di una realtà in disordine ma sostenibile.

 

L’informatica è utilizzata senza subirne il fascino e la specificità   tecnica?

Svelare il fascino è il gioco; il gioco che mostra il trucco. Gli argomenti vivono in un campo di forza. L’idea è creare e cercare dei punti di equilibrio, dei ponti tra diversi immaginari.

 

Anche in questo caso riesci a far convivere il naturale con l’artificiale?

La convivenza degli elementi non è un presupposto o una poetica: è un aggettivo interpretativo, una direzione possibile per chi osserva.

 

Tutto resta coerente all’economia costruttiva, alla necessità di smaterializzare…

Il nucleo economico fondato dall’opera non è quello di una serie di immagini, ma di un rapporto tra pensieri e oggetti mediato da esse.

 

Il metodo analitico è rispettato anche quando nell’opera l’aspetto giocoso è  più marcato?

Naturalmente…

 

Ho notato che il paradosso non è mai espresso dal gigantismo o dalla monumentalità, ma dalle componenti minimali e dalla leggerezza della dimensione ironico-poetica.

Infatti, queste categorie non sono correlate. In un lavoro decisamente ingombrante come Kultur und gesellschaft (fontana di birra) l’attenzione è meccanicamente deviata verso il lato alcoolico e spirituale, un non sense leggero e immateriale. Mentre Naxos, un oggetto assolutamente minimale (naso di resina che, grazie ad una calamita interna, punta sempre il nord), si sostiene sul ‘peso’ concettuale.

 

Quindi, ingegno creativo e invenzione parascientifica si fondono generando un ibrido dotato di nuova energia vitale.

 

       A cura di Luciano Marucci

  [«Juliet» (Trieste), n. 101, febbraio-marzo 2001, p. 59]